Cass. pen., sez. III, 16 gennaio 2020 (dep. 20 febbraio 2020), n. 6626, Pres. Lapalorcia, Est. Gai, ric. Rackete
1. Pubblichiamo il testo della sentenza con la quale la Corte di Cassazione è intervenuta, in fase pre-cautelare, sulla nota vicenda di Carola Rackete, la comandante della nave Sea Watch 3 che il 29 giugno 2019, senza esservi autorizzata dalle competenti autorità italiane, ed anzi contravvenendo all’espresso divieto di ingresso nelle acque territoriali, aveva condotto l’imbarcazione nel porto di Lampedusa con a bordo alcune decine di migranti tratti in salvo in acque internazionali.
In relazione a tali condotte Rackete era stata tratta in arresto con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), nonché di resistenza e violenza contro nave da guerra (art. 1100 cod. nav.), in particolare per avere reiteratamente disatteso l’ordine di fermare la rotta verso il porto ed avere infine urtato, nella manovra di attracco, una motovedetta della Guardia di Finanza. Il GIP di Agrigento[1], tuttavia, non aveva convalidato l’arresto ed aveva rigettato la richiesta di applicazione della misura cautelare del divieto di dimora nella provincia. Il ricorso presentato dal Pubblico Ministero avverso tale ordinanza è stato respinto dalla Cassazione con la pronuncia di cui ci accingiamo ad illustrare le motivazioni.
2. Ricapitolando i fatti, la nave Sea Watch 3, battente bandiera olandese e di proprietà della ONG tedesca Sea Watch, aveva tratto in salvo una cinquantina migranti in zona SAR libica il 12 giugno 2019. Malgrado la guardia costiera libica avesse formalmente assunto il coordinamento del soccorso, la Sea Watch era giunta per prima sul luogo dell’evento ed aveva pertanto immediatamente avviato le operazioni di recupero dei naufraghi.
Si trattava di un gommone in condizioni precarie, sprovvisto di carburante sufficiente per raggiungere la terraferma, a bordo del quale nessuno indossava il giubbotto di salvataggio. Concluse le operazioni di recupero, la comandante aveva richiesto l’assegnazione di un place of safety (POS) a diverse autorità marittime, ricevendo risposta da quelle libiche che avevano indicato di dirigersi verso il porto di Tripoli. Rackete aveva tuttavia risposto che la Libia non poteva qualificarsi come porto sicuro e aveva chiesto un POS alternativo; nel frattempo si era diretta verso nord in direzione dei porti sicuri più vicini, ossia quelli italiani e maltesi, reiterando la richiesta di attracco.
Il 15 giugno il Ministro dell’Interno italiano aveva disposto nei confronti della Sea Watch 3 il primo divieto di ingresso in attuazione del c.d. decreto sicurezza-bis, appena entrato in vigore[2]. Nei giorni successivi, mentre la nave stazionava dinanzi alle acque territoriali italiane, reiterando la richiesta di assegnazione di un porto dove attraccare, le autorità avevano evacuato alcuni soggetti necessitanti cure mediche. Il 26 giugno la Sea Watch era entrata nelle acque italiane e si era diretta verso Lampedusa, disattendendo l’alt delle motovedette della Guardia di Finanza ed invocando lo stato di necessità; si era fermata quindi nei pressi del porto in attesa di disposizioni. Questa ulteriore situazione di stallo si era protratta per alcuni giorni, durante i quali la nave era stata perquisita dalla polizia di frontiera. Nella notte del 29 giugno – constatato che una soluzione politica tardava ad arrivare, che i ricorsi esperiti dinanzi al Tribunale amministrativo del Lazio ed alla Corte europea dei diritti dell’uomo non erano andati a buon fine[3], e che uno dei medici a bordo aveva affermato che le reazioni delle persone non erano più prevedibili – la comandante aveva avviato i motori e si era diretta verso la banchina commerciale del porto di Lampedusa, dove aveva infine attraccato urtando, nella manovra, una motovedetta della Guardia di Finanza.
In relazione a tali condotte, come già detto, Rackete era stata tratta in arresto per i reati di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e resistenza e violenza a nave da guerra (art. 1100 cod. nav.).
