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23 Marzo 2021


Le Sezioni unite si pronunciano sui criteri di calcolo dello ‘spazio minimo disponibile’ per ciascun detenuto e sul ruolo dei fattori compensativi nell’escludere la violazione dell’art. 3 CEDU

Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551, Pres. Cassano, est. Rocchi, in proc. Commisso



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1. Come è stato anticipato su questa Rivista, sono state depositate le motivazioni della pronuncia con cui le Sezioni Unite penali hanno definitivamente affrontato alcuni nodi controversi, che avevano determinato dei contrasti nella giurisprudenza di legittimità, relativi in particolare alle modalità di calcolo dello spazio minimo di tre metri quadri che deve essere messo a disposizione di ciascun detenuto e al ruolo che possono ricoprire i cd. fattori compensativi – ovvero, la brevità della detenzione, la presenza di condizioni carcerarie dignitose, lo svolgimento di adeguate attività trattamentali al di fuori della cella – per superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU nel caso in cui lo spazio a disposizione del detenuto sia inferiore ai tre metri quadri.

In relazione al primo dei due quesiti, il Supremo Collegio ritiene che nella determinazione dello spazio minimo di tre metri quadri si debba tenere in considerazione la superficie che assicura il normale movimento, dal cui calcolo devono essere detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello[1].

Per quel che concerne, invece, l’ambito di applicazione dei fattori compensativi la Corte ritiene che essi possano consentire di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU in caso di spazio minimo inferiore ai tre metri quadri solo se ricorrano congiuntamente.

Tali fattori andranno invece valutati unitariamente ad altri fattori di carattere negativo, e con essi eventualmente bilanciati, nel caso in cui lo spazio individuale sia compreso fra i tre e i quattro metri quadrati[2].

 

2. Prima di addentrarci nelle questioni sottese all’ordinanza di rimessione e nelle motivazioni spese dalle Sezioni unite, ci sembra opportuno ricostruire in breve le coordinate generali in cui si inserisce la tematica affrontata dalla sentenza in commento.

Sullo sfondo di tale pronuncia, si pone, infatti, la giurisprudenza della Corte EDU che, in diverse occasioni, è stata chiamata a valutare l’incidenza del sovraffollamento carcerario sulle condizioni detentive, ed in particolare la sua idoneità ad integrare un trattamento inumano e degradante, in contrasto con il divieto di cui all’art. 3 CEDU.

Com’è noto, si tratta di un tema rispetto al quale il sistema penitenziario italiano ha mostrato tutta la sua fragilità, così come rilevato dai giudici di Strasburgo, una prima volta, nella sentenza Sulejmanovic c. Italia del 2009 e, di nuovo, nel caso Torreggiani c. Italia del 2013.

I profili di cui si è occupata la giurisprudenza convenzionale relativa al sovraffollamento carcerario sono essenzialmente due: da un lato, la possibilità di ritenere integrata o meno la violazione dell’art. 3 CEDU in presenza di uno spazio minimo disponibile al di sotto dei tre metri quadri, ovvero la necessità di considerare, insieme a quest’ultimo, l’eventuale ricorrenza di alcuni fattori compensativi; dall’altro, le modalità con cui debba essere calcolato lo spazio che deve essere messo a disposizione di ciascun detenuto.

In una prima fase, la Corte EDU aveva in realtà rinunciato ad individuare uno specifico dato spaziale, al di sotto del quale si potesse ritenere violato l’art. 3 CEDU, ritenendo piuttosto che l’esiguità dello spazio libero a disposizione di ciascun detenuto dovesse essere valutata insieme ad altri fattori, quali le condizioni igieniche, il rischio di diffusione di malattie, l’insufficiente accesso all’aria e alla luce naturali, servizi igienici all’interno della cella e visibili, e altri[3].

A partire dalla sentenza Sulejmanovic c. Italia del 2009 la Corte di Strasburgo ha ritenuto che la presenza di uno spazio inferiore ai tre metri quadri integrasse di per sé una violazione dell’art. 3 CEDU, indipendentemente quindi dall’esistenza o meno di altri fattori, positivi o negativi.

L’idea di valutare, insieme al mero dato quantitativo, ulteriori fattori ai fini dell’accertamento della sussistenza di una violazione dell’art. 3 CEDU si fa strada a partire dalla sentenza Ananyev c. Russia del 2012, in cui vengono individuati tre elementi che devono essere presi in considerazione, ovvero la disponibilità di un letto singolo per il riposo e di uno spazio superiore ai tre metri quadri, nonché la possibilità di libero movimento fra gli arredi.

Nella sentenza Torreggiani e altri c. Italia del 2013, la disponibilità di uno spazio inferiore ai tre metri quadri continua ad essere ritenuta di per sé sufficiente ad integrare un trattamento inumano e degradante[4].

Trattandosi di una sentenza pilota, si chiedeva al nostro legislatore di predisporre dei rimedi preventivi e compensativi che consentissero di riparare alla lesione della dignità dei detenuti che si trovavano sottoposti a trattamenti inumani e degradanti a causa della condizione di sovraffollamento strutturale del sistema penitenziario italiano, ritenendo a tal fine insufficiente il reclamo di cui all’art. 35 ord. pen[5].

In ottemperanza alle richieste espresse dalla Corte EDU, il legislatore italiano ha introdotto l’art. 35-bis ord. pen., che disciplina il procedimento per il reclamo giurisdizionale, nonché l’art. 35-ter ord. pen., che prevede i rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 CEDU[6].

In particolare, tale ultima norma contempla, tra i presupposti per esperire il rimedio, la sussistenza di condizioni di detenzione tali da violare l’art. 3 CEDU “così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, per un periodo superiore a 15 giorni[7].

