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10 Aprile 2020


Interdittive antimafia e controllo giudiziario volontario: la Cassazione delinea un nuovo ruolo per le Prefetture?

Cass., Sez. I, 30 gennaio 2020 (dep. 28 febbraio 2020), n. 8084, Pres. Tardio, Est. Magi, Gial Plast s.r.l.



1. La sentenza in epigrafe si inserisce nel solco di quelle recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità volte a co-definire interpretativamente la disciplina – non sempre sufficientemente analitica e puntuale – della nuova misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario c.d. volontario recata dall’art. 34 bis, comma 6, del codice antimafia ed introdotta con la legge 17 ottobre 2017, n. 161, con il deliberato intento di agevolare la prosecuzione delle attività economiche delle imprese infiltrate occasionalmente dalle consorterie mafiose, tramite un intervento di supporto ‘terapeutico’[1].

In particolare, la decisione fa luce ancora una volta – così come l’importante arresto delle Sezioni unite 2019 sui mezzi di impugnazione avverso il provvedimento di diniego di concessione della misura[2] – su profili procedurali del nuovo istituto[3], chiarendo in questa circostanza quale sia il novero dei soggetti legittimati ad opporsi al provvedimento del Tribunale della prevenzione di ammissione al controllo giudiziario volontario a favore di un’impresa destinataria di una informativa antimafia negativa da parte della Prefettura territorialmente competente.

Tuttavia, dietro il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte sulla base di un iter argomentativo rigoroso ed inappuntabile, si celano anche taluni interessanti spunti che inducono a riflettere in termini più generali sui rapporti tra le interdittive antimafia e l’istituto del controllo giudiziario volontario, nonché sulla opportunità di una più ampia valorizzazione di quest’ultimo, attraverso un dialogo costruttivo tra le prefetture ed i Tribunali di prevenzione competenti.

 

2. Ma procediamo con ordine e prendiamo le mosse dal caso in esame.

La pronuncia annotata origina da un ricorso per cassazione proposto da parte della Prefettura che aveva disposto l’interdittiva antimafia nei confronti di un’azienda oggetto di tentativi di infiltrazione mafiosa avverso l’ordinanza del Tribunale di Prevenzione di Lecce che l'aveva ammessa alla misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario volontario per la durata di due anni, sospendendo così, ai sensi dell’art. 34 bis, comma 7, d.lgs. n. 159/2011, gli effetti del provvedimento interdittivo prefettizio.

La Prima Sezione della Suprema Corte, prima di entrare nel merito della questione principale della ammissibilità del ricorso, ha però reputato opportuno ribadire quanto già affermato dalle Sezioni unite circa i mezzi di impugnazione esperibili in materia di controllo giudiziario, affermando che nei confronti delle decisioni del giudice di prevenzione relative a tale misura patrimoniale – in assenza di una esplicita regolamentazione da parte del codice antimafia – si possa applicare estensivamente, in ragione dell’evidente analogia tra gli istituti, la disciplina dettata per la misura dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 d.lgs. n. 159/2011 e si possa, quindi, anche in tale ipotesi proporre ricorso alla Corte d’appello territorialmente competente e, solo successivamente, quello per cassazione[4]. Ciò significa che in caso di errore sul mezzo di impugnazione prescelto, la eventuale riqualificazione dello stesso è possibile in base al principio generale di conservazione degli effetti dell’atto di cui all’art. 568, comma 5, c.p.p., ma è subordinata – secondo l’insegnamento delle Sezioni unite Bonaventura[5] – alla verifica della sussistenza, da un lato, dell’effettiva volontà di impugnare e, dall’altro, dell’oggettiva impugnabilità del provvedimento.

Una volta fatta tale precisazione, però, la S.C. ha giustamente ritenuto di non dover procedere nel caso affrontato alla ‘conversione’ dell’atto di ricorso per cassazione presentato dalla Prefettura tramite l’Avvocatura dello Stato in ricorso in appello, dal momento che, in realtà, a ben vedere, in questa occasione il ricorrente era del tutto privo del potere di impugnare il provvedimento del Tribunale di prevenzione.