3. Il GIP di Agrigento, con la decisione già richiamata, rigettava le richieste della Procura di convalidare l’arresto e di applicare a Rackete la misura cautelare del divieto di dimora nella provincia. Quanto al delitto di resistenza e violenza contro nave da guerra (art. 1100 cod. nav.) il GIP si limitava a richiamare la sentenza della Corte Costituzionale n. 35/2000, secondo la quale le unità navali della Guardia di Finanza possono considerarsi tali solo quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia una autorità consolare; circostanze non ricorrenti nel caso di specie, atteso che la motovedetta operava nel porto di Lampedusa.
Passando al reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), il GIP riteneva la condotta dell’indagata scriminata dall’adempimento del dovere di soccorso in mare (art. 51 c.p.). Al riguardo, pur riconoscendo che gli Stati sono liberi di adottare misure di contrasto all’immigrazione irregolare via mare (art. 19 della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982 o UNCLOS[4]), il GIP sottolineava che tale potere incontra il limite del dovere di soccorso alle navi ed alle persone in difficoltà (art. 18 UNCLOS). Rilevava, inoltre, che gli Stati costieri devono cooperare affinché le operazioni di soccorso vengano portate a termine, nel più breve tempo possibile, attraverso la presa a bordo dei naufraghi e la loro conduzione fino ad un porto sicuro (Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 o Convenzione SAR). Osservato, poi, che tale dovere di soccorso si estende ai comandanti delle navi (art. 98 UNCLOS), il GIP concludeva nel senso che anche il segmento finale della condotta dell’indagata, fino all’attracco nel porto di Lampedusa, doveva considerarsi coperto dalla scriminante dell’adempimento del dovere.
4. Con la sentenza in commento, le cui motivazioni sono state depositate giovedì 20 febbraio, la Cassazione ha respinto il ricorso con il quale il PM di Agrigento aveva chiesto l’annullamento dell’ordinanza del GIP di Agrigento.
In base al primo motivo di ricorso formulato dall’accusa, il GIP avrebbe travalicato i limiti del proprio sindacato in materia di convalida dell’arresto in flagranza. Ciò in quanto, anziché limitarsi a verificare la sussistenza dei presupposti per l’arresto e dell’uso ragionevole dei poteri da parte della polizia giudiziaria, avrebbe effettuato un penetrante giudizio sulla insussistenza della gravità indiziaria (valutazione invece riservata all’applicabilità delle misure cautelari coercitive), ritenendo configurabile la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso in mare (art. 51 c.p.). Ciò, oltretutto, sulla scorta di un percorso argomentativo definito “complesso” dallo stesso GIP, come tale incompatibile con quella valutazione di “apparenza” in ordine alla sussistenza di esimenti da cui discende il divieto di arresto ai sensi dell’art. 385 c.p.p. (disposizione in base alla quale, conviene ricordarlo, “l’arresto o il fermo non è consentito quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare che questo è stato compiuto” – tra l’altro – “nell’adempimento di un dovere”).
La Cassazione anzitutto ribadisce i principi generali secondo cui, posto che «il provvedimento di convalida è diretto esclusivamente a legittimare l’intervento d’urgenza della polizia giudiziaria […] il giudice è tenuto soltanto a valutare la sussistenza degli elementi che hanno legittimato l’adozione della misura con una verifica “ex ante”», ossia alla luce degli elementi conosciuti dalla PG, o dalla stessa conoscibili con l’ordinaria diligenza, al momento dell’operazione. Ciò premesso, il collegio chiarisce che l’art. 385 c.p.p. deve essere interpretato alla luce dall’art. 13 Cost., al fine cioè di garantire che le limitazioni del diritto inviolabile alla libertà personale operate in via provvisoria dalla polizia giudiziaria – organo di per sé «incompetente… ad intaccare la sfera di libertà del singolo» – conservino carattere tassativo ed eccezionale. È proprio nel solco di tale interpretazione costituzionalmente orientata che la Cassazione afferma di aderire all’orientamento dottrinale secondo cui l’“apparenza” di cui all’art. 385 c.p.p. deve essere interpretata non nel senso che l’esercizio della causa di giustificazione deve “apparire evidente”, bensì nel senso che il divieto di arresto sussiste ogniqualvolta la scriminante risulti «ragionevolmente/verosimilmente esistente sulla scorta delle circostanze di fatto conosciute o conoscibili con l’ordinaria diligenza».
5. Il collegio si sofferma quindi sulle ragioni in virtù delle quali ritiene che il GIP abbia adeguatamente motivato in ordine alla verosimile esistenza della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere (avendo peraltro a tale riguardo già chiarito, in un precedente passaggio, che la mera presenza di un’articolata e "complessa" motivazione nell’ordinanza di negata convalida non costituisce – contrariamente a quanto affermato dal ricorrente – un indice di assenza del requisito).
