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13 Aprile 2020


La Cassazione sul caso Vannini: i rapporti tra omicidio mediante omissione e omissione di soccorso aggravata dall’evento morte in un noto caso di cronaca

Nota a Cass., Sez. I, sent. 7 febbraio 2020 (dep. 6 marzo 2020), n. 9049, Pres. Di Tomassi, Est. Santalucia, P.G. in proc. Ciontoli



1. Con la decisione in commento, la Cassazione interviene su un noto caso di cronaca: l’omicidio di Marco Vannini, nell’abitazione della fidanzata, a seguito di un accidentale colpo di arma da fuoco esploso dal padre della ragazza e del ritardo nei soccorsi, imputabili al padre stesso e ai familiari presenti. La S.C. annulla la sentenza pronunciata dalla Corte di assise d’appello di Roma che, all’esito del secondo grado di giudizio, aveva condannato tutti gli imputati per omicidio colposo[1], e demanda  al giudice del rinvio  una nuova valutazione dell’elemento soggettivo con riferimento a tutti gli imputati. Ciò che la Corte di legittimità invece conferma è la qualificazione del fatto in termini di omicidio mediante omissione, rinvenendo una posizione di garanzia ex art. 40, comma 2, c.p. in capo ai presenti sul luogo del delitto, in forza di un’assunzione de facto delle cure del ferito.

 

2. La vicenda risale al maggio 2015 e riguarda la morte di Marco Vannini, causata da un colpo di pistola che lo raggiunse al braccio destro e che attraversò polmone destro e cuore, mentre questi si trovava nella casa della fidanzata Martina Ciontoli.

In base al capo di imputazione, la condotta fu colposa: per un tragico scherzo Antonio Ciontoli, padre di Martina, ritenendo che la pistola semiautomatica – da lui detenuta per ragioni di servizio, in quanto appartenente alla Marina Militare – fosse scarica, la puntò in direzione di Marco Vannini, mentre questi stava facendo la doccia, e premette il grilletto.

Alla prima condotta di natura commissiva e colposa – inquadrata  nel capo di imputazione alla stregua di un antefattodopo che Ciontoli Antonio…aveva esploso colposamente…») – seguì l’omissione di una tempestiva sollecitazione dei soccorsi, imputabile a tutti i membri della famiglia presenti quella sera: oltre ad Antonio Ciontoli, anche a Martina e Federico Ciontoli e a Maria Pezzillo, rispettivamente figli e moglie di Antonio[2].

Stando alla ricostruzione del fatto condivisa da entrambe le sentenze di merito, risulta che Antonio Ciontoli fosse solo al momento dello sparo[3] e che Martina e Federico accorsero solo dopo aver sentito il rumore dell’esplosione, intorno alle 23.15; entrambi riferirono che in quel frangente il padre li aveva assicurati si era trattato di un “colpo d’aria”.

Dalla registrazione delle telefonate al 118, emerge che Federico effettuò una prima chiamata alle ore 23.41, riportando che un ragazzo, per via di uno scherzo, si era sentito male e “non rispondeva più”; ad un certo punto della telefonata interveniva Maria Pezzillo che – sollecitata dalla voce di un uomo, evidentemente Antonio Ciontoli – avvertiva che non c’era necessità di soccorso.

Una seconda chiamata fu effettuata alle ore 00.06, questa volta da Antonio Ciontoli, che chiedeva soccorso per un ragazzo caduto nella vasca e bucatosi con un pettine a punta. Una volta giunta l’ambulanza alle ore 00.22, Martina Ciontoli riferì all’infermiera che non sapeva cosa fosse accaduto e il padre disse che il ragazzo era “un po’ svenuto”, preso “da un attacco di panico, una crisi d’ansia”, per poi precisare che “era scivolato e si era ferito con un pettine a punta”.

Vannini venne trasportato in stato comatoso presso il posto di primo intervento, dove morì qualche ora dopo per anemia emorragica.

 

2.1 La Corte di assise di Roma condannò Antonio Ciontoli a quattordici anni di reclusione per il delitto di omicidio omissivo doloso e per la contravvenzione di omessa custodia dell’arma. Federico e Martina Ciontoli e Maria Pezzillo – per i quali era stata mossa la medesima imputazione di omicidio doloso – vennero condannati a tre anni di reclusione ciascuno per il delitto di omicidio colposo (specificamente per concorso colposo nell’omicidio doloso commesso da Antonio Ciontoli), avendo la Corte d’assise escluso che fossero stati presenti al momento dello sparo ed avendo accertato che non erano stati informati circa l’esatta causa del ferimento. Ad avviso della Corte d’assise, essi tuttavia omisero di verificare la causa del malessere di Marco Vannini, nonostante fossero consapevoli della gravità della ferita e avessero assistito al progressivo peggioramento delle condizioni di salute della vittima.

La Corte d’assise di appello, confermando la condanna di Federico e Martina Ciontoli e di Maria Pezzillo, riformò la sentenza nei confronti di Antonio Ciontoli e lo condannò a cinque anni di reclusione, ritenendo che i fatti a lui ascritti integrassero il reato di omicidio colposo con l’aggravante di aver previsto l’evento, fermo il riconoscimento della responsabilità per la contravvenzione di omessa custodia dell’arma.

Ricorreva per Cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Roma, deducendo vizio di violazione di legge e difetto di motivazione quanto alla ritenuta mancanza del dolo eventuale in capo ad Antonio Ciontoli e ai suoi familiari.

Ricorrevano, inoltre, Federico e Martina Ciontoli e Maria Pezzillo, lamentando l’erronea qualificazione del fatto in termini di omicidio omissivo, atteso che in capo a nessuno di essi era rinvenibile una posizione di garanzia idonea ad attivare la clausola di equivalenza di cui all’art. 40 co. 2 c.p.