Proprio quest’ultimo rilievo è stato dirimente nell’orientare l’attenzione dei giudici di legittimità in questa pronuncia verso la trattazione di una questione preliminare rispetto al vaglio della accoglibilità del ricorso e di grande interesse pratico, in considerazione del crescente numero di richieste di accesso alla misura: quella della annoverabilità delle Prefetture competenti tra i soggetti legittimati ad opporsi alle decisioni giudiziarie di ammissione al controllo volontario ex art. 34 bis d.lgs. n. 159/2011.

 

3. La posizione assunta dalla Suprema Corte sul punto è particolarmente ferma e chiara.

Secondo il corretto avviso dei giudici di legittimità, la Prefettura che ha legittimamente rilasciato il provvedimento di informativa antimafia negativo ai sensi degli artt. 84 e ss. d.lgs. n. 159/2011 è priva del potere di impugnare – sia con ricorso per Cassazione, sia con ricorso in appello – la decisione ammissiva al controllo giudiziario volontario emessa dal Tribunale della prevenzione, anche quando lo stesso ente pubblico sia intervenuto nella fase cognitiva preliminare per esigenze di integrazione del contraddittorio sulla valutazione delle condizioni per la concessione della suddetta misura di prevenzione patrimoniale.

A far propendere per tale conclusione negativa sono argomenti testuali difficilmente controvertibili, rappresentati sia dalla norma specifica che regola le impugnazioni delle misure di prevenzione all’interno del codice antimafia, sia da quella generale che nel codice di procedura penale enuncia in apertura del Libro IX Impugnazioni il principio di tassatività dei soggetti titolari del potere di proporre una impugnazione.

Più precisamente, il primo elemento letterale impiegato per escludere l’impugnabilità dei provvedimenti di ammissione al controllo giudiziario da parte delle Prefetture competenti al rilascio delle informative antimafia negative è costituito dall’art. 10, d.lgs. n. 159/2011 che, nel regolare il sistema delle impugnazioni delle misure di prevenzione, attribuisce la titolarità di tale potere – in modo tassativo ed esplicito –, da un lato, al procuratore della Repubblica e al procuratore generale presso la Corte di appello e, dall’altro, all’interessato e al suo difensore.

La littera legis di tale disposizione contiene, evidentemente, un elenco nominativo inequivoco dei soggetti titolari del potere di impugnazione distinto per tipologie, quella degli appartenenti alla c.d. parte pubblica e quella degli appartenenti alla c.d. parte privata; ragion per cui nella nozione di ‘interessato’ con cui si apre la descrizione della seconda sottocategoria non si può sussumere anche la Prefettura che ha adottato il provvedimento interdittivo, ma unicamente il privato attinto dalla stessa o altro soggetto terzo i cui diritti patrimoniali siano stati incisi dalla precedente pronunzia del Tribunale.

Ciò porta la Corte a concludere in modo perentorio che “la parte pubblica del procedimento di prevenzione, titolare del potere di introdurre l’atto di impugnazione avverso una decisione terminativa del procedimento […] è identificata nel Procuratore della Repubblica e nel Procuratore Generale con esclusione di altri soggetti pubblici”.

Questa interpretazione letterale e restrittiva della norma in parola è imposta anche da criteri ermeneutici di tipo sistematico ed, in particolare, dal più generale principio della tassatività dei soggetti legittimati ad impugnare enunciato espressamente nel codice di rito dall’art. 568, comma 3, c.p.p. in forza del quale è sempre necessaria una attribuzione legale esplicita di tale potere.

La Cassazione, a chiusura del suo ragionamento, precisa anche che una simile soluzione esegetica non è scalfita neppure dal fatto che, nel caso di specie, la Prefettura territorialmente competente che aveva adottato il provvedimento sia stata coinvolta nella trattazione preliminare della domanda di ammissione al controllo della società destinataria della informazione interdittiva, aspetto questo che è connesso alla necessità cognitiva del giudice di prevenzione in ordine alla sussistenza delle condizioni di ammissibilità della misura del controllo volontario e non al regime delle impugnazioni, e che, dunque, non può valere a conferire alla medesima Prefettura la qualità di parte nel procedimento.

Infine, la S.C. puntualizza, ad abundantiam, che la Prefettura che ha adottato l’informativa antimafia negativa non avrebbe comunque alcun ragionevole interesse alla censura del provvedimento di ammissione al controllo giudiziario volontario, dal momento che lo stesso non inficia il provvedimento a monte, ma ne sospende solamente gli effetti con la contestuale previsione di penetranti poteri di controllo governati dal Tribunale che ha riscontrato – sulla base di giudizio duale, retrospettivo e prospettico – “possibilità concrete di recupero della realtà aziendale alla libera concorrenza, a seguito di un percorso emendativo”.