La formulazione della norma vincola quindi il giudice italiano all’interpretazione della nozione di trattamento inumano e degradante fornita dai giudici di Strasburgo, con la conseguenza che la definizione dei presupposti per accedere al rimedio appare condizionata dai mutamenti della giurisprudenza convenzionale.

L’idea dell’equivalenza tra spazio inferiore ai tre metri quadri e sussistenza di un trattamento inumano e degradante inizia ad essere oggetto di ripensamento a partire dalla pronuncia del 2016 della Grande Camera Mursic c. Croazia, in cui si afferma che la disponibilità di uno spazio al di sotto della soglia minima determini solo una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU, che potrà però essere superata tramite la dimostrazione della contestuale presenza di alcuni fattori compensativi. Nel caso in cui lo spazio sia compreso tra tre e i quattro metri quadri, ai fini della violazione, dovrà invece essere valutata la presenza di ulteriori fattori di inadeguatezza.

Tale sentenza affronta per la prima volta il tema relativo alle modalità per calcolare lo spazio minimo, affermando espressamente che, nel calcolo della superficie totale, non debbano essere ricompresi i sanitari, ma debba essere incluso lo spazio occupato da mobili, aggiungendo inoltre che “l’importante è determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella cella”.

Si tratta quindi di una pronuncia che, nell’accertamento circa la sussistenza di un trattamento inumano e degradante e della conseguente violazione dell’art. 3 CEDU, sostituisce il criterio quantitativo dei tre metri quadri con una valutazione multifattoriale, in cui entrano in gioco in fattori compensativi, e opera inoltre un chiaro riferimento alle modalità di calcolo dello spazio minimo, imponendo al contempo al giudice italiano, vincolato in tal senso dalla formulazione dell’art. 35-ter ord. pen., di adattarsi a tale mutamento.

È in questo composito quadro che si inseriscono i dubbi degli interpreti, su cui sono state chiamate a pronunciarsi le Sezioni unite.

 

3. Prima di addentrarci nelle motivazioni spese dalla Corte per pervenire a tali conclusioni, è utile ripercorrere i fatti da cui trae origine la rimessione della questione alle Sezioni Unite.

Il Ministero della Giustizia impugnava il provvedimento con cui il magistrato di sorveglianza di L’Aquila aveva parzialmente accolto l’istanza di un detenuto, presentata ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen., riconoscendo che la detenzione da lui subita nei penitenziari di Pianosa, Palmi, Reggio Calabria, Carinola, Napoli-Poggioreale e Larino, per un periodo di 4571 giorni, fosse in contrasto con l’art. 3 CEDU.

Secondo il Ministero, in particolare, dalla sentenza del 20 ottobre 2016 della Grande Camera pronunciata nel caso Mursic c. Croazia si evincerebbe un diverso criterio di calcolo, in base al quale lo spazio a disposizione di ogni detenuto deve essere determinato includendo quello occupato dagli arredi, con la conseguenza che il magistrato di sorveglianza avrebbe dovuto respingere la richiesta risarcitoria in relazione ai periodi detentivi trascorsi negli istituti di Palmi e Carinola.

Con ordinanza del 2 aprile 2019 il competente Tribunale di sorveglianza rigettava il reclamo proposto dal Ministero della Giustizia. Veniva, in particolare, richiamata la sentenza della Corte EDU 16 luglio 2009 Sulejmanovic c. Italia, secondo cui uno spazio inferiore ai tre metri quadri costituisce di per sé una violazione dell’art. 3 CEDU, senza che abbiano rilievo altri fattori. Tanto premesso, il Tribunale ritiene che il calcolo dello spazio minimo disponibile debba essere effettuato escludendo gli arredi fissi presenti in cella, che costituiscono un ingombro che impedisce il libero movimento, confermando di conseguenza l’accoglimento dell’istanza anche rispetto ai periodi contestati dal Ministero reclamante.

Contro questa decisione, il Ministero ricorreva per cassazione, sostenendo con un unico motivo che vi fosse stata violazione di legge e non corretta interpretazione degli artt. 35 e ss ord. pen., così come interpretati dalla Corte EDU, e concludendo per l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata.

A sostegno della sua doglianza, oltre a ribadire che la sentenza Mursic c. Croazia della Grande Camera adotta un criterio diverso da quello enunciato dal magistrato e dal Tribunale di sorveglianza, richiama inoltre la circolare DAP del 18 aprile 2014 in base alla quale nel calcolo della superficie minima disponibile devono essere computati sia i servizi igienici che lo spazio occupato dall’arredamento.

Il Ministero contesta, quindi, l’orientamento espresso in sede di legittimità a partire dal 2016 che, escludendo dal calcolo della superficie gli arredi fissi, si pone in contrasto con la giurisprudenza convenzionale affermatasi a partire dal caso Mursic c. Croazia.

La Prima sezione penale, cui era assegnato il ricorso, ritiene sussistente il denunciato contrasto giurisprudenziale, che comporta diverse incertezze interpretative, e con ordinanza del 21 febbraio 2020 ritiene opportuna la rimessione degli atti alle Sezioni Unite per la decisione di due diverse questioni: in primis, quella riguardante le modalità di calcolo dello spazio minimo disponibile[8] e, secondariamente, quella relativa al ruolo dei fattori compensativi[9].   