 

3. Vi è da rilevare, innanzitutto, che la Corte di cassazione non si discosta dall’impostazione binaria adottata dalle sentenze di merito (e suggerita dal capo di imputazione), in base alla quale oggetto del giudizio è il “secondo tratto di condotta”, caratterizzato dall’omessa allerta dei soccorsi, comune a tutti gli imputati. Una differenziazione tra le posizioni degli imputati potrà dunque operare soltanto sul piano della consapevolezza della gravità delle condizioni di Vannini (elemento soggettivo).

Ma iniziamo dal fatto. La Corte si sofferma innanzitutto sulla qualificazione giuridica della condotta omissiva e conferma l’applicabilità dell’art. 40 cpv. c.p. nei confronti di tutti gli imputati, pur criticando le argomentazioni utilizzate a tal fine dalle corti di merito.

Il tema è quello dei rapporti tra omissione di soccorso ex art. 593 co. 2 c.p., nella forma aggravata dall’evento morte di cui al comma terzo, e reato omissivo improprio previsto dall’art. 40 cpv. c.p., in combinato disposto con norme di parte speciale – in questo caso, l’art. 575 c.p. o l’art. 589 c.p., a seconda che l’omicidio sia considerato doloso o colposo.

La sentenza di primo grado si limitava ad affermare in maniera apodittica che le condotte negligenti dei Ciontoli andarono «ben oltre la mera omissione del soccorso, integrando, piuttosto, il più grave delitto di cui all’art. 589 cod. pen.». La Corte d’assise d’appello faceva uno sforzo ulteriore e, individuato l’obbligo giuridico di impedire l’evento nel principio del neminem laedere, sosteneva che in questo caso non sarebbe stato applicabile l’art. 593 c.p. per difetto di tipicità, poiché “i responsabili dell’aggravamento delle condizioni del ferito” – e a fortiori colui che ha esploso il colpo – non possono “ritrovare” un corpo inanimato.

Tuttavia, come fa notare la Corte di cassazione, il giudice di merito incorre in un «vizio logico determinato dalla confusione tra le due diverse sequenze, cronologicamente ordinate, di cui si compone il fatto secondo la premessa dalla stessa Corte di assise formulata». I familiari accorsero nel bagno non appena avvertirono il rumore provocato dallo sparo, trovandosi di fronte Marco Vannini ferito (prima, dunque, che potessero essere ritenuti “responsabili dell’aggravamento delle condizioni del ferito”).

Da tempo, d’altronde, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che «il termine trovare deve intendersi nel senso di imbattersi, venire in presenza di, e implica un contatto materiale diretto, attraverso gli organi sensoriali, con l'oggetto del ritrovamento», senza che rilevi «la presenza in loco dell'agente prima che il pericolo sorga, non potendo escludersi l'obbligo del soccorso sol perché il contatto sensoriale fra agente e soccorrendo si verifica non a causa di una condotta posta in essere dal primo ma a causa di una condotta dello stesso soccorrendo o di terzi» (Cass., Sez. V, 31/01/1978, n. 6339, Ballestrero, vd. anche Cass., Sez. V, 21/11/1974, n. 3894, Luini).

Il requisito del “ritrovamento” sussiste, di conseguenza, anche con riferimento alla posizione di Antonio Ciontoli, autore del ferimento, poiché «dovette […] essere sorpreso da un fatto per lui non prevedibile e, al pari degli altri, si trovò al cospetto di un ferito bisognoso di soccorso». Come fa notare la Corte, diverso sarebbe stato se Antonio Ciontoli avesse sparato con dolo: sarebbe illogico assegnare un obbligo di soccorso a colui che ha volontariamente causato una situazione di pericolo[4].

La Corte di cassazione esclude, inoltre, che l’applicazione di una fattispecie in luogo dell’altra dipenda dalla sussistenza del nesso causale tra condotta omissiva ed evento morte o dalla verifica circa la colpevolezza dell’autore: tali requisiti sono infatti necessari ai fini dell’applicabilità di entrambe le fattispecie [5].

 

3.1 Ad avviso dei giudici, l’elemento distintivo tra le due fattispecie consiste, piuttosto, nella sussistenza di una posizione di garanzia: il motivo per il quale le condotte degli imputati integrano il reato di omicidio mediante omissione e non di omissione di soccorso sta nel fatto che Antonio Ciontoli e la sua famiglia violarono «un obbligo di intervento qualitativamente diverso dal mero obbligo di soccorso ed espressivo di una posizione di garanzia». La fonte di un tale obbligo giuridico non può d’altra parte essere individuata, come fa la Corte d’assise d’appello, in un principio generalissimo qual è quello del neminem laedere, il quale, incombendo su qualsiasi consociato, non ha alcuna capacità selettiva per la costituzione di posizioni di garanzia qualificate.

La distinzione tra i due obblighi è ricostruita dalla Corte Suprema nei seguenti termini: «la posizione di garanzia [è] l’obbligo gravante su categorie predeterminate di soggetti a cui la legge extrapenale o altra fonte giuridica - quale il contratto - capace di produrre un obbligo assegni a terzi adeguati poteri per l'impedimento di eventi offensivi di beni altrui, la cui tutela è a loro affidata in ragione dell'incapacità dei titolari di provvedere autonomamente alla loro protezione […] l'obbligo di attivarsi è invece quello di agire a tutela di certi beni che sorge in capo a soggetti privi di poteri giuridici impeditivi dell'evento al verificarsi di un determinato presupposto di fatto individuato dalla stessa norma incriminatrice».

Ripercorrendo la sequenza di azioni poste in essere dagli imputati, la Cassazione sostiene che tutti presero parte alla gestione delle conseguenze dell’incidente, concludendo che essi «assunsero volontariamente rispetto a Marco Vannini, rimasto ferito nella loro abitazione, un dovere di protezione e quindi un obbligo di impedire conseguenze dannose per i suoi beni, anzitutto la vita». In quest’ottica, la consapevolezza della gravità dell’accaduto «ancora prima di essere valutata sul piano dei profili soggettivi di responsabilità, ha segnato l’assunzione volontaria del dovere di protezione in favore di Marco Vannini non appena questi rimase ferito e ben prima che l’evento morte ebbe a verificarsi».