Va aggiunto che tale ultima delucidazione sembra rinvenire una conferma indiretta anche in quella recente giurisprudenza amministrativa che – chiamata a pronunciarsi sull’incidenza del controllo giudiziario sul provvedimento prefettizio di cui tende a ‘silenziare’ gli effetti – ha ritenuto che questo “non costituisce un superamento dell’interdittiva, ma in un certo senso ne conferma la sussistenza, con l’adozione di un regime in cui l’iniziativa imprenditoriale può essere ripresa per ragioni di libertà di iniziativa e di garanzia dei posti di lavoro, sempre naturalmente in un regime di assoggettamento ad un controllo straordinario”[6].

La asserita non incidenza del controllo volontario sulla validità e sulla sussistenza dell’informativa antimafia negativa pare, infatti, ribadire implicitamente l’assenza di qualsiasi interesse della Prefettura al suo diniego, riguardando solo aspetti esecutivi della misura.

 

4. Come si accennava in apertura, però, la pronuncia in commento risulta particolarmente interessante non solo per le conclusioni cui approda in ordine al problema specifico della legittimazione delle Prefetture ad impugnare i provvedimenti giudiziari di concessione del controllo volontario, ma anche, o forse soprattutto, perché fa profilare sul suo sfondo una questione ancora non messa bene a fuoco in questa ‘terra di nessuno’, collocata a metà strada tra il diritto penale ed il diritto amministrativo: quella della frammentazione e sovrapposizione delle competenze e delle giurisdizioni in materia di interdittive antimafia e di misure di prevenzione ‘palliative’ delle stesse[7].

Escludendo, giustamente, per le ragioni anzidette, che il soggetto titolare del potere di disporre tale provvedimento, il prefetto, sia titolare anche di quello di impugnare la decisione di ammissione al controllo che su questo si fonda, la sentenza della S.C. invita indirettamente a ragionare sulla opportunità di valutare un possibile ripensamento della procedura da seguire per la adozione delle informative antimafia negative e/o del controllo giudiziario volontario[8].

L’attuale scenario ci offre, infatti, una situazione non del tutto razionale, in cui (oltre a crearsi incertezze sui poteri di entrambi i giudici, sull’efficacia delle relative decisioni e sulla pregiudizialità del giudizio penale rispetto a quello amministrativo ecc.) l’adozione del provvedimento più invasivo seppure di tipo formalmente preventivo-cautelare – quello che dispone l’interdittiva antimafia con i suoi effetti demolitivi per l’esistenza stessa di un’azienda che opera nel settore degli appalti e dei servizi pubblici – è disposta in via amministrativa dal Prefetto che è anche parte inquirente in assenza di un contradditorio obbligatorio con il destinatario[9] (la sua audizione è solo un’eventualità, anche se da ultimo è stato sollevato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea per valutare la conformità dell’art. 93 del codice antimafia al diritto euro-unitario [10]), mentre la adozione della misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario, che ha la funzione di mitigare il rigore dell’interdittiva antimafia, è disposta da parte di un giudice terzo, il giudice di prevenzione, in un giudizio camerale che garantisce sempre un contraddittorio tra le parti.

Forse sarebbe opportuno un ripensamento de iure condendo dell’intera disciplina che attualmente produce, per riflesso, sul versante giudiziario, una polverizzazione di competenze tra l’autorità giudiziaria amministrativa e quella penale ed una intersezione tra i due giudizi – essendo presupposto per l’accesso al controllo la previa impugnazione dell’interdittiva davanti al T.a.r. – che genera difficoltà operative per gli stessi giudici dei due rami dell’ordinamento[11] ed introduce ostacoli all’effettivo esercizio del diritto di difesa del destinatario di questi provvedimenti costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost.

Di recente, la asimmetria tra l’interdittiva antimafia disposta da un provvedimento di natura amministrativa, peraltro potenzialmente inaudita altera parte, e le altre misure di prevenzione applicate con provvedimento definitivo di natura giurisdizionale è stata sottoposta anche al vaglio della Corte costituzionale, lamentando l’irragionevolezza ai sensi dell’art. 3 Cost. di tale opzione legislativa in considerazione degli identici effetti preclusivi che, ai sensi dell’art. 89 bis d.lgs. n. 159/2011, entrambe le misure esplicano sull’esercizio della libertà di iniziativa economica costituzionalmente riconosciuta dall’art. 41 Cost.