 

4.  Passando ad affrontare il primo dei due quesiti, le Sezioni unite procedono preliminarmente ad un’ampia ricostruzione normativa dei rimedi preventivi e compensativi di cui agli artt. 35-bis e 35-ter ord. pen., sottolineando sin da subito la particolare tecnica legislativa utilizzata per la formulazione di quest’ultima disposizione, che, come anticipato, contiene una clausola mobile di rinvio all’interpretazione dell’art. 3 CEDU fornita dalla giurisprudenza della Corte EDU, che diventa così parte integrante della norma.

In particolare, il co. 1 dell’art. 35-ter ord. pen., prevede che, qualora il detenuto abbia subito un trattamento inumano e degradante per un periodo superiore ai 15 giorni, il magistrato di sorveglianza possa disporre una riduzione della pena detentiva ancora da espiare, eliminando un giorno di pena per ogni dieci in cui si è accertata l’esistenza del pregiudizio subito dal reclamante.

Qualora il periodo di pena ancora da scontare non permetta la detrazione prevista dal co. 1 o nel caso in cui il periodo in condizioni non conformi sia stato inferiore ai 15 giorni, ai sensi del co. 2, il magistrato di sorveglianza provvede a liquidare al detenuto una somma di denaro pari ad 8 euro per ciascuna giornata in cui è stato subito il pregiudizio.

L’ultimo comma della norma prevede, infine, la possibilità di rivolgere la richiesta risarcitoria al tribunale civile se il danneggiato ha subito il pregiudizio in stato di custodia cautelare o non si trovi più ristretto in carcere.

I diversi orientamenti che si sono contrapposti in relazione alle modalità di calcolo dello spazio minimo disponibile e che hanno dato luogo all’ordinanza di rimessione riflettono quindi i mutamenti della giurisprudenza della Corte EDU e la diversa interpretazione che ne viene fornita da parte dei giudici nazionali[10].

Secondo la Corte, infatti, occorre tener distinto il periodo corrispondente alla pronuncia Torreggiani e altri c. Italia del 2013, in cui non era ancora stato introdotto l’art. 35-ter ord. pen., dal periodo successivo alla sentenza Mursic c. Croazia del 2016, in cui il rimedio era già vigente.

Se, infatti, a seguito della pronuncia Torreggiani, era pacifico che gli arredi in generale – mobili compresi – andassero sempre esclusi dal calcolo della superficie minima[11], dopo la sentenza Mursic si inizia a far strada nella giurisprudenza la distinzione tra arredi mobili, computabili nel calcolo, e arredi fissi, tendenzialmente da escludere[12].

Uno dei profili più problematici e discussi, che ha dato adito ad ulteriori divisioni nella giurisprudenza di legittimità, riguarda l’inclusione o meno della superficie occupata dal letto nel calcolo dello spazio minimo, tenendo in considerazione in particolare la distinzione tra letti singoli e letti a castello.

In effetti, su tale punto, la sentenza Mursic non aveva espresso una specifica posizione.

In ogni caso, sempre in applicazione dei principi espressi a livello sovranazionale, alcune sentenze hanno affermato che i letti vadano esclusi in ogni caso[13]; secondo altre, solo se si tratta di letto a castello[14]; secondo altre ancora, entrambi i tipi di struttura devono essere inclusi nel calcolo della superficie che deve essere disponibile per ciascun detenuto[15].

 

5. Così ricostruiti i termini del contrasto, la Corte precisa che le considerazioni spese in motivazione valgono per tutte le ipotesi in cui sia riscontrabile una violazione dell’art. 3 CEDU e quindi un trattamento inumano e degradante, non solo come conseguenza della situazione di sovraffollamento.

Le Sezioni unite ritengono a questo punto dirimente individuare quali pronunce della Corte EDU costituiscano “diritto consolidato”, poiché solo in tal caso sussiste in capo al giudice nazionale l’obbligo di porlo a fondamento del proprio processo interpretativo, ben potendo altrimenti discostarsi da pronunce non espressive di un siffatto orientamento[16].

La Corte costituzionale ha da tempo delineato i rapporti tra giurisprudenza di Strasburgo e giudici nazionali e individuato dei criteri a disposizione dell’interprete per riconoscere quando non possa dirsi che la giurisprudenza convenzionale sia consolidata.

Tra i criteri per riconoscere la natura non consolidata di un orientamento, la Corte costituzionale nella sentenza n. 49 del 2015 indica la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promani da una sezione semplice, e non abbia ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano[17].

Alla luce della formulazione dell’art. 35-ter ord. pen., che consente alla giurisprudenza sovranazionale di operare quale parametro normativo, vincolante erga omnes per l’interpretazione e qualificazione della condotta, gli orientamenti della Corte di Strasburgo non assolvono soltanto all’ordinaria finalità di orientamento dell’interpretazione, ma sono una fonte cui è demandata la determinazione della fattispecie[18].

La Corte ritiene, quindi, che l’orientamento consolidato da tenere in considerazione, tanto per quel che riguarda il calcolo dello spazio minimo disponibile che per quel che concerne il ruolo dei fattori compensativi, sia quello espresso nella sentenza Mursic c. Croazia del 2016, le cui allegate opinioni dissenzienti non ne intaccano il valore di precedente autorevole, laddove si consideri che i medesimi principi sono stati ribaditi in successivi arresti, che hanno contribuito a consolidarlo[19].

Si tratta di una considerazione quest’ultima che è stata di recente recepita e sostenuta anche dalla Corte di Giustizia UE, nel caso Dumitru Tudor Dorobantu del 15 ottobre 2019[20], che richiama espressamente la pronuncia Mursic della Corte EDU.

Sebbene quindi vi siano pronunce che, animate dalla volontà di fornire la più ampia tutela possibile ai diritti del detenuto, nei giudizi promossi ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen. hanno applicato criteri differenti e più favorevoli per i diritti dei detenuti, la Corte chiarisce che la formulazione della norma impedisce di adottare interpretazioni diverse dalla giurisprudenza convenzionale consolidatasi su uno specifico aspetto.