A tal proposito, la sentenza annotata richiama il principio di diritto affermato da Cass., Sez. IV, 20 giugno 2010, n. 38991, Quaglierini, secondo cui «si delinea una posizione di garanzia a condizione che: (a) un bene giuridico necessiti di protezione, poicheé il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; (b) una fonte giuridica - anche negoziale - abbia la finalità di tutelarlo; (c) tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate; (d) queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero che siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l'evento dannoso sia cagionato».

 

4. Dimostrata l’applicabilità dell’art. 40 cpv. c.p., resta da verificare se gli imputati (non) agirono con dolo o con colpa e, dunque, se la suddetta norma di parte generale debba essere riferita all’art. 575 c.p. o all’art. 589 c.p.

A parere della Suprema Corte, la Corte d’assise d’appello, nel negare la sussistenza del dolo eventuale in capo ad Antonio Ciontoli e ai suoi familiari, ha travisato le indicazioni interpretative contenute nella fondamentale pronuncia delle Sezioni Unite sulla vicenda Thyssenkrupp (Cass., SS.UU., 24/04/2014, n. 38343, Espenhahn). In quel caso la Cassazione chiariva che nel dolo eventuale la volontà si esprime nella consapevole e ponderata adesione all’evento e che – a tal fine – non bisogna verificare se l’agente abbia accettato il rischio del verificarsi dell’evento, quanto, piuttosto, se egli abbia accettato l’evento. È infatti nel concreto confronto dell’agente con l’evento – e, infine, nell’accettazione della realizzazione dell’evento – che si sostanzia la ragione della rimproverabilità della condotta, e quindi della colpevolezza.

Le difficoltà per l'interprete non sono tanto di definizione, di inquadramento dogmatico, quanto di accertamento[6]; ed è proprio su questo terreno di ricostruzione indiziaria che, a parere della Corte di legittimità, la sentenza impugnata rivela errori applicativi e difetti di motivazione.

La valutazione dell’elemento soggettivo non può essere omnicomprensiva, ma deve distinguersi la posizione di Antonio Ciontoli – che, avendo esploso il colpo, ben conosceva lo stato di pericolo in cui versava Vannini – da quella dei familiari, intervenuti successivamente.

 

4.1 Quanto ad Antonio Ciontoli, la sentenza impugnata afferma che se l’imputato avesse avuto certezza della verificazione dell’evento si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita – tale conclusione dovrebbe valere ad escludere il dolo eventuale, in base alla prima formula di Frank.

Il giudizio controfattuale così sintetizzato è sostenuto da un esame delle finalità che animavano l’imputato: Antonio cercò di occultare il ferimento, in modo da evitare che si risalisse alla sua responsabilità per aver fatto un uso incauto dell’arma in dotazione, e di certo non accettò mai che si verificasse la morte di Marco Vannini, perché quest’evento avrebbe comportato per lui e i suoi famigliari conseguenze ancora peggiori. Il fine di evitare conseguenze dannose sul piano lavorativo sarebbe dunque incompatibile con un'adesione volontaria all'evento morte.

L’argomentazione, a parere della Corte di cassazione, è manifestamente illogica, poiché conferisce alla suddetta finalità un valore indiziario non adeguatamente giustificato. Il fine di scongiurare ripercussioni negative sul lavoro non esclude, infatti, che Antonio abbia accettato che si verificasse il decesso. Posto che – sopravvissuto o meno il ferito – le indagini sarebbero state inevitabili, la morte di Vannini avrebbe reso più disagevole l’accertamento delle responsabilità, poiché, in questo modo, sarebbe venuta a mancare un’importante fonte di conoscenza della vicenda.

D’altra parte, l’utilizzo della stessa formula di Frank è in questo caso inopportuno.

La formula di Frank non è uno strumento affidabile di indagine quando «il caso da esaminare si connota per un evento il cui verificarsi, pur messo in conto in modo calcolato, comporti per l'autore della condotta il sostanziale, più o meno integrale, fallimento del piano». Tipico esempio di incompatibilità tra evento collaterale e fine perseguito dall’agente è quello delle morte di una persona a causa delle sevizie esercitate da un aguzzino, al fine di ottenere determinate informazioni: la pedissequa applicazione della formula di Frank in questo caso porterebbe – in maniera assurda – ad escludere il dolo eventuale, sulla base del fatto che il torturatore, qualora avesse previsto come certo l’evento morte, si sarebbe astenuto dall’agire o almeno dall’agire in quel modo.

In tali ipotesi, la Corte Suprema afferma che «anche nell'ipotesi in cui la verificazione dell'evento collaterale rappresenti il fallimento del piano non può escludersi che l'agente abbia operato una consapevole opzione accettando la verificazione dell'evento. Può infatti accadere che nell'agente prevalga la speranza, il desiderio di realizzare un certo risultato anche di fronte all'eventualità che proprio quella condotta renda definitivamente non realizzabile il risultato perseguito».

 

4.2 Con riferimento ai familiari di Antonio Ciontoli, la Corte di cassazione ritiene che le argomentazioni utilizzate dalla sentenza di secondo grado per sostenere la sussistenza della colpa, in luogo del dolo, non persuadono, in quanto manifestamente illogiche e contraddittorie.

Innanzitutto, è incoerente sostenere che i familiari credettero che si trattava di un colpo a salve, posto che l’incidente aveva provocato una ferita sanguinante, che aveva sporcato l’accappatoio indossato da Marco Vannini, nonché i vestiti della fidanzata, e reso necessario un tamponamento, come dimostra il rinvenimento di un asciugamano macchiato di sangue; fu Federico Ciontoli, inoltre, insieme al padre e alla presenza della madre Maria Pezzillo, a cercare di individuare il foro di uscita del proiettile.

