Cass., Sez. I, sent. 14 gennaio 2020 (dep. 27 gennaio 2020), n. 3309, Pres. Mazzei, Rel. Minchella, ric. Spampinato; Cass., Sez. I, sent. 28 gennaio 2020 (dep. 12 febbraio 2020), n. 5553, Pres. Siani, Rel. Magi, ric. Grasso
1. A seguito della sentenza della Corte costituzionale 23 ottobre 2019, n. 253[1] – che, come noto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis o.p. nella parte in cui non consente l’accesso ai permessi premio ai condannati ‘non collaboranti’ – nella giurisprudenza di legittimità si è posto il problema della sopravvivenza della disciplina della collaborazione impossibile o irrilevante, di cui al co. 1 bis dell’art. 4 bis o.p.
Tale ultima disposizione prevede che i permessi premio (e le misure alternative elencate nella norma) possano essere concessi ai condannati per reati ‘ostativi’ anche in assenza di una collaborazione utile con la giustizia, qualora si versi in un’ipotesi di collaborazione impossibile o oggettivamente irrilevante, sempre però che siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.
Poiché, per effetto dell’intervento del giudice costituzionale, anche i condannati ‘non collaboranti’ possono accedere ai permessi premio, qualora siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti ed il pericolo di un loro ripristino, la domanda è se la disciplina della collaborazione impossibile o irrilevante possa trovare ancora uno spazio applicativo. Come ovvio, avendo la Corte costituzionale limitato il suo decisum ai permessi premio, la questione riguarda solo questa misura, non essendovi dubbio sul fatto che per gli altri benefici la disciplina contenuta nel co. 1 bis dell’art. 4 bis o.p. continui a rimanere valida.
2. Per poter meglio valutare la questione può essere forse opportuno ripercorrere, in estrema sintesi, la genesi e l’evoluzione della disciplina legislativa della collaborazione impossibile o irrilevante.
A questo proposito occorre rammentare che l’art. 4 bis o.p., nella sua prima formulazione, risalente al d.l. 152/1991, subordinava l’accesso ai benefici e alle misure alternative all’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e che solo l’anno successivo, per effetto delle modifiche apportate dal d.l. 306/92, è stata introdotta nell’ordinamento una presunzione assoluta di pericolosità del condannato non collaborante, prevedendo la preclusione dall’accesso ai benefici e alle misure alternative in assenza di ‘collaborazione utile’, ai sensi dell’art. 58 ter o.p. Fu lo stesso legislatore del 1992, al fine di mitigare tale rigoroso meccanismo di preclusione ai benefici penitenziari, ad equiparare alla collaborazione utile la collaborazione ‘oggettivamente irrilevante’, in ipotesi legislativamente predeterminate nelle quali il reato potesse considerarsi di scarsa gravità (ossia, nel caso di applicazione nella sentenza definitiva di condanna delle circostanze attenuanti previste dagli artt. 62 n. 6, 114, 116 n. 2 c.p.). Secondo quanto stabilito dalla legge, in questi casi il condannato poteva accedere ai benefici penitenziari sulla base della sola ‘offerta’ di collaborazione, anche se praticamente inutile, purché fosse accertata l’insussistenza di collegamenti attuali con le associazioni criminali di appartenenza.
Al fine di impedire ingiustificate discriminazioni, ed in ossequio quindi all’art. 3 Cost., la Corte costituzionale in due successive sentenze dichiarò l’illegittimità dell’art. 4 bis o.p. nella parte in cui non dava rilievo ad altre ipotesi, oltre a quella normativamente prevista, nelle quali la mancanza di collaborazione fosse da attribuire a ragioni indipendenti dalla volontà del condannato. In particolare, con la sentenza 27 luglio 1994, n. 357, la Corte costituzionale estese la disciplina della collaborazione irrilevante ai casi di collaborazione inesigibile per la limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso e, con la sentenza 1 marzo 1995, n. 68, ai casi di collaborazione impossibile per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza irrevocabile. Il legislatore del 2002 recepì quindi le indicazioni della Corte costituzionale, definendo in via normativa (nell’attuale co. 1 bis dell’art. 4 bis) i casi in cui la rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata può essere accertata anche prescindendo dal requisito della collaborazione rilevante, pur sempre però subordinando la concessione dei benefici all’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva[2].
