ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Scheda  
20 Ottobre 2020


L’eccesso di delega nell’attuazione del principio della ‘riserva di codice’: sollevata questione di legittimità costituzionale in riferimento al commercio di sostanze dopanti

Cass., Sez. III, ord. 21 luglio 2020 (dep. 21 settembre 2020), n. 26326, Pres. Di Nicola, Est. Corbetta, Imp. Bufano



1. Con l'ordinanza in epigrafe, la Terza sezione della Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale – per contrasto con l’art. 76 Cost. – dell’art. 586-bis, co. 7, c.p., nella parte in cui prevede il dolo specifico del “fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”.

La censura muove dal rilievo secondo cui il legislatore delegato – nel dare attuazione alla delega contenuta nella c.d. “legge Orlando” (l. n. 103/2017) relativa all’introduzione del principio della c.d. “riserva di codice” nel nostro ordinamento penale – non si sarebbe limitato a traslare all’interno del codice penale la fattispecie di commercio di sostanze dopanti prevista dall’art. 9, co. 7, legge n. 376 del 2000, ma ne avrebbe altresì modificato il precetto penale.

L’aggiunta del dolo specifico, infatti, sia pure incidendo sul solo elemento soggettivo, ha determinato una parziale abolitio criminis delle condotte di commercio clandestino di sostanze dopanti che, stando all’attuale formulazione dell’art. 586-bis, co. 7, c.p., dovrebbero essere sanzionate penalmente soltanto quando finalizzate all’alterazione delle prestazioni agonistiche degli atleti.

La riduzione dell’area penalmente rilevante in assenza di una legittimazione nella legge delega integra tuttavia, a parere del Collegio rimettente, una violazione del procedimento legislativo sancito dall’art. 76 della Carta costituzionale, con la conseguente illegittimità della disposizione normativa introdotta.

 

2. Nel caso di specie, la Cassazione è chiamata a esaminare la posizione del titolare di una palestra condannato dalla Corte d’appello di Lecce per avere commercializzato – mediante consegna a numerosi soggetti praticanti l’attività di culturismo, tra cui due partecipanti a gare pubbliche di body building – specialità medicinali ad azione anabolizzante ottenute attraverso canali non ufficiali e mediante la predisposizione di ricette mediche falsificate.

Nella fase di merito del giudizio si è peraltro accertato che l’imputato ha commercializzato clandestinamente le sostanze anabolizzanti in maniera continuativa, circostanza che permette di sussumere senz’altro il fatto concreto nella fattispecie astratta del commercio di sostanze dopanti di cui al comma 7 dell’art. 586-bis c.p. e non, come invece richiesto dalla difesa dell’imputato, nella meno grave ipotesi di cui al co. 1 del medesimo articolo, che punisce chi procuri ad altri le sostanze in maniera occasionale.

 

3. Come accennato, l’art. 9, co. 7, legge n. 376 del 2000 incriminava la commercializzazione tout court delle sostanze dopanti, a prescindere da quale fosse la finalità per cui l’agente avesse compiuto tale condotta.

In attuazione del principio della c.d. “riserva di codice” il Governo ha poi trasferito all’interno del codice penale talune figure criminose già contemplate da altre leggi complementari, tra cui quelle aventi ad oggetto la “tutela della salute”. In particolare, l’art. 7, co. 1, lett. n), d.lgs. n. 21 del 2018 ha abrogato l’art. 9, della legge n. 376 del 2000 e, contestualmente, l’art. 2, co. 1, lett. d), del medesimo decreto legislativo ha introdotto l’art. 586-bis c.p., rubricato “utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”.

Nel compiere tale operazione di riordino normativo il legislatore delegato ha però modificato il co. 7 del nuovo art. 586-bis c.p. introducendo un inciso che impone (ora) di punire colui che ponga in essere un’attività di commercializzazione di sostanze dopanti soltanto quando compia la condotta “al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”.

Non vi è dubbio – rileva il giudice rimettente – che l’introduzione del dolo specifico nella fattispecie astratta, seppure incidendo sul solo elemento soggettivo e seppure (naturalmente) non richieda che quel fine sia effettivamente conseguito, ha determinato una parziale abolitio criminis, non essendo più punito il commercio di sostanze dopanti che sia commesso in assenza della finalità di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti.