Tale operazione, infatti, secondo la Corte risulta in contrasto con l’art. 35-ter ord. pen., che richiama la giurisprudenza della Corte EDU quale fonte normativa, e con l’obbligo di interpretazione conforme in capo al giudice[21].

 

6. Quanto finora argomentato, però, non esclude, secondo il Supremo Collegio, che vi siano casi in cui un orientamento, sebbene consolidato, possa prestarsi ad interpretazioni differenti, che l’organo nomofilattico è chiamato a comporre[22].

Viene allora così in rilievo il duplice ruolo della Corte di cassazione nei procedimenti promossi ai sensi dell’art. 35-ter ord.pen., chiamata non solo ad interpretare la normativa nazionale e la giurisprudenza sovranazionale che la integra, ma anche ad annullare i provvedimenti adottati dalla giurisprudenza di merito in contrasto con la giurisprudenza convenzionale consolidata.

Tanto chiarito, la Corte entra nel vivo dei principi espressi dalla sentenza della Corte EDU Mursic c. del 2016, in cui si afferma espressamente che “il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili”, osservando inoltre che “è importante determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella cella”.

A questo punto, il Supremo Collegio si trova dinanzi a due possibili opzioni interpretative: da un lato, l’impostazione del Ministero ricorrente, che ritiene che le due proposizioni debbano essere considerate autonomamente, con la conseguenza che la superficie dovrebbe essere calcolata utilizzando le lunghezze dei lati e detraendo i soli servizi igienici, per poi verificare,  solo in un secondo momento, la possibilità per il detenuto di muoversi all’interno della superficie lorda della cella[23]; dall’altra, la lettura sistematica delle due proposizioni, calcolando lo spazio disponibile al netto non solo dei servizi igienici ma anche dei mobili, poiché solo in tal caso risulterebbe possibile valutare se il detenuto goda di un’effettiva libertà di movimento in cella.

In tal caso, ai fini del calcolo, assumerebbe rilievo un armadio fisso o un pesante letto che, impedendo il normale movimento all’interno della cella, andrebbe escluso dal computo. Diversamente, andrebbero inclusi gli arredi mobili – quali tavolini o sgabelli – che possono essere, invece, facilmente spostati[24].

La Corte ritiene che tale ultima impostazione sia quella maggiormente corrispondente all’interpretazione fornita dalla Corte EDU nella sentenza Mursic, in cui si usa espressamente il termine “meuble”, che nella lingua italiana corrisponde a “mobile”, quindi un oggetto che può essere spostato.

Tale interpretazione risulta del resto la più favorevole al benessere del detenuto e si pone d’altra parte in linea con la sentenza pilota Torreggiani pronunciata contro l’Italia, in cui la Corte EDU, accertando che lo spazio a disposizione dei ricorrenti fosse al di sotto dei tre metri quadri, ha espressamente fatto riferimento alla circostanza che tale condizione, già di per sé contrastante con l’art. 3 CEDU, fosse stata aggravata dalla  presenza di arredi che riducevano ulteriormente la possibilità di movimento.

A questo punto, la Cassazione si preoccupa anche di prevenire un possibile comportamento dell’amministrazione penitenziaria che, nel tentativo di sottrarsi ad un eventuale accertamento della violazione, potrebbe collocare fuori dalle celle alcuni arredi fissi, che sono solitamente posti all’interno e utili ai bisogni dei detenuti.

Da un lato, le istanze avanzate ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen. si riferiscono nella maggior parte dei casi a periodi detentivi già trascorsi, rispetto ai quali il dato spaziale risulta oramai immodificabile. D’altra parte, di fronte all’accertamento di un pregiudizio attuale, secondo quanto disposto dall’art. 35-bis co. 3 ord. pen., il magistrato di sorveglianza potrà ordinare all’amministrazione di porvi rimedio entro un determinato termine.

Concludendo sul punto, quindi, la Corte ritiene che l’impostazione adottata dal Ministero sia basata su un’erronea modalità di calcolo.

 

7. Chiarito che nel calcolo dello spazio minimo a disposizione di ciascun detenuto si debba tenere in considerazione la superficie che assicura il normale movimento, al netto quindi degli arredi che sono tendenzialmente fissi al suolo, le Sezioni unite passano ad affrontare il secondo quesito, quello relativo al ruolo dei fattori compensativi.

Si chiede, in sostanza, al Supremo Collegio di stabilire se nel caso in cui lo spazio minimo sia inferiore ai tre metri quadri possa comunque escludersi la sussistenza dell’art. 3 CEDU, qualora concorrano alcuni elementi positivi quali la brevità del periodo in cui perdura la riduzione dello spazio personale, la sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella e lo svolgimento di adeguate attività trattamentali, nonché la sussistenza di condizioni igienico-sanitarie idonee.

Tale punto, in realtà, come affermato dalla stessa Corte, non è stato oggetto di contrasti nella giurisprudenza di legittimità e non ha rilevanza nel caso di specie[25], ma merita comunque un chiarimento, visto che si tratta di una tematica che ha rilievo nell’ambito dei rapporti con le autorità giudiziarie straniere, in particolare per quel che riguarda la procedura di consegna di persone arrestate in forza di un mandato d’arresto europeo.

L’idea di una valutazione multifattoriale delle condizioni detentive ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 3 CEDU inizia a farsi strada a partire dalla sentenza della Grande Camera Mursic c. Croazia che, come anticipato, afferma per la prima volta che la mancanza di uno spazio di almeno tre metri quadri pro-capite non determini automaticamente un contrasto dell’art. 3 CEDU, ma solo una forte presunzione di violazione, superabile appunto in presenza di altri fattori positivi che operano congiuntamente.