Oltretutto, è illogico affermare che i familiari non ebbero contezza della gravità della ferita, dal momento che era implausibile che le urla di dolore di Marco – talmente forti da essere avvertite dai vicini di casa – fossero causate da semplice spavento. Non si può, infine, derubricare la reticenza mostrata da tutti i familiari nei confronti delle domande poste dai soccorritori in termini di semplice sottovalutazione negligente della vicenda: la reticenza, quale comportamento che muove dalla consapevolezza della difformità di quanto si dice rispetto a ciò che si sa, è tipica delle condotte dolose.

 

4.3 La Corte di cassazione, accogliendo il ricorso del Procuratore Generale e delle parti civili, annulla con rinvio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Roma, per un nuovo giudizio sul tema dell’elemento soggettivo in capo a tutti gli imputati che presero parte all’omicidio di Marco Vannini.

 

***

5. Nell’esaminare le posizioni assunte dalla Corte di legittimità, adotteremo la stessa impostazione fatta propria dai giudici, lasciando inizialmente da parte la condotta commissiva; dall’analisi dei temi giuridici emergerà tuttavia che, a nostro avviso, lo sparo non possa essere considerato un antefatto non punibile, quanto un elemento del fatto rilevante ai fini della qualificazione giuridica.

 

5.1 Partiamo, dunque, con l’esame della condotta omissiva successiva allo sparo colposo.

La Corte di cassazione, correttamente, individua l’elemento distintivo tra la condotta omissiva rilevante ex art 40 cpv. c.p. e quella che integra il reato di cui all’art. 593 c.p. nell’obbligo di impedire l’evento previsto dalla prima norma. Soltanto la sussistenza di una posizione di garanzia consente al nostro ordinamento di assimilare la mera omissione (il non impedire) alla causazione attiva: se non vi fosse tale requisito a limitare la portata del principio di equivalenza, ogni consociato dovrebbe essere considerato responsabile per non aver impedito un qualsiasi fatto lesivo.

Nel caso di specie, la Suprema Corte conferma la riconducibilità delle condotte degli imputati all’art. 40 cpv. c.p., individuando la posizione di garanzia nell’assunzione volontaria delle cure di Vannini, da parte di tutti i membri della famiglia Ciontoli.

È controverso, tuttavia, se una condotta meramente de facto possa integrare l’obbligo giuridico richiesto dall’art. 40 cpv. c.p. La dottrina prevalente ritiene infatti che, in ossequio al principio di legalità, non possa configurarsi una responsabilità per reato omissivo improprio in assenza di norme giuridiche che impongano di attivarsi per impedire uno specifico evento[7]: potranno dunque integrare il disposto di cui all’art. 40 co. 2 c.p. sia norme giuridiche extrapenali (di qualsiasi fonte: leggi, regolamenti, decreti ministeriali, atti emanati da enti locali etc.) sia norme diritto privato (contratti o atti unilaterali), ma di certo non meri rapporti de facto, né precedenti attività pericolose[8].

D’altra parte, anche nel caso in cui dovesse ritenersi che la posizione di garanzia possa derivare da comportamenti concludenti (come ammettono la teoria c.d. sostanziale-funzionalistica e quella mista[9]), l’assunzione di tale posizione dovrebbe preesistere rispetto al verificarsi della situazione di pericolo: altrimenti l’assunzione de facto della cura non sarebbe distinguibile rispetto all’adempimento dell’obbligo di attivarsi sancito dall’art. 593 c.p. (non si potrebbe, d’altronde, parlare di assunzione “volontaria” degli obblighi di tutela, dal momento che è lo stesso art. 593 c.p. ad obbligare l’intervento). È infatti proprio il carattere della preesistenza dell’obbligo che consente di distinguere il garante dal soccorritore occasionale: l’equivalenza tra il cagionare e il non impedire si giustifica proprio per il fatto che il garante ha poteri impeditivi e, dunque, la possibilità di inibire ab origine il sorgere della situazione di pericolo, mentre il soccorritore può soltanto impedire che questa si evolva in senso lesivo[10].

Il requisito della preesistenza della posizione di garanzia trova il suo fondamento nel principio di legalità: se l’obbligo giuridico di impedire l’evento integra il contenuto dell’art. 40 cpv, è necessario che esso – come ogni elemento tipico delle fattispecie penale – sia conosciuto dal cittadino prima che la situazione di pericolo si sia verificata, così che egli possa adottare misure idonee a prevenirla.

La giurisprudenza – che talvolta ammette che la posizione di garanzia possa derivare da un’assunzione non formalizzata dell’obbligo di impedire l’evento – è univoca su questo aspetto[11] e la stessa sentenza 38991/2010, citata dalla Corte di cassazione, si riferisce ad obblighi di tutela della salute dei dipendenti assunti dai dirigenti di una società in forza delle loro specifiche cariche, non in occasione del verificarsi del pericolo (si trattava, in particolare, di amministratori di un’impresa che produceva nylon, accusati di omicidio colposo per aver omesso di adottare misure cautelari che avrebbero protetto i lavoratori dall’esposizione ad amianto).

Nel caso in esame, invece, la Suprema Corte sembra ammettere che l’insorgere della posizione di garanzia possa essere contestuale rispetto al sopraggiungere della situazione di pericolo. Con un’ulteriore conseguenza che ci sembra illogica: se fu l’assunzione delle cure di Vannini da parte della famiglia Ciontoli a determinare l’instaurarsi di un obbligo giuridico rilevante ex art. 40 cpv. c.p., dovrebbe concludersi che, al contrario, un atteggiamento di disinteresse e abbandono del ferito sarebbe stato rilevante soltanto ai sensi dell’art. 593 c.p. Una disparità di trattamento che – favorendo l’inerzia piuttosto che la, seppur carente, assistenza – non ci sembra giustificabile.