La disciplina contenuta nel co. 1 bis è dunque funzionale all’obiettivo di sottrarre terreno alla presunzione assoluta di pericolosità per i condannati non collaboranti: da qui il dubbio sulla sua ‘sopravvivenza’ oggi, laddove il carattere assoluto della presunzione è venuto meno.
3. In particolare, la questione affrontata dalla Corte di Cassazione nelle sentenze qui in esame riguarda la permanenza dell’interesse dei condannati ad impugnare, dopo l’intervento della Corte costituzionale, le ordinanze dei tribunali di sorveglianza che, prima di quell’intervento, avevano rigettato le istanze di collaborazione impossibile, funzionali alla concessione dei permessi premio[3].
Secondo un primo orientamento, seguito dalla quasi totalità delle sentenze della Cassazione che si sono pronunciate sul punto – e di cui è espressione, ad esempio, la sentenza 3309/2020, ric. Spampinato – la disciplina del co. 1 bis non avrebbe più spazio applicativo in relazione alla concessione dei permessi premio. Secondo quanto si legge nella motivazione della citata sentenza, “poiché il presupposto della collaborazione impossibile o inesigibile era stato introdotto nell’ordinamento quale sorta di contraltare alla collaborazione effettiva con la giustizia, una volta venuta meno l’assoluta necessità della sussistenza di quest’ultima per poter accedere al permesso-premio viene a perdere giustificazione anche la prima”. Secondo tale impostazione, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis co. 1, l’accesso ai permessi premio per il soggetto che non presti una collaborazione utile – si trovi o meno nella situazione di collaborazione impossibile o inesigibile – è ora sottoposta al ‘regime probatorio rafforzato’ delineato dalla sentenza 253, che impone l’accertamento non solo dell’esclusione dell’attualità dei collegamenti, ma anche dell’esclusione del pericolo di ripristino degli stessi. Da qui la conclusione del venir meno dell’interesse ad impugnare in Cassazione le ordinanze dei tribunali di sorveglianza che, prima della sentenza 253 della Corte costituzionale, avevano rigettato le istanze di collaborazione impossibile.
Secondo un diverso orientamento, di cui è invece espressione la sentenza 5553/2020, ric. Grasso, le disposizioni in materia di collaborazione impossibile continuano ad avere “una portata precettiva concreta” e ciò “sia in ragione della diversità parziale delle regole dimostrative della assenza di pericolosità (profilo strettamente normativo), sia in ragione di una percepibile differenza ontologica tra le ipotesi dei collaboranti che scelgono di non collaborare (co. 1) e coloro che invece non possono farlo (co. 1 bis). Quanto al profilo normativo, si osserva che mentre nei confronti dei secondi (co. 1 bis) è sufficiente accertare l’esclusione dell’attualità dei collegamenti, nei confronti dei primi (co. 1) la Corte costituzionale ha delineato un ‘regime probatorio rafforzato’ con una “portata certamente additiva” rispetto agli accertamenti richiesti nel co. 1 bis, rendendosi necessario accertare l’ulteriore presupposto, introdotto dai giudici costituzionali, dell’esclusione del pericolo di ripristino dei collegamenti. Quanto poi alla “differenza ontologica” tra le due ipotesi, che giustificherebbe la differenziazione dei regimi probatori, la Cassazione osserva che solo “l’impossibilità o l’inesigibilità della collaborazione consente di qualificare in termini univoci (e non connotati da alcun minimo disvalore) la scelta del detenuto di non fornire informazioni all’autorità giudiziaria”; viceversa, “lì dove vi sia l’opzione del silenzio” si giustifica un accertamento probatorio più approfondito, che rende necessario valutare anche l’assenza del pericolo di ripristino dei collegamenti.