Secondo le Sezioni unite, è pacifico nella giurisprudenza di legittimità la distinzione tra detenuti sottoposti al regime chiuso e regime “semiaperto”.

Se rispetto ai primi, per evitare di incorrere in una violazione dell’art. 3 CEDU, vi è la necessità di assicurare loro uno spazio minimo di tre metri quadrati, determinato detraendo quello impegnato da strutture sanitarie e arredi fissi, nel caso di detenuti sottoposti al regime “semiaperto” con uno spazio personale a disposizione inferiore al minimo, per escludere la violazione dovranno essere presi in considerazione altri fattori quali la brevità della detenzione, la sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella, la possibilità di svolgere adeguate attività e di usufruire di dignitose condizioni igienico-sanitarie.

Sarà onere dell’amministrazione penitenziaria dimostrare la sussistenza di tali elementi positivi per superare la forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU.

Tenendo in considerazione gli approdi cui è pervenuta la giurisprudenza convenzionale e la formulazione dell’art. 35-ter ord. pen. in cui il legislatore ha dato espresso rilievo al fattore tempo, le Sezioni unite riconoscono che l’accertamento circa la sussistenza di un trattamento inumano e degradante non può che essere frutto di una valutazione delle complessive condizioni in cui si trova ristretto il detenuto in una cella collettiva, che abbia a disposizione uno spazio inferiore ai tre metri quadri.

Nel caso in cui lo spazio sia compreso tra tre e i quattro metri quadri, ai fini di tale valutazione, oltre ai fattori positivi, possono essere presi in considerazione ulteriori fattori negativi, che possono portare a ritenere violato l’art. 3 CEDU anche se non ricorrono congiuntamente[26].

 

8. In conclusione, quindi, alla luce dei principi espressi, il Supremo Collegio ritiene che il ricorso proposto dal Ministero debba essere rigettato, in quanto basato su un’erronea modalità di calcolo, che includendo nella valutazione dello spazio minimo disponibile anche gli arredi fissi, si pone in contrasto con la corretta interpretazione della giurisprudenza convenzionale consolidata.

 

*****

 

9. Come anticipato, la sentenza in commento ha il merito di eliminare le incertezze che erano insorte tra gli interpreti dopo la pronuncia del 20 ottobre 2016 della Grande Camera nel caso Mursic c. Croazia, avendo individuato dei punti fermi che possano orientare i giudici, tanto di merito quanto di legittimità, nella decisione delle istanze promosse dai detenuti ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen., determinando di conseguenza dei risultati ermeneutici omogenei.

Essa rappresenta al contempo un esempio positivo di dialogo tra Corti, poiché in tale occasione le Sezioni unite traducono nel contesto nazionale i principi espressi dal giudice convenzionale, indicando all’interprete il perimetro entro cui deve orientare la sua attività esegetica.

In base alla peculiare formulazione dell’art. 35-ter ord. pen. – che, nella definizione dei presupposti per acceder al rimedio, fa riferimento all’interpretazione dell’art. 3 CEDU fornita dalla Corte EDU – il giudice italiano è infatti vincolato non solo ad un’interpretazione conforme alla giurisprudenza sovranazionale, ma quest’ultima integra il precetto in relazione alla nozione di trattamento inumano e degradante, la cui definizione è quindi sottratta al libero apprezzamento del giudice[27].

La formulazione della norma ha dato adito sin da subito ad una serie di problemi interpretativi, prontamente segnalati dalla dottrina e affrontati dalla giurisprudenza[28].

Ben presto la giurisprudenza italiana si è trovata a confrontarsi con l’impatto che provoca un revirement della giurisprudenza convenzionale sulla fisionomia dei presupposti per l’accoglimento dell’istanza proposta ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen., una volta che la pronuncia della Grande Camera Mursic c. Croazia dell’ottobre 2016 ha scardinato l’equazione – suggellata nella pronuncia Torreggiani e altri c. Italia del 2013 – secondo cui la disponibilità per il detenuto di uno spazio minimo inferiore ai tre metri quadri costituisca di per sé una violazione dell’art. 3 CEDU.

La presunzione di sussistenza di un trattamento inumano e degradante è stata così trasformata da assoluta a relativa, superabile in caso di compresenza di alcuni fattori compensativi[29].

In effetti, la Cassazione nella prima occasione in cui è stata chiamata a misurarsi con il mutamento della giurisprudenza convenzionale ha recepito in pieno i principi espressi dai giudici alsaziani[30].

Nella sentenza Sciuto, le cui motivazioni sono state depositate nel dicembre del 2016, poco dopo la pronuncia della Grande Camera, la Cassazione conclude con l’annullamento della decisione con rinvio per un nuovo esame, poiché, proprio in applicazione dei principi espressi a livello sovranazionale, ha ritenuto che pur mancando una netta presa di posizione sulla computabilità o meno del letto ai fini della determinazione dello spazio minimo disponibile, la valutazione circa la possibilità di movimento all’interno della cella imponesse di escludere dal calcolo le strutture tendenzialmente fisse, come appunto il letto a castello[31].

A tale conclusione fa seguito un nutrito filone giurisprudenziale che ribadisce i principi espressi dalla Cassazione fin dal dicembre del 2016[32].