D’altra parte, è bene sottolineare che nemmeno i rapporti affettivi, di per sé, sono idonei a fondare un obbligo di protezione: la posizione di garanzia dei genitori verso i figli (e viceversa) o dei genitori tra loro è infatti fondata su fonti normative (art. 147, c.c., art. 30 Cost., art. 315 c.c. etc.)[12], mentre lo stesso non può dirsi delle relazioni sentimentali o dei rapporti amicali, che, infatti, non sono considerati idonei a costituire obblighi di impedire l’evento[13].

A nostro avviso, dunque, in assenza di una preesistente posizione di garanzia, le condotte degli imputati avrebbero dovuto essere qualificate, in maniera più conforme alla normativa, come integranti il reato di omissione di soccorso (nella forma semplice per Antonio e aggravata dall’evento per i suoi familiari, per le motivazioni che si diranno). Preme sottolineare che, come ha correttamente rilevato la Cassazione – e come è pacifico in dottrina[14] – non avrebbe ostato a tale qualificazione il fatto che i familiari fossero stati presenti nell’abitazione prima del ferimento né che fosse stato proprio Antonio Ciontoli, sparando colposamente, a creare la situazione di pericolo.

Con riguardo a quest’ultimo, inoltre, va fatta un’ulteriore precisazione: la violazione della legge penale (in questo caso, rappresentata dallo sparo colposo) non può essere ritenuta, di per sé, fonte della posizione di garanzia. La dottrina è, a questo proposito, univoca nel ritenere che solo la legge extrapenale possa fondare obblighi di impedire l’evento, poiché la norma incriminatrice impone obblighi di agire ma non prevede poteri impeditivi, avendo unicamente una funzione sanzionatoria di obblighi di garanzia già originariamente previsti da leggi extrapenali[15].

Di converso, è pacifico che la precedente violazione di norma penale possa costituire fonte dell’obbligo di attivarsi ex art. 593 c.p.p.[16], come d’altronde non contestato dalla Corte di legittimità.

 

5.2 Se il ragionamento esposto è corretto, occorre ora concentrarsi sulla prima “frazione” di condotta – lo sparo che ha dato origine a tutta la vicenda – che era stata accantonata dai giudici, sul presupposto dell’assorbimento delle lesioni colpose nel delitto di omicidio per omissione.

In base alle considerazioni svolte fino ad ora, il decesso di Marco Vannini sembrerebbe imputabile a due concause: a) lo sparo colposo attribuito ad Antonio Ciontoli; b) la condotta omissiva tenuta dall’intero nucleo familiare, integrante gli estremi del reato di cui all’art. 593 c.p.

A nostro avviso, dunque, nei confronti di Antonio sarebbe stata più opportuna l’applicazione dell’art. 589 c.p., che punisce con la reclusione da sei mesi a cinque anni «chiunque cagiona per colpa la morte di una persona», in concorso con il reato di omissione di soccorso. Il dolo di omissione susseguente alla condotta colposa va infatti valutato autonomamente, non potendo in alcun modo rilevare ai fini della qualificazione del fatto commissivo[17].

Giova ricordare, a questo proposito, che la giurisprudenza maggioritaria ritiene che il concorso di reati sia in questi casi configurabile, in quanto l'omissione di soccorso non costituisce la normale prosecuzione della condotta colposa; l’omissione assume dunque rilievo, essendo espressione di una deliberazione criminosa estranea e ulteriore rispetto alle lesioni colpose[18].

Ci pare, inoltre, che – mentre nei confronti dei familiari di Antonio Ciontoli sarebbe configurabile un’omissione di soccorso aggravata dall’evento morte, ai sensi dell’art. 593 co. 3 c.p. – in relazione alla posizione di Antonio sarebbe stata preferibile l’applicazione della fattispecie semplice, in modo da non accollare due volte all’imputato l’evento morte, in spregio al principio del ne bis in idem sostanziale[19].

Con riferimento alla condotta tenuta dai familiari, infine, potrebbero essere integrati gli estremi della fattispecie di favoreggiamento personale (378 c.p.); gli imputati, tuttavia, non sarebbero in ogni caso punibili ai sensi dell’art. 384 c.p.

 

6. Le considerazioni che la Corte di cassazione svolge in materia di elemento soggettivo – in relazione alla contestata fattispecie di omicidio omissivo – ci sembrano impeccabili: effettivamente, nella sentenza di secondo grado si notavano alcune contraddizioni e aporie argomentative nella ricostruzione del contegno psicologico degli imputati.

Alla luce delle riflessioni svolte nei paragrafi precedenti, tuttavia, si deve ritenere che anche qualora venisse dimostrato che i Ciontoli avessero voluto (o, più specificamente, accettato) il verificarsi dell’evento morte, non sarebbe scalfita la tesi prospettata dell’omissione di soccorso: come si è correttamente affermato in dottrina, infatti, «a differenza della maggior parte dei reati che subiscono aumenti di pena in caso di produzione di morte o lesioni (ad es., rissa, abbandono di minori o incapaci, maltrattamenti, etc.) e in cui tali eventi devono necessariamente essere non voluti, nemmeno a titolo di dolo eventuale, perché altrimenti l’agente risponderebbe per il delitto doloso di omicidio o lesioni personali in concorso con il delitto base, ai fini dell’art. 593 co. 3 gli eventi morte o lesione possono, invece, essere indifferentemente voluti o non voluti»[20].

La volizione dell’evento morte attraverso l’omissione di soccorso, infatti, non può essere confusa con il dolo di omicidio. In primo luogo, perché il dolo, nelle sue varie forme, presuppone la sussistenza materiale di una condotta strutturalmente identica (e, in questo caso, difettando la posizione di garanzia, non è configurabile la fattispecie tipica di omicidio mediante omissione).