Pur concernendo un profilo peculiare – quello della estensione degli effetti delle interdittive antimafia prefettizie alle attività di natura privatistica soggette ad autorizzazione, di norma incise solo dalle comunicazioni antimafia che, invece, seguono alla previa adozione di una misura di prevenzione con provvedimento giudiziario definitivo[12] – e pur essendo stata considerata la questione infondata dalla sentenza n. 57 del 26 marzo 2020 della Corte costituzionale, non sembrano però del tutto sopiti i dubbi in precedenza manifestati, essendo la dorsale argomentativa di questa decisione costituita da aspetti non incontrovertibili, come quello della temporaneità della misura interdittiva che non tiene assolutamente conto del fatto che, nella stragrande maggioranza dei casi, se l’azienda opera solo nel settore della contrattualistica pubblica e degli appalti, nonostante la natura provvisoria, il provvedimento rischia sempre di tradursi in concreto in un ‘ergastolo occulto’ che ne sancisce la scomparsa dal mondo dei rapporti economico-giuridici; oppure come l’altro della sufficiente precisione delle ipotesi normative che consentono l’applicazione delle interdittive, che omette di considerare che la situazione contemplata dall’art. 84, lett. e), d.lgs. n. 159/2011 è assolutamente generica e non può essere riempita di contenuti prevedibili attraverso l’interpretazione tassativizzante della giurisprudenza di legittimità[13].

Non è certo questa la sede per approfondire tali aspetti, particolarmente intricati; si può solo segnalare che anche questa ultima pronuncia della Consulta appena menzionata conferma l’impressione che tra i tanti profili del codice antimafia che meritano di essere ripensati in una prospettiva de lege ferenda deve certamente essere preso in considerazione (al di là delle determinazioni che si assumeranno) quello della competenza ad adottare le interdittive antimafia ed il controllo volontario e, quindi, del riparto di giurisdizioni tra il giudice penale ed il giudice amministrativo.

 

5. Nella filigrana della decisione della S.C. in epigrafe può intravedersi anche un altro aspetto interessante e di portata più ampia rispetto alla specifica questione di carattere processuale trattata in modo soddisfacente: l’inclinazione della giurisprudenza di legittimità a favorire il ricorso alla misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario volontario, reputandola strumento capace di mitigare i rigori – talvolta eccessivi – delle interdittive antimafia prefettizie sia nei confronti dei destinatari diretti, che dei terzi del tutto estranei, come i lavoratori, i creditori e gli altri stakeholders dell’impresa infiltrata, nonché di recuperare all’economia legale aziende non ‘definitivamente compromesse’ con la criminalità organizzata di tipo mafioso.

Sono, infatti, trascorsi oltre due anni da quando la nuova misura di prevenzione patrimoniale – l’unica la cui applicazione avviene su base volontaria e su richiesta dello stesso destinatario – è entrata in vigore, ma la sua latitudine applicativa continua ad essere eccessivamente contenuta da un punto di vista quantitativo e ‘a geografia variabile’ da un punto di vista di distribuzione territoriale.

Di norma, infatti, si è registrato un atteggiamento prudenziale di tendenziale ritrosia da parte dei Tribunali di prevenzione nel concedere la nuova misura, facendo sovente prevalere nelle decisioni che la riguardano un approccio retrospettivo-stigmatizzante[14], in cui dirimente si rivela l’accertamento del tentativo pregresso di infiltrazione mafiosa e la sua non riducibilità ad un episodio meramente ‘occasionale’.

Solo in taluni distretti giudiziari si è ravvisato un comportamento differente e più ‘aperto’ da parte dei giudici competenti a valutare simili richieste, fondato su un approccio all’istituto di tipo prospettico-recuperativo, in cui – grazie ad una interpretazione dell’art. 34 bis, comma 6, d.lgs. n. 159/2011, indipendente dal precedente disposto del comma 1 – si conferisce prevalente risalto nelle decisioni favorevoli alle effettive e concrete possibilità di futura ‘bonifica mafiosa’ dell’azienda infiltrata, senza però scadere nell’eccesso opposto di trasformarlo in un diritto dell’interdetto da riconoscere ‘automaticamente’ in seguito alla impugnazione dinanzi al giudice amministrativo dell’interdittiva[15].