La circostanza che la Corte EDU non avesse espressamente dettato le modalità con cui operare il calcolo dello spazio minimo – ovvero se al lordo o al netto degli arredi ingombranti – ha determinato in dottrina un ampio dibattito circa la possibilità per il giudice nazionale di riconoscere al detenuto una tutela maggiore di quella garantita dalla Corte EDU e anche di esprimersi su questioni che la giurisprudenza di Strasburgo non avesse ancora affrontato.

A fronte di una posizione favorevole tanto in dottrina quanto nella giurisprudenza di legittimità[33], sul punto, le Sezioni unite sembrano essere di tutt’altro avviso, affermando expressis verbis che il giudice nazionale non può discostarsi dall’interpretazione consolidata fornita dalla giurisprudenza di Strasburgo, anche se ciò porterebbe a riconoscere una maggior tutela al detenuto[34].

Pertanto, conformemente alla pronuncia Mursic, il giudice nazionale non potrà accogliere un’istanza presentata ai sensi dell’art-35-ter ord. pen. qualora il detenuto abbia vissuto in condizioni detentive al di sotto dei 3 metri quadri, ma tale condizione sia perdurata per un breve periodo di tempo[35], in cui abbia avuto comunque la possibilità di svolgere attività trattamentali adeguate, nonché di fruire di idonee condizioni igieniche, e sempre che gli sia stata garantita la possibilità di libero movimento all’interno della cella.

Ci sembra comunque importante sottolineare il riferimento operato dalle Sezioni unite alla sentenza Torreggiani, secondo cui, come anticipato, l’esiguità di uno spazio minimo al di sotto dei tre metri quadri integrava di per sé una violazione dell’art. 3 CEDU, senza che fosse necessario tenere in considerazione la presenza di ulteriori fattori[36].

In effetti, non è chiaro il motivo per cui la Corte abbia sentito l’esigenza di richiamare tale pronuncia, dopo aver ampiamente argomentato circa la necessità di tenere unicamente in considerazione, quale orientamento consolidato, i principi espressi nel caso Mursic.  

La ragione, probabilmente, risiede nella consapevolezza del fatto che essa rappresenta tuttora un valido punto di riferimento per gli interpreti italiani, avendo guardato da vicino e messo a nudo le criticità del sistema penitenziario italiano.  

 

 

[1] Cfr. par. 18 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551, in cui viene affermato che “nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall'art. 3 della CEDU, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”.

[2] Cfr. par. 22 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551, in cui si afferma che “i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono nella valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen.”.

[3] Cfr., ex multis, Corte EDU, 12 marzo 2009, Aleksandr Makarov c. Russia; Corte EDU, 9 ottobre 2008, Moisseiev c. Russia; Corte EDU, 19 luglio 2007, Trepachkine c. Russia; Corte EDU, 6 dicembre 2007, Lind c. Russia; Corte EDU, 24 luglio 2001, Valašinas c. Lituania, § 92 e ss.

[4] Con la sentenza Tellissi c. Italia del 2013 viene ribadita tale conclusione e si precisa inoltre che in caso di spazio inferiore ai quattro metri quadri, per valutare la violazione dell’art. 3 CEDU, devono essere necessariamente presi in considerazione altri aspetti.

[5] Come riconosciuto dalle Sezioni unite nella pronuncia in commento, prima dell’introduzione dell’art. 35-ter ord. pen., veniva comunque riconosciuto il potere di ordinare alle autorità penitenziarie le misure necessarie per garantire al detenuto reclamante uno spazio individuale minimo coerente con l’art. 3 CEDU ai sensi dell’art. 35 ord. pen. Contro la decisione del magistrato di sorveglianza era ammesso ricorso per cassazione solo per violazione di legge, con la conseguenza che qualora la motivazione non fosse apparente o mancante il ricorso veniva dichiarato inammissibile, cfr. par. 6 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551.

[6] Il legislatore è intervenuto dapprima con il d.l. 23 dicembre 2013 n. 146, convertito in l. 21 febbraio 2014 n. 10, con cui ha introdotto l’art. 35-bis ord. pen., che prevede che il procedimento per il reclamo giurisdizionale si svolga nelle forme di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p., e che ha al contempo modificato le attribuzioni del magistrato di sorveglianza stabilite dall’art. 69 ord. pen.; secondariamente, è intervenuto con il d.l. 26 giugno 2014 n. 92 convertito in l. 11 agosto 2014 n. 117, con cui è stato introdotto l’art. 35-ter ord. pen.

[7] In particolare, il primo comma prevede che “quando il pregiudizio di cui all'articolo 69, comma 6, lett. b), consiste, per un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l'articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, su istanza presentata dal detenuto, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio”.

[8] Il primo quesito era così formulato: “se, in tema di conformità delle condizioni di detenzione all’art. 3 CEDU come interpretato dalla Corte EDU, lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto debba essere computato considerando la superficie calpestabile della stanza ovvero quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se, tra questi ultimi, debba essere detratto il solo letto a castello ovvero anche quello singolo”, Cfr., par. 6 del considerato in diritto, Cass., Sez. I, ord. 21 febbraio 2020 (dep. 11 maggio 2020), n. 14260, Pres. Mazzei, Rel. Mazzei, ric. Commisso, pubblicata su questa Rivista, 25 maggio 2020.

[9] Il secondo quesito era così formulato: “se, nel caso di accertata violazione dello spazio minimo (tre metri quadrati), secondo il corretto criterio di calcolo, al lordo o al netto dei mobili, possa comunque escludersi la violazione dell'art. 3 della CEDU nel concorso di altre condizioni, come individuate dalla stessa Corte EDU (breve durata della detenzione, sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività, dignitose condizioni carcerarie) ovvero se tali fattori compensativi incidano solo quando lo spazio pro capite sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati”, Cfr., par. 6 del considerato in diritto, Cass., Sez. I, ord. 21 febbraio 2020 (dep. 11 maggio 2020), n. 14260, Pres. Mazzei, Rel. Mazzei, ric. Commisso, pubblicata su questa Rivista, 25 maggio 2020.