Da ciò la conclusione della permanenza dell’interesse ad impugnare i provvedimenti che, prima della sentenza 253 della Corte costituzionale, avevano rigettato le istanze di collaborazione impossibile.
4. È immediatamente percepibile che, al di là della questione contingente relativa alla permanenza o meno dell’interesse ad impugnare i provvedimenti dei tribunali di sorveglianza, il tema che tali sentenze sollevano, e sul quale pare opportuno avviare una riflessione, riguarda il contenuto di quel “regime probatorio rafforzato” che la Corte costituzionale sembrerebbe aver posto alla base della concessione dei permessi premio per i condannati non collaboranti.
Come si è detto, entrambe le sentenze della Cassazione condividono l’idea secondo cui l’accertamento richiesto dal giudice costituzionale per l’accesso ai permessi premio dei condannati che scelgono di non collaborare (co. 1) sia più rigoroso rispetto a quello previsto nel co. 1 bis. Da questo comune punto di partenza le due sentenze traggono poi conclusioni diverse: mentre per la sentenza Spampinato, la disciplina del co. 1 bis non ha più ragione di esistere e dovrà quindi applicarsi sempre il più rigoroso regime del co. 1, per la sentenza Grasso, invece, la disciplina della collaborazione impossibile continua ad avere portata precettiva concreta e, di conseguenza, il regime probatorio rafforzato del co. 1 delineato dalla Corte costituzionale si applicherà solamente ai condannati che, pur potendo collaborare, scelgono di non farlo.
È evidente che l’operazione interpretativa della sentenza Grasso è dettata dall’intento di preservare i condannati di cui al co. 1 bis dall’applicazione di un regime probatorio ancor più rigoroso di quello attuale e di evitare così un effetto paradossale: che cioè da una dichiarazione di illegittimità costituzionale finalizzata a rimuovere delle preclusioni e a valorizzare i principi dell’individualizzazione del trattamento, dell’umanità e della rieducazione della pena, derivino in concreto degli effetti peggiorativi, in termini di riduzione delle possibilità di accesso ai permessi premio, per una certa categoria di condannati (quelli appunto di cui al co. 1 bis).
Ci pare però che, movendo da una differente lettura della sentenza 253 della Corte costituzionale, si possa arrivare a conclusioni differenti.
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5. La premessa da cui parte la sentenza Spampinato, che cioè – in relazione al limitato terreno dei permessi premio – la disciplina contenuta nel co. 1 bis non è più applicabile ci sembra condivisibile. Come già ricordato, tale disciplina aveva lo scopo di sottrarre terreno alla presunzione assoluta di permanenza dei legami associativi in assenza di collaborazione ed è dunque logico ritenere che le ragioni della sua applicazione siano venute meno a seguito della sentenza della Corte costituzionale: oggi infatti, indipendentemente da situazioni che rendano la collaborazione impossibile o irrilevante, qualunque condannato è ammesso a dimostrare la rottura del vincolo associativo.
Ciò detto, non ci sembra però – a differenza di quanto si sostiene in entrambe le sentenze - che la Corte costituzionale per la dimostrazione della rottura del vincolo associativo abbia introdotto un regime probatorio di ulteriore rigore rispetto a quello previsto nel co. 1 bis, ma riteniamo piuttosto che essa abbia inteso estendere a tutte le ipotesi di condannati non collaboranti il regime probatorio già esistente nel nostro ordinamento. Ciò si ricava leggendo le motivazioni della sentenza, laddove si afferma che “è la stessa evoluzione del medesimo art. 4 bis ordin. penit. a mostrare con evidenza” quali siano gli elementi necessari per poter ritenere superata la presunzione assoluta di pericolosità. A questo proposito, la Corte costituzionale fa riferimento alla disciplina dell’art. 4 bis o.p. come formulata nel d.l. 152/91 che, per i condannati non collaboranti, subordinava l’accesso ai benefici all’acquisizione di “elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva”. Una disciplina – ci dice ancora la Corte – che rivive oggi nel co. 1 bis dell’art. 4 bis o.p., che ugualmente subordina la concessione dei benefici al fatto che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».