Sul punto la Corte richiama gli stessi strumenti di diritto internazionale posti dal GIP a fondamento della causa di giustificazione, tutti ratificati dall’Italia e pertanto pienamente efficaci nel nostro ordinamento: la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS-Safety of Life at Sea, stipulata a Londra nel 1974 e ratificata dall’Italia con legge n. 313 del 1980); la Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo (SAR, stipulata ad Amburgo del 1979 e resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989, nonché con il D.P.R. n. 662 del 1994); la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritto del mare (UNCLOS, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994). Si tratta, osserva la Corte, di «disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima»; anche sulla base di una valutazione rigorosamente ex ante, dunque, la loro rilevanza nelle circostanze del caso di specie – e la conseguente verosimile esistenza della scriminante – non possono essere negate.
«Né si potrebbe ritenere – prosegue la Corte addentrandosi in uno dei passaggi chiave della pronuncia – che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “place of safety”)». Sul punto la Corte richiama il punto 3.1.9 della menzionata Convenzione SAR, dove si stabilisce l’obbligo delle Parti contraenti di cooperare tra loro affinché sia individuato un luogo sicuro dove condurre i naufraghi. A proposito della nozione di luogo sicuro, la stessa Convenzione richiama quanto indicato dalle direttive elaborate dal Maritime Safety Committee dell’Organizzazione Marittima Internazionale (MSC 167-78 del 2004). In motivazione la Corte ne riporta i passaggi rilevanti: “un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non e più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale” (par. 6.12); inoltre “sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative.”(par. 6.13).
Coerentemente con le norme richiamate, i giudici concludono nel senso che «Non può quindi essere qualificato "luogo sicuro", per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse».
Ampliando ulteriormente l’orizzonte della normativa sovranazionale di riferimento, la Corte soggiunge altresì che «Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave». Infine, ad ulteriore conferma dell’interpretazione di “luogo sicuro” adottata, la Corte richiama la Risoluzione dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa n. 1821 del 21 giugno 2011 (avente ad oggetto "L'intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare"), secondo cui “la nozione di ‘luogo sicuro’ non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali” (punto 5.2.); tale strumento infatti, «pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale».
6. Il secondo motivo di ricorso formulato dall’accusa riguardava la qualificazione della motovedetta della Guardia di Finanza come “nave da guerra”, ossia il presupposto – negato dal GIP di Agrigento alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 35/2000 – per l’applicabilità del delitto ex art. 1100 cod. nav.
Anche la Cassazione perviene alla conclusione secondo cui, agli effetti dell’art. 1100 cod. nav., il naviglio dei finanzieri non poteva considerarsi, nel caso di specie, “nave da guerra”, ma lo fa sulla base di un diverso iter argomentativo, ritenendo inconferente la citata pronuncia costituzionale in quanto emessa ai diversi fini dell'ammissibilità di un referendum abrogativo sulla smilitarizzazione della Guardia di Finanza, e comunque in epoca antecedente alle rilevanti norme sull'ordinamento militare. Con riferimento a queste ultime, i giudici di legittimità si soffermano in particolare sull’art. 239 del Codice dell’ordinamento militare (d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66, che ha recepito l’art. 29 della Convenzione di Montego Bay), alla luce del quale affermano che «le navi della Guardia di finanza sono certamente navi militari, ma non possono essere automaticamente ritenute anche navi da guerra». Quest’ultima qualificazione, infatti, dipende dalla sussistenza degli ulteriori requisiti indicati dal comma 2 dell’art. 239, a mente del quale “per ‘nave da guerra’ si intende una nave che appartiene alle Forze armate di uno Stato, che porta i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità ed è posta sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello Stato e iscritto nell'apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio è sottoposto alle regole della disciplina militare”. Tanto premesso, la Corte osserva che nel caso di specie al comando della motovedetta della Finanza vi era un maresciallo, ossia un soggetto qualificabile come militare ma rispetto al quale è rimasto indimostrato se si trattasse un ufficiale iscritto nell’apposito ruolo o in documento equipollente.
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7. La pronuncia in commento costituisce – a quanto ci risulta – la prima in cui la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi, ancorché solo nella prospettiva di valutare la legittimità di un arresto, sulla seguente questione: se la conduzione in un porto italiano di persone recuperate nell’ambito di attività di soccorso in acque internazionali, anche a fronte di espresso divieto di ingresso nelle acque territoriali e/o in assenza di autorizzazione all’attracco, costituisca adempimento del dovere di soccorso in mare, e sia pertanto da considerarsi scriminata ex art. 51 c.p.