In secondo luogo – lasciando per un istante da parte il requisito della posizione di garanzia – tale assimilazione condurrebbe ad un’abrogazione de facto del delitto di omissione di soccorso, poiché il soggetto che non pone in essere le condotte di cui all’art. 593 c.p. non può non rappresentarsi l’evento lesioni e l’evento morte; dovrebbe dunque rispondere sempre del delitto di lesioni personali (nella sua forma consumata o tentata) o di omicidio preterintenzionale o doloso (consumato o tentato)[21].

Il fatto che Antonio Ciontoli abbia esploso il colpo non rende, a nostro avviso, le considerazioni sopra esposte meno applicabili nei suoi confronti: lo sparo che causò la morte di Vannini fu infatti colposo e il dolus subsequens dovrebbe essere valutabile soltanto in relazione alla condotta di omissione di soccorso corrispondente.

 

7. La qualificazione dei fatti ai sensi dell’art. 593 c.p. (nella forma semplice per Antonio Ciontoli e in quella aggravata per i suoi familiari), in concorso con la fattispecie di cui all’art. 589 c.p. per il solo Antonio, avrebbe comportato l’applicazione di pene relativamente basse per gli imputati, in contrasto con il comune “senso di giustizia” e con le valutazioni etiche di gran parte dell’opinione pubblica che, in forza dell’ampio risalto mediatico dato al caso, aveva seguito gli sviluppi processuali della vicenda.

L’interprete, tuttavia, non può applicare le norme sulla base di giudizi morali. Lungi dal costituire un’interpretazione estensiva della lettera della legge, l’applicazione dell’art. 40 cpv. in questo caso rappresenta, a parere di chi scrive, un’analogia in malam partem, in violazione dell’art. 25, comma 2, Cost.

Sembra quasi che la sentenza annotata, nel valorizzare il dolus subsequens degli imputati, abbia in qualche modo aggirato il giudizio di colposità formulato in rapporto allo sparo (diverse inchieste giornalistiche avevano gettato, in effetti, ombre sulla conduzione delle indagini e sulla conseguente ricostruzione del fatto, mettendo in discussione addirittura il carattere involontario dello sparo ed evidenziando il ruolo ambiguo svolto da Martina, fidanzata di Marco, nella vicenda).

Il fatto, tuttavia, se si esclude il dramma costituito dallo stretto rapporto che legava la vittima alla famiglia Ciontoli, non è differente da quanto accade troppo spesso sulle strade del nostro paese: il soggetto che colposamente ferisca un pedone, investendolo, e fugga nella speranza di non essere individuato, nel caso in cui si verifichi la morte risponde di omicidio stradale colposo (art. 589-bis, comma 1, c.p.), con l’aggravante della fuga (art. 589-ter c.p.), in concorso con l’omissione di soccorso stradale (art. 189 c.d.s.)[22]. Non risponde certo di omicidio doloso per omissione. La ratio dell’introduzione dell’omicidio stradale, d’altra parte, è stata proprio quella di innalzare la cornice edittale con riferimento a fatti, molto comuni, che precedentemente venivano puniti con pene percepite come irrisorie.

De iure condendo, sarebbe forse opportuno innalzare la cornice edittale dell’omissione di soccorso – specie nella sua forma aggravata – considerato che il bene giuridico tutelato dalla norma è il più prezioso in assoluto e che la disposizione di cui all’art. 593 c.p. si presta a comportamenti opportunistici.

 

 

[1] La sentenza (Corte d’assise d’appello di Roma, Sez. I, 29 gennaio 2019, dep. 1 marzo 2019, n. 3, Presidente Calabria, Relatore De Cataldo) può leggersi su Giurisprudenza Penale Web, con nota di G. Stampanoni Bassi.

[2] Inizialmente era stata ipotizzata la responsabilità anche di V. G., fidanzata di Federico Ciontoli, presente quella sera nell'abitazione. L’imputata è stata tuttavia assolta in tutti i gradi di giudizio, per il fatto che restò ai margini della vicenda e non percepì effettivamente lo stato di pericolo in cui versava Marco Vannini.

[3] Per addivenire a tale conclusione fu valorizzato in particolare l’esame dei prelievi dei residui di polvere da sparo: nelle narici di Antonio Ciontoli vi erano dodici particelle, numero ben superiore a quello che dimostra con certezza la presenza al momento dello sparo (tre). Nelle narici di Martina fu rinvenuta una sola particella e in quelle di Federico nessuna. Di qui la conclusione che al momento dello sparo non ci fosse Martina, nonostante vi fossero indizi in senso contrario (in particolare, un’intercettazione ambientale nella quale la ragazza descriveva al fratello la scena dello sparo, ritenuta tuttavia dalle corti territoriali una mera ripetizione di ciò che aveva appreso dal padre).

[4] Vd. Cass., Sez. VI, 18/02/2014, n. 17621: «l'incidente, che costituisce il presupposto dell'obbligo di attivarsi, deve essere il risultato di un comportamento colposo dell'agente, poiché, ove lo stesso derivi da una condotta dolosa, il disvalore dell'omissione non trova sanzione in reati autonomi rispetto alla fattispecie lesiva della vita o dell'incolumità individuale».

[5] La necessaria sussistenza del nesso causale ai fini dell’integrazione del delitto di omissione di soccorso, nella sua forma aggravata, è esplicitata dalla lettera dell’art. 593 c.p., che al comma 3 stabilisce: «Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata» (vd. in questo senso Cass., Sez. F, 23/08/2019, n. 38200). Quanto all’elemento soggettivo, è vero che, nel disegno originale del codice, l’evento aggravatore avrebbe dovuto essere imputato all’autore del fatto omissivo a titolo di responsabilità oggettiva. Tuttavia, l’interpretazione costituzionalmente orientata – che ha valorizzato il principio di personalità della responsabilità penale espresso dall’art. 27, co. 1, Cost. – ha condotto progressivamente a modellare le varie ipotesi di responsabilità oggettiva presenti nel codice in termini di responsabilità per colpa (vd. Cass. 38200/2019, cit., secondo cui l’evento morte è riconducibile all’omissione dell’agente solo qualora essa sia qualificabile come colposa).