Dunque è tale disciplina che la Corte ritiene applicabile oggi per la concessione dei permessi premio ai condannati non collaboranti, proponendo nella sostanza il ripristino del parametro probatorio di cui alla disciplina del ’91 ovverosia – ed è la stessa cosa – l’estensione a queste ipotesi della disciplina oggi prevista nel co. 1 bis per i casi di collaborazione impossibile ed irrilevante. Tale diposizione già conteneva, di dice la Corte, “un regime probatorio rafforzato”, funzionale all’acquisizione di elementi tali da corroborare l’ipotesi di un’effettiva scelta di distacco dall’organizzazione criminale[4]. Un regime che la giurisprudenza di legittimità ha sempre interpretato in termini estremamente restrittivi. Ed è proprio alla giurisprudenza sviluppatasi intorno al co. 1 bis che la Corte costituzionale si riporta, citando le sentenze della Cassazione che attribuiscono al condannato l’onere di fare specifica allegazione degli elementi a favore, nonché di acquisire veri e propri elementi di prova a sostegno della rottura del vincolo associativo, nel caso in cui le informazioni pervenute dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica depongano in senso negativo. A tale giurisprudenza la Corte costituzionale si riporta, ci sembra, perché sente la necessità di tranquillizzare un’opinione pubblica spaventata dai possibili esiti della pronuncia, per dimostrare cioè che la dichiarazione di illegittimità costituzionale non avrebbe consentito la fuoriuscita incontrollata di pericolosi boss mafiosi, avendo i giudici dimostrato di utilizzare con estrema parsimonia il loro potere discrezionale.
6. Vero è che la Corte sembra aggiungere al requisito dell’esclusione dell’attualità dei collegamenti già previsto nel co. 1 bis un requisito ulteriore, ossia la prova dell’esclusione del pericolo di ripristino dei collegamenti “tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali”. Ma tale requisito, come osserva la stessa Corte, costituisce un “aspetto logicamente collegato al precedente, del quale condivide il carattere necessario alla luce della Costituzione, al fine di evitare che il già richiamato interesse alla prevenzione della commissione di nuovi reati, tutelato dallo stesso art. 4 bis ordin. penit., finisca per essere vanificato”.
Al netto della comprensibile prudenza che ha accompagnato la Corte nella stesura di una sentenza molto impegnativa e certamente esposta a strumentalizzazioni politiche, ci sembra che la valutazione circa l’assenza del pericolo di ripristino dei collegamenti altro non rappresenti se non la concreta declinazione, per gli autori di reati della criminalità organizzata, del requisito dell’assenza di pericolosità sociale, che deve essere valutato ai sensi dell’art. 30 ter per la concessione dei permessi premio. Un giudizio, quest’ultimo, di tipo prognostico, che si traduce in una valutazione sulla probabilità che il soggetto non commetta in futuro nuovi reati e che – come affermato dalla giurisprudenza[5] – dovrà essere effettuato con particolare rigore nei confronti di condannati per reati di particolare gravità. Per quanto concerne, in particolare, gli autori di reati di criminalità organizzata, tale requisito si traduce in una valutazione probabilistica circa la futura commissione di reati legati alla criminalità organizzata stessa[6] e dunque, nella sostanza, in una valutazione probabilistica circa l’avvenuto distacco dall’associazione di appartenenza.