È significativo, in tale prospettiva, il fatto che la Suprema Corte si sia soffermata ad indicare gli strumenti di diritto internazionale, tutti ratificati dall’Italia e dunque aventi rango di legge ordinaria, dal cui combinato disposto è ricavabile, a carico del comandante della nave, non solo l’obbligo di recuperare le persone in distress, ma anche quello di condurle verso un luogo sicuro. A proposito di quest’ultimo, la formulazione di un puntuale motivo di ricorso da parte della Procura ha consentito alla Corte di affermare expressis verbis che, quando si parla di soccorsi in mare, il concetto di “luogo sicuro” deve essere considerato sinonimo di “porto sicuro”: sia perché nessun’altra soluzione esegetica è compatibile con i requisiti che, ai sensi delle citate linee guida MSC, richiamate dalla Convenzione SAR, un luogo deve avere per poter essere definito – appunto – sicuro; sia, e in maniera assorbente, perché le stesse linee guida stabiliscono che solo “provvisoriamente” l’imbarcazione può svolgere tale funzione. In assenza di ulteriori specificazioni, la “provvisorietà” deve ritenersi riferita al tempo strettamente necessario affinché gli Stati costieri, in adempimento dell’obbligo di cooperazione discendente dalla stessa Convenzione SAR, individuino il luogo dove lasciare sbarcare le persone.
In questo contesto normativo, i casi davvero problematici – come già emerso in altre recenti vicende (si pensi a quelle che hanno coinvolto le navi Alan Kurdi e Open Arms[5]) – sono quelli in cui gli Stati vengono meno all’obbligo di cooperazione, o addirittura emanano divieti di ingresso ad hoc (è il caso dei decreti ministeriali adottati in attuazione dell'art. 11 comma 1-ter T.U. imm., introdotto dal già richiamato decreto sicurezza-bis), dando vita a situazioni di stallo in cui le navi soccorritrici rimangono alla deriva con i migranti a bordo. Ebbene – se vediamo correttamente – i principi di diritto autorevolmente affermati dalla pronuncia in esame offrono una chiave per sbloccare siffatte situazioni: qualificare come adempimento del dovere la condotta del comandante che, all’esito di una ragionevole valutazione di tutte le circostanze di specie (incluso il tempo inutilmente trascorso alla fonda in attesa di una soluzione politica), ha autonomamente individuato il porto sicuro dove effettuare lo sbarco, significa riconoscere che, a fronte della protratta inerzia degli Stati costieri, la tutela dei diritti fondamentali delle persone trasportate – delle quali il comandante è per legge il garante – deve necessariamente avere la prevalenza su ogni altro tipo di valutazione inerente alla tutela dei confini nazionali. Si tratta, del resto, di un’impostazione perfettamente in linea con le Raccomandazioni emanate nel 2019 dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, secondo cui spetta al comandante stesso – a fronte dell’inerzia delle autorità, ovvero dell’indicazione di luoghi di sbarco non sicuri (come la Libia) – stabilire dove sbarcare le persone soccorse, in base alla propria valutazione professionale sulla situazione complessivamente considerata.
Come visto, la situazione venuta in rilievo nel caso di specie risultava particolarmente complessa in quanto non solo l’indicazione del porto sicuro tardava ad arrivare; ma il Ministro dell'Interno aveva emanato un espresso divieto di ingresso nelle acque territoriali ex art. 11 co. 1-ter T.U. imm., al quale le autorità di frontiera avevano tentato di dare effettività attraverso i reiterati alt intimati alla Sea Watch, fino alle ultime e concitate fasi nelle quali si era verificato l’urto con ma motovedetta della GDF. Di qui la peculiarità del caso in esame, che a differenza di altri procedimenti scaturiti da operazioni di soccorso in mare, non riguarda il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare ex art. 12 T.U. imm. (oggetto peraltro di separato procedimento nei confronti della stessa imputata), bensì due fattispecie imperniate sulla resistenza ad atti compiuti dalle autorità nell’esercizio delle loro funzioni. In questo scenario, la scriminante dell’adempimento del dovere si estende fino a legittimare anche il contrasto, da parte degli attori della società civile, alle attività di polizia che frappongano ostacoli alla buona riuscita dell’operazione di soccorso. La risoluzione del conflitto tra il dovere di proteggere le frontiere, da un lato, e quello di tutelare i diritti fondamentali di persone vulnerabili, dall’altro lato, a favore del secondo, si traduce in un diritto di resistenza ai pubblici poteri esercitati in maniera contrastante con principi e regole di ordine sovra-legislativo. La tensione tra privati e pubblici poteri sembrerebbe dunque raggiungere un punto di insanabile frattura, come suggerisce anche il fatto che i repertori giurisprudenziali sono pressoché privi di applicazioni dell’art. 51 c.p. rispetto a condotte integranti il reato di cui all’art. 337 c.p. Eppure, a ben vedere, la coerenza di fondo dell’ordinamento è rintracciabile sul piano della funzione espletata dai diritti fondamentali – in questo caso la vita, l’integrità fisica ed il diritto a richiedere asilo dei naufraghi – sul terreno della limitazione all’esercizio legittimo del potere statale; una funzione evidentemente decisiva nel determinare l’esito del bilanciamento tra i confliggenti interessi in gioco a sfavore dell’autorità.