[10] Sono individuabili cinque tappe dell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in materia di superficie minima a disposizione di ciascun detenuto che vengono puntualmente riportate nell’ordinanza di rimessione: secondo un primo orientamento, formatosi prima della sentenza Mursic, ai fini del calcolo, dalla superficie lorda della cella deve essere detratta l’area occupata dagli arredi, senza alcuna distinzione fra gli stessi; dopo la pronuncia Mursic c. Croazia, un nuovo orientamento ha operato una distinzione tra gli arredi fissi, di ostacolo al libero movimento, la cui superficie deve essere detratta dallo spazio minimo, e arredi facilmente rimuovibili (come sgabelli e tavolini), che possono essere inclusi nel calcolo. All’interno della categoria degli arredi fissi, un contrasto specifico riguarda la superficie occupata dal letto che, secondo alcuni, deve essere sottratta in ogni caso, mentre, secondo altri, deve essere sottratta solo se avente la struttura “a castello”, incompatibile con la seduta eretta e, quindi, destinato esclusivamente al riposo. Un ultimo orientamento, infine, opta per una concezione lorda della superficie, che prescinde dalla presenza della mobilia. Un altro punto di contrasto riguarda il ruolo dei “fattori compensativi”, individuati dalla Corte EDU come idonei a mitigare lo scarso spazio disponibile per il detenuto, che, secondo un primo orientamento, rilevano soltanto quando la superficie minima individuale è compresa tra i tre e i quattro metri quadrati, mentre se è inferiore a tre metri quadrati, la detenzione deve ritenersi in ogni caso non conforme all'art. 3 CEDU. Altre sentenze, invece, attribuiscono rilevanza ai criteri compensativi qualunque sia la superficie individuale nella cella, ritenendo che gli stessi possano rendere le condizioni della detenzione conformi agli standard convenzionali anche se la superficie individuale è inferiore a tre metri quadrati. Cfr., par. 3-4 del considerato in diritto, Cass., Sez. I, ord. 21 febbraio 2020 (dep. 11 maggio 2020), n. 14260, Pres. Mazzei, Rel. Mazzei, ric. Commisso, pubblicata su questa Rivista, 25 maggio 2020.

[11] Si inscrivono in questo filone, Cass. Sez. 1, sent. 19/12/2013, n. 5728, Berni; Cass., Sez. 1, n. 5729 del 19/12/2013, dep. 2014, Carnoli; Cass. Sez. 1, sent. 27/11/2014, n. 53011, Min. Giustizia.

[12] Ritengono che, alla luce dei principi espressi nella sentenza Mursic, la superficie dei tre metri quadri debba essere determinata escludendo soltanto gli arredi fissi, Cass. Sez. I, sent. 17/11/2016, n. 13124, Morello; Cass., Sez. I, n. 12338 del 17/11/2016, Agretti; Cass., Sez. F., sentenza 17/8/2017, n. 39207, Gongola; Cass., Sez. I, sent.  26/05/2017, n. 41211, Gobbi.

[13] Si veda, in particolare, Cass., sez. I, sent. 9/9/2016, n. 52819, Sciuto, in cui la Cassazione ritiene che il letto nelle celle comuni “per comune esperienza è tipologicamente un letto a castello dal peso consistente”, da considerarsi quindi come un ingombro idoneo a restringere la quota spaziale a disposizione del singolo detenuto, senza che possa avere rilevanza la finalità di riposo cui è deputato, che non soddisfa in alcun modo l’esigenza di movimento che è destinata a garantire la disponibilità di uno spazio minimo.

[14]Cfr., Cass., Sez. 7, sent. 18/11/2015, n. 3202, Borrelli; Cass., Sez. I, sent. 17/11/2016, n. 16418, Lorefice; Cass., Sez. I, sent. 16/11/2016, n. 40520, Triki; Cass., Sez. III civ., sent. 07/12/2017, n. 29323, Lamacchia.

[15] Adottano una concezione lorda della superficie, senza scomputare né gli spazi occupati dai letti, singoli o a castello, né quelli ove risultano allocati gli arredi mobili, purché sia assicurata a ciascun detenuto la possibilità di muoversi normalmente nella cella Cass, Sez. 2, sent. 19/10/2017, n. 48401, Ghiviziu; Cass., Sez. Fer., sent. 31 luglio 2018, n. 37610, Ibra; Cass., Sez. IV, sent. 28/10/2016, n. 5472, Mihai; Cass., Sez. VI, sent. 09/11/2017, n. 5303; Cass., Sez. V, sent. 07/06/2018, n. 53731 Lopane.

[16] Cfr. par. 7 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551.

[17] I principi già espressi dalla Corte costituzionale nelle sentenze gemelle n. 348 e n. 349 del 2007 sono stati sviluppati nella sentenza n. 49 del 2015, in cui è stato affermato che alla Corte EDU compete di pronunciare la “parola ultima” in ordine a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, assicurando così la certezza del diritto e l’uniformità delle decisioni presso gli Stati aderenti. Tuttavia, i giudici nazionali non sono “passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale” e non possono spogliarsi della funzione che è assegnata loro dall'art. 101, secondo comma, Cost., con il quale si “esprime l’esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l'indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun’altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto”.

[18] Cfr. par. 8 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551.