Se così è, si deve allora ritenere che, già prima della sentenza 253/2019, l’assenza del pericolo di ripristino dei collegamenti era requisito che il magistrato di sorveglianza era tenuto ad accertare nell’ambito della valutazione prognostica di assenza di pericolosità ai fini della concessione dei permessi premio nei casi dell’art. 4 bis co. 1 bis, ossia nei confronti dei condannati per reati ostativi nel caso di collaborazione impossibile o irrilevante.
7. Dunque, a nostro avviso, l’effetto della sentenza 253 – limitatamente alle istanze di concessione dei permessi premio – è stato quello di rendere applicabili le regole dimostrative della assenza di pericolosità di cui al co. 1 bis a tutti i condannati non collaboranti, senza distinzione tra condannati che scelgono di non collaborare e condannati che non possono collaborare.
Né del resto ci convince l’idea – sostenuta dalla Cassazione nella sentenza Grasso – che la “percepibile differenza ontologica tra le due ipotesi” giustificherebbe invece una diversificazione del regime probatorio. Come si è già accennato, la Cassazione fonda la sua tesi sull’idea che solo l’impossibilità della collaborazione consentirebbe di qualificare in termini ‘neutri’ la condotta del condannato per reati ostativi, poichè “l’opzione del silenzio” rivelerebbe una connotazione di disvalore che spiegherebbe l’introduzione di un accertamento probatorio più impegnativo in queste ipotesi.
A noi sembra tuttavia che tale lettura non sia coerente con la sentenza 253, con la quale la Corte costituzionale ha riconosciuto al condannato la “libertà di non collaborare” ed ha nella sostanza mostrato di non ritenere necessariamente connotata di disvalore “l’opzione del silenzio”. Per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis o.p. è stato ora restituito al magistrato di sorveglianza il potere di effettuare una valutazione individualizzata della condizione del detenuto non collaborante, con la possibilità di indagare anche le ragioni che hanno indotto lo stesso a scegliere il silenzio. Dunque, proprio all’interno di tale spazio valutativo, potranno trovare il giusto ‘peso’ eventuali considerazioni relative all’impossibiltà o all’irrilevanza della o altre diverse motivazioni che il condannato potrà fornire, senza che sia possibile in astratto attribuire maggiore meritevolezza alle une piuttosto che alle altre[7].
Una valutazione in concreto potrebbe così rivelare una minore pericolosità del soggetto che sceglie di non collaborare pur potendolo fare, rispetto al soggetto che si trova nell’impossibilità di farlo. Si pensi alla situazione di un soggetto che, pur avendo maturato un distacco dall’associazione criminale, decida però di non collaborare per proteggere l’incolumità di un familiare, rispetto alla situazione di un soggetto che tale distacco non abbia maturato, ma che si trovi nella situazione del co. 1 bis poiché – essendo stato raggiunto in sentenza l’accertamento integrale dei fatti e delle responsabilità – non ha informazioni ulteriori da fornire agli inquirenti.
Da ciò la conclusione, che ci sembra di poter trarre, secondo cui non è conforme ai principi costituzionali l’applicazione di un regime di prova più sfavorevole per chi sceglie di non collaborare, rispetto al soggetto che si trova nella condizione di non poterlo fare.
Su questo piano, del resto, si coglie la portata rivoluzionaria della sentenza 253/2019 della Corte costituzionale che, trasformando in relativa la presunzione assoluta di permanenza del vincolo associativo in caso di mancata collaborazione, ha rimosso un’illegittima compressione ai principi di individualizzazione, proporzionalità e quindi umanità e rieducazione della pena.
8. Un’ultima considerazione. Se si parte dal presupposto che la dichiarazione di illegittimità costituzionale non possa tradursi in una mera affermazione di principio, ma debba produrre degli effetti utili nell’ordinamento, allora ne consegue che è dovere dei giudici interpretare la sentenza 253/2019 in modo da rendere realizzabile lo scopo che essa si propone, ossia - come si è detto - il superamento del carattere assoluto di presunzione di pericolosità del condannato non collaborante, consentendo di dimostrare nel caso concreto che la mancanza di collaborazione non ha impedito la rottura del vincolo associativo.