Il nuovo art. 586-bis, co. 7, c.p., inoltre, in quanto norma più favorevole proprio perché restringe il perimetro dell’area penalmente rilevante, è destinato a trovare applicazione retroattiva anche in relazione ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore (art. 2, co. 2, c.p.).

In proposito il Collegio ha sottolineato come dalla sentenza impugnata, e anche da quella di primo grado, emerga il difetto in capo all’imputato del dolo specifico di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti a cui cedeva le sostanze dopanti. In applicazione della nuova fattispecie incriminatrice l’imputato dovrebbe dunque essere assolto per difetto dell’elemento soggettivo e, pertanto, non sussiste alcun dubbio sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata d’ufficio dalla Cassazione.

 

4. Opportunamente, il Collegio rimettente si è preoccupato di vagliare l’ammissibilità della questione di incostituzionalità anche sotto il delicato profilo degli effetti in malam partem che un’eventuale sentenza di accoglimento produrrebbe.

Come noto, infatti, la possibilità che simili effetti discendano da una pronuncia della Corte costituzionale è, di regola, esclusa in forza del principio, sancito dall’art. 25, co. 2, Cost., che riserva al solo legislatore la determinazione dei precetti penali.

Tale regola non è tuttavia assoluta e subisce alcune eccezioni, tra cui proprio il caso di scorretto esercizio del potere legislativo da parte del Governo che abroghi, mediante decreto legislativo, una disposizione penale in assenza di apposita previsione autorizzativa nella legge delega.

A conferma, l’ordinanza di rimessione cita due recenti decisioni della Corte costituzionale che, seppure definite con pronunce di inammissibilità e infondatezza per ragioni diverse, hanno ribadito sia l’ammissibilità di una questione di legittimità volta a censurare una disposizione abrogante contenuta in un decreto legislativo in contrasto con le scelte di penalizzazione espresse dall’organo parlamentare, sia la conseguenza che deriva da un tale accertamento: ossia l’illegittimità costituzionale della norma abrogante prevista dal decreto legislativo e il ripristino della norma incriminatrice preesistente mai validamente abrogata (sentenze nn. 37 e 189 del 2019).

 

5. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, la Cassazione sottolinea in primo luogo la chiarezza del tenore letterale della legge delega: il Governo era stato autorizzato soltanto a trasferire specifiche disposizioni incriminatrici previste da leggi complementari all’interno del codice penale, in attuazione del principio della c.d. “riserva di codice” nella materia penale, al fine di realizzare una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi, in ultima analisi, della funzione rieducativa della pena.

La mera intenzione del legislatore di traslare le fattispecie incriminatrici dalle leggi complementari all’interno del codice penale emergerebbe inoltre, secondo il giudice rimettente, sia dall’espressa previsione dello stesso art. 8 d.lgs. n. 21 del 2018 che stabilisce come, dalla data della sua entrata in vigore, i richiami alle disposizioni abrogate si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni introdotte nel codice penale; sia dall’identità della pena comminata dalle nuove disposizioni.

Rileva infine il Collegio che la scelta di politica criminale, operata illegittimamente dal legislatore delegato attraverso l’introduzione del dolo specifico nella nuova fattispecie incriminatrice, si porrebbe in contrasto finanche con la stessa ratio della legge di delega. La dichiarata finalità della c.d. legge Orlando era infatti quella di contribuire alla tutela della salute pubblica assicurando una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni penali diretti a preservarla; la norma censurata, invece, ha reso punibile la commercializzazione delle sostanze dopanti soltanto quando sia finalizzata all’alterazione delle prestazioni agonistiche.

In definitiva, la Terza sezione della Cassazione ritiene che il Governo abbia ecceduto nell’uso della delega conferita con la legge n. 103 del 2018 volta al mero riordino delle fattispecie di reato già previste in norme extracodicistiche, e chiede dunque alla Corte costituzionale una pronuncia manipolativa che elimini l’inciso dell’art. 586-bis c.p. relativo al dolo specifico del “fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”.