8. La pronuncia si inserisce in un contesto storico difficile, dove i soccorsi in mare sono percepiti, per effetto narrazioni distorte ormai ampiamente diffuse a tutti i livelli della società, come corridoi di immigrazione irregolare dal Nord Africa verso l’Europa; un contesto nel quale nemmeno i più accurati studi empirici che riportano la riduzione degli sbarchi[6] e dimostrano l’inesistenza del famigerato pull-factor attribuito all’attività delle ONG[7] riescono ad incidere sulle scelte dei policy makers e sui messaggi veicolati dai mezzi di informazione. Prova ne siano, tra l’altro, le difficoltà che il Governo sta incontrando in questi giorni a trovare un’intesa politica sulla riforma dei decreti sicurezza, giungendo fino a prospettare come soluzione la possibilità di ridurre le sanzioni amministrative per chi viola i divieti ministeriali di ingresso nelle acque territoriali con a bordo stranieri soccorsi in acque internazionali. Un dibattito quasi paradossale, incentrato sul quantum accettabile di sanzione pecuniaria, ovvero sulla subordinazione della confisca della nave alla reiterazione dell’illecito, quando invece l’unica riforma accettabile sarebbe, evidentemente, l’abolizione tout court di quelle disposizioni.
In mancanza di interventi riformatori in tal senso, peraltro, è evidente che l’adempimento del dovere di soccorso – nei termini ricostruiti dalla sentenza in esame – potrà operare come causa di giustificazione anche rispetto alle sanzioni amministrative emanate in base al decreto sicurezza-bis, escludendone ab origine l’applicabilità o comunque costituendo valido motivo di ricorso per il loro annullamento, conformemente a quanto prevede l’art. 4 della legge 689 del 1981. In altre parole, a prescindere dagli esiti che avrà l’attuale dibattito sulla riforma del decreto sicurezza-bis, è possibile affermare che disobbedire a divieti ministeriali di ingresso emanati in condizioni analoghe a quelle del caso qui in esame costituisce, sin d’ora, una condotta perfettamente lecita, perché doverosa. La conclusione secondo cui tale dovere è destinato a prevalere rispetto a quello, eventualmente contrapposto, di controllare i confini marittimi con l'utilizzo della forza pubblica, oltre che imposta dal fine superiore di tutelare i diritti fondamentali di persone vulnerabili, trova a ben vedere conferma in uno dei più autorevoli manuali di diritto penale, dove, per spiegare il concetto di “ordine illegittimo di polizia”, viene utilizzato come esempio l'analogo caso in cui «una pubblica autorità (il prefetto, il ministro degli interni, il ministro della sanità etc.) emani un provvedimento nel quale si ingiunga ai titolari degli enti privati che gestiscono autoambulanze di non prestare soccorso ai feriti extracomunitari privi di permesso di soggiorno»[8].
9. Ulteriore riflesso dei principi affermati nella sentenza in esame potrebbe riguardare i numerosi procedimenti per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare ex art. 12 T.U. imm. (uno dei quali pendente proprio nei confronti di Carola Rackete) avviati nei confronti di comandanti delle navi di ONG che hanno condotto naufraghi stranieri nei porti italiani. Se infatti la scriminante dell’adempimento del dovere di soccorso è suscettibile di coprire la condotta dei comandanti perfino in caso di proporzionata resistenza al tentativo delle autorità di impedirne l’attracco, a fortiori la liceità delle stesse condotte potrà essere affermata a fronte di imputazioni che le qualifichino come favoreggiamento: vuoi sul piano dell’antigiuridicità, vuoi, più in radice, sul piano della stessa tipicità, difettando a ben vedere il requisito di illiceità espressa che perimetra la fattispecie di cui all’art. 12 T.U. imm. (la quale punisce la realizzazione di atti diretti a procurare “illegalmente” l’ingresso di stranieri)[9].