Va rilevato che, di recente, in questa seconda direzione sembrano muoversi anche le indicazioni contenute, implicitamente, nella decisione delle Sezioni unite sulla possibile ‘marginalizzazione’ del requisito della occasionalità del tentativo di infiltrazione nella azienda – non espressamente indicato nel comma 6, né richiamato espressamente tramite un rinvio testuale al comma 1 – e, al contrario, sulla valorizzazione dei giudizi prognostico-predittivi di recupero della stessa all’economia legale[16].

Il massimo organo nomofilattico, infatti, ha osservato che “la peculiarietà dell’accertamento del giudice (…) sta (…) nel fatto che il fuoco dell’attenzione e quindi del risultato delle analisi deve essere posto (…) sulle concrete possibilità che la singola realtà aziendale ha o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi dei controlli e delle sollecitazioni che il giudice delegato può rivolgere nel guidare l’impresa infiltrata”; “l’accertamento dello stato di condizionamento e di infiltrazione non può, cioè, essere soltanto funzionale a fotografare lo stato attuale di pericolosità oggettiva in cui versi la realtà aziendale a causa delle relazioni esterne patologiche, quanto piuttosto a comprendere e a prevedere le potenzialità che quella realtà ha di affrancarsene seguendo l’iter che la misura alternativa comporta”.

 

5.1. A tale riguardo bisogna sgomberare il campo da ogni possibile fraintendimento: l’impiego più diffuso e frequente – ma non indiscriminato ed ‘automatico’ – della misura del controllo giudiziario volontario che la Suprema Corte sembra avallare anche con quest’ultima decisione del 2020 non deve essere considerato come un segno di pericoloso allentamento delle politiche di contrasto alle infiltrazioni delle consorterie criminali di tipo mafioso nell’economia legale e come una ‘mortificazione’ dell’importante lavoro di prevenzione svolto dalle Prefetture sul territorio[17].

Al contrario, va forse valutato come lo strumento giuridico più idoneo messo a punto dal legislatore per perseguire realmente tale fondamentale obiettivo di contrasto preventivo-cautelare alle incursioni della criminalità organizzata nel nevralgico settore degli appalti pubblici, senza però trascurare la necessità di preservare anche gli altri diritti e libertà che le informazioni antimafia negative mettono a repentaglio, talvolta ingiustificatamente o sproporzionatamente.

Attraverso il controllo giudiziario volontario – con cui, è bene ribadirlo, non si ‘annulla di fatto’ il provvedimento prefettizio interdittivo, ma semplicemente (un po’ come avviene per le misure alternative alla detenzione concesse dal Tribunale di sorveglianza rispetto alle pene irrogate dal giudice della cognizione) se ne commutano le modalità esecutive, lasciando, però, sempre aperta la possibilità, in corso di ‘vigilanza giudiziaria’, della applicazione di altre misure di prevenzione patrimoniali – si riesce a realizzare un’equilibrata ponderazione dei tanti interessi contrastanti in gioco, quelli della tutela dell’economia legale, dell’ordine pubblico e della libera concorrenza sul mercato, da un lato, e quelli della libertà di iniziativa economica, del diritto di proprietà e degli interessi collettivi alla esecuzione delle opere pubbliche e alla preservazione dei livelli occupazionali, dall’altro.

Di norma, infatti, un’impresa operante nel settore dei lavori pubblici destinataria di un’interdittiva è implicitamente ‘condannata’ alla quasi certa ‘estinzione’, non potendo più portare a compimento le opere già assegnate, né partecipare a gare per l’aggiudicazione di nuove, a causa dell’ipoteca negativa che grava sulla stessa, pur dopo l’eventuale revoca del provvedimento prefettizio; è, però, probabile che la medesima azienda (o meglio: i suoi amministratori) – come tutte le piante infestanti che si pensa di aver debellato strappando con violenza le parti verdi affioranti dal terreno – si ‘riaffaccerà’ sul mercato in tempi brevi con altra veste societaria e nome giuridico ma, magari, con immutati collegamenti con la criminalità organizzata, lasciando così nella sostanza irrisolto il problema che la misura voleva debellare.