 

* * *

 

6. Era solo una questione di tempo: già i primi commenti immediatamente successivi alla attuazione della c.d. “riserva di codice” avevano invero sottolineato l’anomalia che aveva colpito la fattispecie del commercio di sostanze dopanti nella sua traslazione all’interno del codice penale[1].

La significativa variazione sostanziale determinata dall’introduzione del dolo specifico del “fine di alterare le prestazioni agonistiche” non era sfuggita neppure alla primissima applicazione giurisprudenziale dell’art. 586-bis c.p. Il Tribunale di Brescia (sentenza n. 1642 del 2018, in DeJure) aveva infatti già rilevato la possibile illegittimità del settimo comma di tale articolo; tuttavia aveva deciso di non sollevare la questione di costituzionalità ritenendo che, in quel caso di specie, difettasse il requisito della rilevanza poiché l’imputato – pur eliminando dalla fattispecie astratta l’elemento del dolo specifico – sarebbe comunque stato condannato.

Opportunamente, dunque, nell’ordinanza in commento, la Cassazione ha precisato come, in relazione alla vicenda sottoposta alla propria attenzione, i giudici di merito abbiano espressamente sottolineato il difetto in capo all’imputato del dolo di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti a cui aveva ceduto le sostanze dopanti. Con la conseguenza che si perverrebbe a una decisione diametralmente opposta a seconda del parametro normativo utilizzato: l’assoluzione per difetto dell’elemento soggettivo applicando il vigente art. 586-bis, co. 7, c.p.; la condanna, invece, ove si applicasse la fattispecie contemplata dall’abrogato art. 9, co. 7, legge n. 376 del 2000 che, come detto, non prevedeva il dolo specifico.

 

7.  Quanto al profilo della ammissibilità occorre rilevare come la stessa Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 37 del 2019, abbia colto l’occasione per ribadire quali sono le eccezioni al principio di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale che mirano a produrre effetti in malam partem:

a) l’ipotesi di una norma penale di favore che sottragga irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero che preveda per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006);

b) il caso dello scorretto esercizio del potere legislativo: da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014); da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014);

c) l’evenienza della conseguenza indiretta della reductio ad legitimatem di una norma processuale, derivante dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale (sentenza n. 236 del 2018);

d) infine, la circostanza di contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 17, co. 1, Cost. (sentenza n. 28 del 2010).

La questione sollevata dalla Cassazione è riconducibile nella categoria sub b), il che depone a favore della sua ammissibilità. Del resto, la stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 189 del 2019, ha affermato l’ammissibilità delle ordinanze di rimessione che censuravano l’eccesso di delega del Governo per l’introduzione dell’art. 570 bis c.p. proprio in attuazione della c.d. “riserva di codice”.

A differenza di quanto accaduto in occasione della questione decisa con la nota sentenza n. 5 del 2014, tuttavia, nel caso in esame il giudice rimettente non chiede alla Consulta di accertare l’illegittimità tout court della norma abrogatrice e la conseguente reviviscenza di una fattispecie incriminatrice espunta dall’ordinamento.

La Terza sezione della Cassazione rileva infatti come l’uso scorretto della delega da parte del Governo nell’introdurre il nuovo art. 586-bis c.p. abbia determinato una abolitio crimins soltanto parziale e, pertanto, correttamente, il petitum dell’odierna ordinanza di rimessione è quello di elidere dalla disposizione censurata solo l’inciso che ha introdotto il dolo specifico “del fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”. Una tale soluzione, seppure rappresenti un ulteriore tassello di novità nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale con effetti in malam partem[2], risulta senz’altro il mezzo più idoneo ad eliminare quella sola parte della nuova disposizione che ha prodotto un illegittimo effetto modificativo rispetto a quelle che erano state le scelte di penalizzazione compiute dal Parlamento.

 

8. A ben vedere, essendo l’art. 76 della Costituzione l’unico parametro che la Cassazione assume violato, i giudici a quibus avrebbero probabilmente potuto individuare la norma oggetto di censura nell’art. 2, co. 1, lett. d), d.lgs. n. 21 del 2018, ossia nella disposizione che ha introdotto nel codice penale il nuovo art. 586-bis.