Ciò potrà realizzarsi solo a patto che l’accertamento richiesto per il superamento della presunzione non assuma la fisionomia di una prova impossibile. Al magistrato di sorveglianza dovrà cioè chiedersi di effettuare una prognosi sulla effettiva rottura del vincolo associativo, non diversamente da quanto richiestogli sin d’ora per il caso di concessione dei permessi premio in caso di collaborazione impossibile. A questo fine dovranno evidentemente essere utilizzati una serie di indici sintomatici della rottura del vincolo associativo che, come la giurisprudenza ci insegna, potranno essere rappresentati dalla dissoluzione del gruppo criminale di appartenenza o dalla sua mancanza di operatività; dall’eventuale estromissione dell’affiliato dall’associazione criminale; da condotte poste in essere durante l’esecuzione della pena detentiva che rivelino univocamente la dissociazione dello stesso dal gruppo di appartenenza; dal tenore di vita dello stesso detenuto e dei suoi familiari in relazione al tipo di occupazione lavorativa[8]. Si tratta come evidente di una valutazione che deve essere effettuata con estremo rigore, in considerazione della particolare forza del vincolo associativo che, specie nelle consorterie di stampo mafioso, è tendenzialmente indissolubile[9].
Di certo, e non potrebbe che essere così, la collaborazione utile rimane ancora la strada maestra per l’accesso ai permessi premio[10], tuttavia essa non è più l’unica: se è merito della Corte costituzionale l’avere aperto una nuova strada che consente l’accesso a tale beneficio ai condannati non collaboranti che si dimostrino non pericolosi, è tuttavia compito dei giudici fare sì che questa nuova strada possa essere percorsa, così da garantire che anche nei fatti la disciplina dell’art. 4 bis risulti conforme ai principi costituzionali.
[1] Per un commento alla sentenza, oltre ai contributi di S. Bernardi e M. Ruotolo, pubblicati in questa Rivista e riportati nella colonna qui a fianco, cfr. anche G. Dodaro, L’onere di collaborazione con la giustizia di fronte alla Costituzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2020, in corso di pubblicazione.
[2] Per una ricostruzione storica ed un’analisi accurata della disciplina della collaborazione irrilevante ed impossibile cfr. L. Caraceni, sub art. 4 bis, in AA.VV., Ordinamento penitenziario commentato, a cura di F. Della Casa, G. Giostra, Milano, 2019, p. 67 s.
[3] In assenza di indicazioni normative sul punto, la giurisprudenza si è orientata nel senso che spetta al Tribunale di sorveglianza l’accertamento della collaborazione impossibile, mentre la valutazione sull’assenza di attualità dei collegamenti sia di competenza dell’organo che deve decidere sull’applicazione del beneficio, dunque al magistrato di sorveglianza in relazione ai permessi premio. Sul punto, anche per i necessari riferimenti giurisprudenziali, cfr. L. Caraceni, cit., p. 70.
[4] In questi termini L. Caraceni, cit., p. 73.
[5] Ex multis, Cass. 11 ottobre 2016, n.5505
[6] Così anche G. Dodaro, cit.
[7] Nello stesso senso cfr. G. Dodaro, cit.
[8] Sul punto cfr. S. Romice, La collaborazione impossibile. Note sui margini di superamento dei divieti di cui all’art. 4 bis o.p., in Giur. pen. 6/2018.
[9] Per la considerazione, a nostro avviso del tutto condivisibile, che potrebbe essere opportuno riflettere sull’attribuzione al locale tribunale di sorveglianza della competenza sulla concessione dei permessi premio per i condannati per reati ostativi, così da assicurare una ponderazione collegiale sulla decisione, cfr. M. Ruotolo, Reati ostativi e permessi premio, in questa Rivista.
[10] Così M. Ruotolo, cit.