Diversamente, un’azienda ammessa al controllo giudiziario volontario ed alle penetranti, stringenti e continuative misure di sorveglianza che questo può implicare, oltre a poter continuare ad operare sul mercato senza soluzione di continuità e, quindi, senza detrimento per i livelli occupazionali e per le pretese dei creditori e degli altri soggetti terzi portatori di interessi nei suoi confronti, può – come un albero liberato dalle piante infestanti, con una attenta opera di loro estirpazione sino alla radice e di verifica periodica della assenza di ricrescita sul medesimo terreno – anche concretamente riuscire a ‘liberarsi’ da condizionamenti mafiosi resi oggettivamente impossibili, o quanto meno più difficili, dalla osservazione prescrittiva e continuata del Tribunale sulle sue attività per un arco temporale che può essere, addirittura, triennale.

Tuttavia, allo scopo di evitare di allargare inopinatamente le maglie di tale misura, introducendo un irragionevole regime di favore per imprese ‘strutturalmente’ ed ‘irreversibilmente’ mafiose, si può auspicare l’instaurazione nei procedimenti giudiziari che la riguardano di un dialogo costruttivo tra Prefetture e Tribunali di prevenzione, capace di sfociare nella definizione congiunta e condivisa di prescrizioni utili a consentire la prosecuzione di un’attività aziendale che lasci intravedere concrete e longeve possibilità di ‘risanamento’ mafioso.

Uno spiraglio normativo per agevolare la creazione di una simile interazione dialogico-costruttiva tra il giudice penale e la prefettura che ha disposto l’interdittiva antimafia sembra essere lasciato dall’art. 34 bis, comma 3, lett. e), d.lgs. n. 159/2011, nella parte in cui – con una formulazione lessicale abbastanza aperta, per non dire del tutto generica ed indeterminata – chiude l’elencazione tassativa degli obblighi che il tribunale può imporre all’amministratore giudiziario dell’azienda ai fini della concessione della misura, annoverando quello “di assumere qualsiasi altra iniziativa finalizzata a prevenire specificamente il rischio di tentativi di infiltrazione o condizionamento mafiosi”.

La portata amplissima di questa disposizione consente di immaginare anche la possibilità per il Tribunale di prevenzione – all’esito del giudizio camerale in cui sia stata sentita anche la Prefettura che ha disposto l’informativa antimafia per integrare il contradditorio per la valutazione della sussistenza delle condizioni per la concessione del controllo giudiziario volontario – di disporre il rispetto di alcune indicazioni formulate dalla competente diramazione territoriale del Ministero dell’Interno, oppure di imporre un flusso di comunicazioni con la medesima per tutta la durata della misura di prevenzione.

In tal modo, non solo si vincerebbe la comprensibile riottosità delle Prefetture nei giudizi relativi all’applicazione dell’art. 34 bis, comma 6, d.lgs. n. 159/2011, ottenendo un loro contributo più costruttivo, ma si rafforzerebbe notevolmente anche l’efficacia dell’intervento dello Stato nelle attività di ‘disinquinamento mafioso’, introducendo ulteriori momenti di verifica sull’operato dell’azienda infiltrata da parte di un soggetto pubblico diverso dall’autorità giudiziaria e, per giunta, dotato di una diretta e piena contezza dei contesti in cui quella stessa realtà imprenditoriale si trova ad operare.

D’altronde, se secondo la celebre e profetica definizione di Jhering la storia del diritto penale è storia di continua abolizione, in cui il carattere draconiano delle sanzioni si stempera progressivamente con l’evolversi del livello di civiltà giuridica della società, anche quella dell’ancora ‘giovane’ diritto penale della criminalità organizzata dovrebbe già oggi – ed ancor più in un futuro prossimo – assumere sembianze diverse da quelle originarie, imposte illo tempore dalla emergenza, gravità e diffusione del fenomeno che intendeva contrastare.

Seguendo questa possibile parabola evolutiva una moderna antimafia deve caratterizzarsi per un rinnovato approccio alla ‘questione mafia’ e, soprattutto, a quella cruciale della contiguità mafiosa[18], in cui la precedente impostazione delle politiche di contrasto secondo una logica escludente, istantanea e repressiva, ceda – con le dovute cautele – il passo ad una concepita seconda una opposta logica includente, prolungata e ‘rieducativa’.