Il vizio di legittimità costituzionale rilevato dal Collegio rimettente, infatti, attiene a un profilo procedurale inerente al rapporto tra Parlamento e Governo, e al ruolo che ciascuno dei due organi riveste nel particolare procedimento legislativo da cui origina il decreto. Dunque, a violare il principio costituzionale secondo cui il Governo deve attenersi ai principi e ai criteri direttivi previsti nella legge delega è anzitutto la disposizione del decreto legislativo, e cioè quella disposizione che costituisce il risultato dell’iter legislativo che si assume violato; e non invece la disposizione (nel nostro caso, l’art. 586-bis c.p.) incisa per mezzo del decreto legislativo formato illegittimamente.

Nondimeno, riteniamo che non si versi in un caso di aberratio ictus meritevole di una pronuncia di inammissibilità[3]: in primo luogo, perché il thema decidendum appare del tutto chiaro sia dal dispositivo che dall’intera motivazione del provvedimento di rimessione, che menzionano anche la disposizione del decreto legislativo; in secondo luogo perché la norma che il Collegio rimettente è chiamato ad applicare nel giudizio a quo per decidere il caso di specie è effettivamente l’art. 586-bis c.p., ancorché nella formulazione delineata dal decreto legislativo che tale articolo ha introdotto.

 

9. Si noti inoltre la particolarità dell’asserito vizio di legittimità occorso nell’attuazione del principio della “riserva di legge”.

Una parte della dottrina è infatti solita criticare la prassi di legiferare (anche) in materia penale attraverso lo strumento del decreto legislativo perché la legge delega spesso non rispetta standard adeguati di analiticità e chiarezza. Nel caso in esame, invece, la legge delega era senz’altro chiara e precisa e, nondimeno, il Governo ha esercitato la funzione legislativa andando oltre i limiti autorizzati dal Parlamento.

Anche questo episodio, dunque, seppure inerente a una disposizione destinata a trovare una applicazione limitata, è indicativo dell’esigenza di invertire l’attuale prassi parlamentare e governativa  di ricorrere costantemente a decreti legislativi e decreti-legge anche in materia penale, e dell’opportunità di escludere tali decreti dalle fonti del diritto penale, al fine di rispettare pienamente il principio di riserva di legge di cui all’art. 25, co. 2, Cost.[4]

 

10. Un’ultima postilla sui possibili risvolti di diritto intertemporale.

L'eventuale sentenza di accoglimento produrrebbe l’effetto di rendere applicabile il delitto di commercializzazione di sostanze dopanti, nella sua formulazione originaria prevista dall’art. 9, co. 7, legge n. 376 del 2000, nei confronti di tutti quei soggetti che hanno commesso il fatto prima del 6 aprile 2018, data di entrata in vigore del d.lgs. che ha attuato il principio della “riserva di codice”, e nei confronti di quegli eventuali nuovi fatti che verrebbero eventualmente commessi in data successiva alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale sulla Gazzetta ufficiale.

L’abolitio criminis delle condotte di commercializzazione non finalizzate alla alterazione delle prestazioni agonistiche degli atleti rileverebbe cioè solo con riferimento ai fatti commessi tra il 6 aprile 2018 e la declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art. 586-bis c.p. Come noto, infatti, ferma restando la legittimità del sindacato costituzionale anche con effetti in malam partem, la dichiarazione di illegittimità costituzionale non può produrre conseguenze sfavorevoli nei confronti di chi abbia commesso un fatto in vigenza di una legge che non qualifichi tale fatto come reato al momento della sua commissione.

 

 

[2] Cfr. V. Manes-V. Napoleoni, La legge penale illegittima, Torino, 2019, p. 408 ss. e, volendo, C. Bray, Illegittima la pena minima per il traffico di droghe ‘pesanti’? Tre questioni all’esame della Consulta, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 2/2017.

[3] Sulla giurisprudenza costituzionale in materia, cfr. V. Manes-V. Napoleoni, La legge penale illegittima, cit., p. 248.

[4] Sulla riserva di legge come riserva di legge formale dello Stato, cfr. G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, IX ed., 2020, p. 45 ss.