[6] Si tratta infatti di «inferire fatti interni o spirituali attraverso un procedimento che parte dall'id quod plerumque accidit e considera le circostanze esteriori, caratteristiche del caso concreto, che normalmente costituiscono l'espressione o accompagnano o sono comunque collegate agli stati psichici» (Cass., SS.UU., 38343/2014).

[7] Si vedano, per tutti, G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè Francis Lefebvre, 8a ed., 2019, p. 261; F. Mantovani, Causalità, obbligo di garanzia e dolo nei reati omissivi, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 4, 2004, p. 984.

[8] Vi è tuttavia una giurisprudenza in questo senso. Si è affermata ad esempio la responsabilità del proprietario di un vivaio per il decesso del conducente di un autocarro che, a causa dell’innalzamento del piano stradale realizzato senza rispettare le distanze, rimaneva folgorato per il contatto delle piante trasportate con la linea elettrica sovrastante (Cass., Sez. IV, 10 gennaio 2013, n. 27591); nello stesso senso è stato risolto il caso di un bambino morto dopo essere stato travolto da una traversa per uso ferroviario, mentre si arrampicava per gioco su una catasta non messa in sicurezza (Cass., Sez. IV, 21 maggio 1990, n. 11112). L’orientamento è tuttavia criticabile: in capo a chi abbia creato una situazione di pericolo non sussiste alcun obbligo giuridico di attivarsi per neutralizzare il pericolo stesso – se, tuttavia, l’evento lesivo si verifica, egli risponderà di lesioni o omicidio commissivo (per dolo o colpa, a seconda che vi sia stata o meno volizione dell’evento). Il proprietario del vivaio, nel caso anzidetto, avrebbe dovuto essere, più propriamente, condannato ai sensi dell’art. 589 c.p., per aver cagionato la morte del conducente. Far sorgere una posizione di garanzia dalla preesistente attività pericolosa comporta la trasformazione di ipotesi di natura chiaramente commissiva in omissive (in questo senso v. G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 262, da dove sono tratti anche i casi giurisprudenziali qui riportati; v. anche R. Calcagno, Reato omissivo improprio e responsabilità contrattuale, tra ‘contatto sociale' e contratto: riflessioni sul principio di legalità, in Cass. pen., 10/2014, p. 3559; F. Mantovani, Causalità, obbligo di garanzia e dolo nei reati omissivi, cit., p. 984, per un’approfondita disamina della questione).

[9] G. Fiandaca, Il reato commissivo mediante omissione, Giuffrè, 1979, p. 161 ss.; F. Sgubbi, Responsabilità penale per omesso impedimento dell'evento, Cedam, 1975.

[10] Attribuiscono alla preesistenza dell’obbligo (oltre alla sussistenza del potere di impedire l’evento) il carattere distintivo della posizione di garanzia rispetto all’obbligo di attivarsi F. Mantovani, Causalità, obbligo di garanzia e dolo nei reati omissivi, cit., p. 984; M. Alesci, Alcune considerazioni sull'omissione di soccorso stradale. Correttezza delle conclusioni e improprietà del linguaggio in una recente pronuncia della Cassazione - Nota a Cass. pen. Sez. I 17 novembre 2017 n. 52539, in Cass. pen., 2018, fasc. 6, pp. 2054-2072; D. Micheletti, La posizione di garanzia nel diritto penale del lavoro, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2011, n. 1-2, p. 155; C. Sale, La posizione di garanzia del medico tra fonti sostanziali e formali - Nota a Cass. pen., Sez. IV, ud. 29 gennaio 2013 (dep. 19 febbraio 2013), n. 7967, Pres. Brusco, Est. Montagni, imp. Fichera, in Dir. pen. cont., 21 giugno 2013. Coloro che aderiscono alla posizione sostanziale-funzionale, d’altra parte, fanno riferimento ad un «potere di signoria su alcune condizioni essenziali del verificarsi dell’evento tipico» (la formula è di Fiandaca, Reati omissivi e responsabilità penale per omissione, cit., p. 40) verificabile prima dell’insorgere della situazione di pericolo: Fiandaca fa l’esempio della guida alpina che si impegna a garantire l’incolumità dei gitanti o del casellante che controlla il meccanismo di regolazione delle sbarre del passaggio a livello.

[11] La giurisprudenza in diversi casi ha riconosciuto la sussistenza di una posizione di garanzia a prescindere dall’esistenza di una fonte formale a monte, in particolare quando vi è assunzione unilaterale dei compiti di tutela vd. Cass, Sez. IV, 22/05/2007, n. 25527, che ha riconosciuto l’esistenza di una posizione di garanzia in capo ad un soggetto che si era assunto l’incarico di guidare una gita in montagna con gli slittini; Cass., Sez IV, 05/04/2013, n. 50606, in capo al soggetto che non si oppone alla presenza dei figli del suo vicino di casa nel cortile antistante la propria abitazione; Ufficio Indagini preliminari Sondrio, 10 marzo 2005 (in Giur. merito, fasc. 3, 2007, p. 742, con nota di L. Gizzi), in capo allo sci-alpinista che di fatto assume il ruolo di guida e accompagnatore degli altri sciatori. In questi casi, l’assunzione della posizione di garanzia ha natura negoziale e, a differenza del caso de quo, è riconoscibile prima dell’insorgere della situazione di pericolo.

[12] Sulla responsabilità del genitore per omesso impedimento degli abusi sessuali commessi sul figlio vd. Cass., Sez. III, 29/09/2016, n. 40663; Cass., Sez. III, 11/10/2011, n.1369.