Pur non perdendo di vista l’indispensabilità delle interdittive nella prevenzione dei tentativi di infiltrazione delle mafie negli appalti pubblici e nella tutela delle altre imprese che operano in questo medesimo settore nel pieno rispetto della legalità, essa deve riuscire a temperarne l’afflittività in modo da garantire, oltre la salvaguardia dell’ordine pubblico, anche la prosecuzione delle attività di impresa e la tenuta degli altri interessi pubblico-collettivi ad essa avvinti, sia quelli macro e micro-economici, sia quelli lavorativo-occupazionali.

La prospettiva bellico-giuridica del passato, che portava ad affrontare la questione della prevenzione mafiosa con interventi drastici ed istantanei, come appunto le interdittive, deve lasciare spazio ad una costruttiva e continuativa, come quella sottesa al controllo giudiziario volontario.

La stagione del rigore destruens, in cui l’intervento dello Stato si sostanziava semplicemente in una sbrigativa ostracizzazione dagli appalti pubblici e dall’economia legale dell’azienda infiltrata, deve essere progressivamente soppiantata da quella, ben più impegnativa per gli attori pubblici, della cura construens, in cui l’intervento di questi ultimi sia cronologicamente dilatato e contenutisticamente più articolato, per consentire una effettiva ‘bonifica’ delle imprese da forme di condizionamento illegale di tipo mafioso.

Gli spazi per il controllo giudiziario volontario paiono, dunque, destinati a crescere, almeno sulla carta; alla giurisprudenza ed al tempo spetta il compito di confermare o confutare questa prognosi[19].

 

 

[1] Per approfondimenti su questa nuova misura di prevenzione patrimoniale si veda C. Visconti, Il controllo giudiziario “volontario”: una moderna “messa alla prova” aziendale per una tutela recuperato ria contro le infiltrazioni mafiose, in G. Amarelli-S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia e le altre misure di contrasto alla infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, Torino, 2019, 237 ss.; R. Cantone-B. Coccagna, L’impresa raggiunta da interdittiva antimafia tra commissariamenti prefettizi e controllo giudiziario, ivi, 283 ss.; A. Maugeri, La riforma delle misure di prevenzione patrimoniali ad opera della l. 161/2017 tra istanze efficientiste e tentativi incompiuti di giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione, in Arch. pen., 2018, 368 ss.; M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese tra controllo giudiziario volontario, interdittive prefettizie e giustizia amministrativa, in questa Rivista, 3 marzo 2020, 5 ss.; E. Birritteri, I nuovi strumenti di bonifica aziendale nel Codice Antimafia: amministrazione e controllo giudiziario delle aziende, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2019, 859 ss.; S. Finocchiaro, La riforma del codice antimafia (e non solo): uno sguardo d’insieme alle modifiche appena introdotte, in Dir. pen. cont., 2017, 256 ss.; F. Balato, La nuova fisionomia delle misure di prevenzione patrimoniali: il controllo giudiziario delle aziende e delle attività economiche di cui all'art. 34-bis codice antimafia, in Dir. pen. cont., 12 marzo 2019, 64 ss. Spunti interessanti anche in E. Mezzetti, Codice antimafia e codice della crisi dell’insolvenza: la regolazione del traffico delle precedenze in cui la spunta sempre la confisca, in Arch. pen. online, 2019, 11 ss.

[2] Cass., Sez. un., 26 settembre 2019, n. 46898, Recchiuto.

[3] Per una ricostruzione dei principali risvolti problematici dell’istituto sul versante processuale si rinvia a G. Francolini, Questioni processuali in tema di applicazione del controllo giudiziario delle aziende ex art. 34 bis, comma 6, d.lgs. n. 159/2011, in G. Amarelli – S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia, cit., 256 ss.

[4] Sul punto, per un commento a tale decisione si rinvia a D. Albanese, Le Sezioni unite ridisegnano il volto del controllo giudiziario “volontario” (art. 34-bis, co. 6, d.lgs. 159/2011) e ne disciplinano i mezzi di impugnazione, in questa Rivista, 28 novembre 2019.

[5] Cass., S.u., 31 ottobre 2001, n. 45371, Bonaventura.

[6] C.G.A.R.S., Sez. I, sent. 26 luglio 2019, n. 706.