In conclusione, la sentenza della Cassazione rappresenta oggi un faro dello stato di diritto nelle acque agitate della tutela dei diritti fondamentali dei migranti; un punto di riferimento, fuori di metafora, verso il quale tutti i soggetti coinvolti nell’amministrazione della “crisi dei rifugiati” (società civile, forze dell’ordine, autorità giudiziaria, istituzioni politiche) dovranno d’ora in avanti orientare le rispettive condotte.
[1] Tribunale di Agrigento, ufficio GIP, 2 luglio 2019, in Dir. pen. cont., 3 luglio 2019.
[2] Il Decreto legislativo n. 53 del 2019 ha introdotto due fondamentali modifiche nel Testo Unico Immigrazione. Anzitutto, introducendo il comma 1-ter nell’art. 11, ha conferito al Ministro dell’Interno – di concerto con i Ministri della difesa e dei trasporti, e informato il Presidente del Consiglio – il potere di emanare provvedimenti volti a vietare o limitare l’ingresso, il transito o la permanenza nelle acque territoriali di navi (escluse quelle militari o in servizio governativo non commerciale), in presenza di due presupposti alternativi: i) “motivi di ordine e sicurezza pubblica”; ii) concretizzazione delle condizioni di cui all’art. 19, comma 2, lett. g) della Convenzione UNCLOS, norma che a sua volta individua, quale ipotesi di passaggio non inoffensivo (o “pregiudizievole”) di nave straniera nelle acque territoriali, il caso in cui tale nave effettui “il carico o lo scarico di […] persone in violazione delle leggi di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. La seconda novità è l’introduzione del comma 6-bis nell’art. 12 Testo Unico Immigrazione, che prevede, in caso di violazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali, una sanzione amministrativa da 10.000 a 50.000 euro, nonché la confisca dell’imbarcazione in caso di condotte reiterate. La legge di conversione del decreto (legge 8 agosto 2019, n. 77) ha significativamente aumentato la sanzione (che ora va da euro 150.000 fino a 1 milione) e previsto che la confisca sia applicata a seguito della prima violazione, con sequestro immediato.
[3] Sulla richiesta di interim measures rivolta alla Corte di Strasburgo, cfr. S. Zirulia, F. Cancellaro, Caso Sea Watch: cosa ha detto e cosa non ha detto la Corte di Strasburgo nella decisione sulle misure provvisorie, in Dir. pen. cont., 26 giugno 2019.
[4] Tale disposizione, riconosce il potere degli Stati di vietare il passaggio pregiudizievole, ricomprendendovi l’ipotesi di scarico di persone in violazione della disciplina nazionale sull’immigrazione.
[5] Per il caso Alan Kurdi, relativo alla mancata concessione di un porto sicuro alla nave della ONG tedesca nell’aprile 2019, v. F. De Vittor, S. Zirulia, Il caso della nave Alan Kurdi: profili di diritto penale e internazionale in punto di omessa assegnazione di un porto sicuro, in Sistema penale, 5 dicembre 2019. Il caso Open Arms riguarda invece il blocco imposto per oltre venti giorni alla nave dell’ONG spagnola nell’agosto 2019, rispetto al quale pende attualmente dinanzi alla Giunta del Senato per le immunità la richiesta di autorizzazione a procedere per il delitto di sequestro di persona nei confronti del Ministro dell’Interno pro tempore Salvini (il voto è previsto per il 27 febbraio 2020).
[6] Cfr. i dati sugli sbarchi riportati dal “cruscotto statistico” costantemente aggiornato dal Ministero dell’Interno
[7] Cusumano E., Villa M., Sea Rescue NGOs: a Pull Factor of Irregular Migration?, Policy Brief, European University Institute, Issue 2019/22, November 2019.
[8] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, VIII ed., 2019 p. 307.
[9] Per approfondimenti sul punto si rinvia a C. Pitea, S. Zirulia, “Friends, not foes”: qualificazione penalistica delle attività delle ONG di soccorso in mare alla luce del diritto internazionale e tipicità della condotta, in SIDI Blog, 26 luglio 2019.