[13] Sul punto vd. E. Dolcini – G.L. Gatta (a cura di), sub 40, in Codice penale commentato, Giuffrè, 2015, Tomo I, p. 545; F. Mantovani, Causalità, obbligo di garanzia e dolo nei reati omissivi, cit., par. 2.

[14] F. Basile, Su alcune questioni controverse intorno all'omissione di soccorso (art. 593 c.p.). Un reato in cerca d'autore, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2013, p. 643, par. 4.2; O. Vannini, Delitti contro la vita e l'incolumità individuale, Giuffrè, Milano, 1958, 223; M. Ronco – B. Romano (a cura di), sub 593 c.p., in Codice Penale Ipertestuale Commentato, UTET, 2014.

[15] In questo senso vd. F. Mantovani, Causalità, obbligo di garanzia e dolo nei reati omissivi, cit., p. 984. D’altra parte, se l’obbligo di impedire l’evento potesse avere la sua fonte nella violazione di una norma penale, risulterebbero contraddittori il premio “totale” per la desistenza volontaria (art. 56, co. 3 c.p.) e quello “parziale” (configurazione di un’attenuante del delitto tentato) per il recesso attivo (art. 56, co. 4 c.p.), vd. in questo senso M.G. Maglio – F. Giannelli, I delitti di omissione di soccorso di cui all'art. 593 del codice penale, in La Giustizia penale, 2016, fasc. 6, pt. 2, pp. 371.

[16] F. Basile, Su alcune questioni controverse intorno all'omissione di soccorso (art. 593 c.p.), cit., par. 5. ss; M. Alesci, Alcune considerazioni sull'omissione di soccorso stradale, cit., par 4.2 ss.

[17] Vd. F. Mantovani, L'obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità personale, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 2, 2001, p. 337, par. 7, benché egli si riferisca, in maniera più generale, al dolus subsequens all’azione pericolosa colposa.

[18] La configurabilità del concorso di reati tra delitto colposo e omissione di soccorso alla persona messa in pericolo proprio da tali lesioni era esplicitamente prevista nella precedente fattispecie di omissione di soccorso stradale. Il terzo comma dell’art. 133 del previgente codice della strada stabiliva che “qualora l'investimento derivi da colpa si applicano le norme sul concorso di reati”. Sebbene la clausola di previsione esplicita del concorso tra il delitto colposo causativo dell'investimento e l'omissione di soccorso non sia stata riprodotta nell'art. 189 del nuovo codice della strada, è comunque pacifico l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale è configurabile il concorso di reati tra omicidio o lesioni colpose e omissione di soccorso, vd. Cass., Sez. IV, 09/11/2017, n. 52539; Cass., Sez. IV, 15/03/2019, n. 25842; Cass., Sez. IV, 07/02/2008, n. 8626; Cass. pen., Sez. IV, 10/10/2014, n. 3783, vd. anche un caso di omissione di soccorso da parte dello spacciatore che aveva venduto la dose Corte d’Appello Palermo, 13 gennaio 1982, in Il Foro Italiano, 1983, II, p. 513, con nota di Militello. Si veda, in dottrina M. Alesci, Alcune considerazioni sull'omissione di soccorso stradale, cit.; F. Basile, Su alcune questioni controverse intorno all'omissione di soccorso (art. 593 c.p.), cit., il quale, tuttavia, nell’ammettere il concorso tra omissione di soccorso e lesioni colpose (ed escludendo, invece, quello con le lesioni e l’omicidio doloso), non fa alcun riferimento all’omicidio colposo; lo stesso dicasi per M. Ronco – B. Romano (a cura di), sub 593 c.p., in Codice Penale Ipertestuale Commentato, cit.

[19] Con riferimento alla rissa aggravata dall’evento morte (art. 588, co. 2, c.p.), fattispecie assimilabile a quella in esame, la giurisprudenza sostiene tuttavia che «con l'ipotesi delittuosa di rissa aggravata a norma dell'art. 588, comma secondo, cod. pen. concorrono, con riguardo al solo corissante autore degli ulteriori fatti, i reati di lesioni personali e omicidio da costui commessi nel corso della contesa, non avendo detti reati valore assorbente della rissa, in quanto non sono configurabili come progressivi rispetto ad essa, né essendo quest'ultima, rispetto ai primi, "reato complesso"» (Cass., Sez. I, 15/07/2016, 30215; vd. anche Cass., Sez. I, 29/07/2009, n. 31219; Cass., Sez. V, 19/02/2014, n. 3207 Carrozzo); contra A. Pagliaro, Il reato, in C.F. Grosso – T. Padovani – A. Pagliaro (diretto da), Trattato di diritto penale, Giuffrè, 2007, p. 150; F. Basile, Criticità e proposte di soluzione de iure condendo in ordine ai delitti di cui agli artt. 588, 591, 593 c.p., nell’ambito del Progetto di riforma dei reati contro la persona promosso dall’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, par. 2.

[20] F. Basile, Criticità e proposte di soluzione de iure condendo in ordine ai delitti di cui agli artt. 588, 591, 593 c.p., cit., par. 5; nello stesso senso M.G. Maglio – F. Giannelli, I delitti di omissione di soccorso di cui all'art. 593 del codice penale, cit., p. 376; contra A. Pagliaro, Il reato, cit., p. 150, che non distingue l’omissione di soccorso aggravata dai reati aggravati dall’evento commissivi.

[21] In questo senso vd. M.G. Maglio – F. Giannelli, I delitti di omissione di soccorso di cui all'art. 593 del codice penale, cit., p. 376.

[22] Sui rapporti tra queste tre norme si veda E. Squillaci, Ombre e (poche) luci nella introduzione dei reati di omicidio e lesioni personali stradali, in Dir. pen. cont., 18 aprile 2016, p. 26; A. Massaro, Omicidio stradale e lesioni personali stradali gravi o gravissime: da un diritto penale “frammentario” a un diritto penale “frammentato”, in Dir. pen. cont., 20 maggio 2016, p. 21.