[7] La funzione peculiare della nuova misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario è evidenziata da T. Bene, Dallo spossessamento gestorio agli obiettivi di stabilità macroeconomica, in Arch. pen., Spec. Rif., 2018, 2 s.; C. Visconti, Il controllo giudiziario “volontario”, cit., 238 ss.; E. Birritteri, I nuovi strumenti di bonifica aziendale nel Codice Antimafia, cit., 840 ss.

[8] Tali aspetti sono di recente indagati da M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese, cit., 5 ss., che sottolinea punti di intersezione e di criticità tra la prevenzione ‘giurisdizionale’ e quella amministrativa; nonché da N. Pisanello, Gli effetti del controllo giudiziario sul giudizio amministrativo, in G. Amarelli – S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia, cit., 271 ss.

[9] Per una più approfondita analisi delle criticità che caratterizzano il provvedimento amministrativo di disposizione di un’interdittiva antimafia sia consentito rinviare al nostro G. Amarelli, Le interdittive antimafia “generiche” tra interpretazione tassativizzante e dubbi di incostituzionalità, in G. Amarelli – S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia, cit., 207 ss.

[10] Si veda T.a.r. Puglia, Sez. III, 13 gennaio 2020, ord. n. 28 che ha rimesso alla Corte di giustizia U.E. la questione pregiudiziale se gli artt. 91, 92 e 93 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, nella parte in cui non prevedono il contraddittorio endo-procedimentale in favore del soggetto nei cui riguardi l’Amministrazione si propone di rilasciare una informazione antimafia, siano compatibili con il principio del contraddittorio, così come ricostruito e riconosciuto quale principio di diritto dell’Unione dall’art. 6, par. 3, T.U.E.

[11] Sul punto cfr. M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese, cit., 7 ss.

[12] Una ricostruzione dei rapporti tra interdittive e comunicazioni antimafia, con particolare attenzione alla estensione degli effetti di queste ultime sulle attività di natura privatistica, naturalmente prima della recentissima decisione della Corte costituzionale n. 57/2020 è svolta da A. De Pascalis, Le comunicazioni antimafia: autonomia o sovrapposizione con le informazioni?, in G. Amarelli-S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia, cit., 73 ss.

[13] Non è possibile soffermarsi oltre su tale ultimo profilo, ma i dubbi sulla legittimità costituzionale delle interdittive generiche in realtà permangono anche dopo le recenti pronunce del Consiglio di Stato. Sul punto ci si permette di rinviare ancora a G. Amarelli, Le interdittive antimafia “generiche”, cit., 223 ss.

[14] L’efficace locuzione, così come la successiva, è di C. Visconti, Il controllo giudiziario “volontario”, cit., 240 ss.

[15] Si vedano, tra le decisioni più significative, Trib. di S. Maria C.V., 14 febbraio 2018, in Giur. it., 2018, p. 1518, con il commento di T. Alesci, I presupposti ed i limiti del nuovo controllo giudiziario nel codice antimafia; Trib. Catanzaro, 9 luglio 2018. Per una più ampia ricostruzione dei principali orientamenti giurisprudenziali sul punto si rinvia a C. Visconti, Il controllo giudiziario “volontario”, cit., 241 ss.

[16] Sul punto si vedano anche le analoghe considerazioni di M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese, cit., 16. Tale prospettiva ermeneutica, tesa a sganciare – in assenza di un rinvio normativo espresso – il controllo giudiziario volontario di cui all’art. 34 bis, comma 6, d.lgs. n. 159/2011 dai presupposti fissati per la applicazione del controllo giudiziario ordinario nel comma 1 della medesima disposizione e, quindi, dalla occasionalità, è stata prospettata in dottrina da C. Visconti, Il controllo giudiziario “volontario”, cit., 241 ss.

[17] Mette in luce il possibile fraintendimento della misura da parte dei Prefetti M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese, cit., 5.

[18] Sulla rilevanza centrale assunta dalla c.d. dimensione relazionale ai fini della definizione del fenomeno mafioso si rinvia a C. Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003; nonché al nostro G. Amarelli, La contiguità politico-mafiosa. Profili politico-criminali, dommatici ed applicativi, Roma, 2017. Da ultimo, per una compiuta indagine di tutti i principali problemi che il diritto penale incontra sul terreno del concorso esterno, si veda V. Maiello, Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale, Torino, 2019.

[19] In senso analogo si esprime M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese, cit., 6.