[19] Ci si riferisce, in particolare, a Corte EDU, 25 aprile 2017, Rezmives c. Romania; Corte EDU, 16 maggio 2017, Sylla e Nollormont c. Belgio, Corte EDU, 30 gennaio 2020, J.M.B. c. Francia; cfr., par. 14 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551.

[20] Nel caso Dumitru Tudor Dorobantu del 15/10/2019, la Corte di Giustizia UE ha negato espressamente la possibilità per il giudice nazionale, chiamato a decidere sull’esecuzione di un mandato di arresto europeo, di adottare uno standard più elevato rispetto a quelli indicati, in applicazione dei principi espressi nella sentenza della Corte EDU Mursic del 2016.

[21] Cfr. par. 10 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551.

[22] Cfr. par. 12 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551.

[23] Adottando quest’impostazione, la valutazione circa la possibilità di movimento verrebbe qualificato come un accertamento di fatto, di conseguenza non censurabile in Cassazione per violazione di legge.

[24] Cfr. par. 16 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551.

[25] Le Sezioni unite affermano, infatti che, le due sentenze citate nell’ordinanza di rimessione, da cui si ricaverebbe il principio secondo cui la disponibilità di uno spazio inferiore ai tre metri quadri determini di per sé una violazione dell’art. 3 CEDU, a prescindere dalla sussistenza di fattori compensativi, hanno in realtà affermato principi diversi. Nelle pronunce Cass., sez. I., del 09/09/2016, n. 52992, Gallo e Cass., Sez. I, del 15/11/2018 n. 5835, Marsano, si tengono piuttosto in considerazione ulteriori elementi negativi della detenzione che, insieme alla mancanza di spazio, determinano una violazione dell’art. 3 CEDU, cfr. par. 19 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551.

[26] La Corte individua alcuni fattori negativi nella mancanza di accesso al cortile o all'aria e alla luce naturale, nella cattiva aereazione, in una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, nell’assenza di riservatezza nelle toilette, nelle cattive condizioni sanitarie e igieniche; cfr. par. 21 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551.

[27] Com’è stato puntualmente rilevato in dottrina, il rinvio mobile alla giurisprudenza della Corte EDU genera incertezze applicative sia perché richiede al giudice italiano di operare un’interpretazione dell’interpretazione che la Corte EDU dà dell’articolo 3, nella consapevolezza che la giurisdizione di quest’ultima è legata al caso concreto, sia perché costringe il giudice a seguire non solo gli orientamenti consolidati, ma anche le evoluzioni ed involuzioni del giudice di Strasburgo, Cfr., G. Giostra, Art. 35-ter ord. pen., in Ordinamento penitenziario commentato, F. Della Casa – G. Giostra (a cura di), VI ed., 2019, pag. 489; come affermato dalle stesse Sezioni unite nella sentenza in commento, “i principi affermati dalla Corte EDU integrano la fattispecie di cui all'art. 35-ter ord. pen. non solo in chiave sincronica, mediante l'attribuzione al testo di uno dei possibili significati, ma anche in una prospettiva diacronica, tramite l'inquadramento nella norma di diritti e garanzie originariamente non riconosciuti”, cfr. par. 9 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551.

[28] Oltre alla questione relativa all’eterointegrazione del precetto da parte della giurisprudenza convenzionale, ulteriori questioni hanno riguardato i soggetti legittimati, ovvero se il rimedio dovesse ritenersi accessibile anche agli internati, risolta dalla sentenza C. Cost. n. 83 del 2017; l’attualità del pregiudizio subito dal ricorrente, risolta poi dalla Suprema corte in senso favorevole alla sua non necessità; l’inammissibilità sopravvenuta dell’istanza proposta al magistrato di sorveglianza per scarcerazione dell’interessato; l’eccepibilità da parte dell’amministrazione penitenziaria della prescrizione e della compensazione con le spese di mantenimento. Ulteriori critiche hanno riguardato nello specifico l’inadeguatezza dell’entità dell’indennizzo economico. Per l’approfondimento di tutti questi profili critici affrontati dalla giurisprudenza, si rinvia ai contributi di G. Giostra, Art. 35-ter ord. pen., cit.; A. Della Bella, Il risarcimento per i detenuti vittime di sovraffollamento: prima lettura del nuovo rimedio introdotto dal d.l. 92/2014, in Dir. pen. cont., 13 ottobre 2014; F. Fiorentin, I nuovi rimedi risarcitori della detenzione contraria all'art. 3 CEDU: le lacune della disciplina e le interpretazioni controverse, in Dir. pen. cont., 6 novembre 2014.

[29] La sentenza Mursic è stata duramente criticata da una parte della dottrina italiana, che ha rilevato come l’abbandonando del rigido criterio quantitativo cui agganciare il riscontro della sussistenza di un trattamento inumano e degradante in favore di una valutazione multifattoriale abbia determinato un abbassamento dello standard di tutela dei diritti dei detenuti, imponendo al contempo al giudice italiano di recepire insindacabilmente tali approdi. Per un commento della sentenza Mursic, sez. I, 12 marzo 2015, si rinvia a F. Fiorentin, Il vaso di Pandora scoperchiato: la violazione dell’art. 3 CEDU per (mal)trattamenti detentivi tra accertamento “multifattoriale” e giurisprudenza europea. Appunti a margine della sentenza Corte EDU, 12 marzo 2015, Muršič c. Croazia, in Arch. Pen, n. 3/2015; F. Cancellaro, Carcerazione in meno di 3 metri quadri: la grande camera sui criteri di accertamento della violazione dell'art. 3 CEDU, in Dir. pen. cont., 13 novembre 2016; per un’analisi dei profili critici, si rinvia inoltre ad A. Della Bella, Il divieto relativamente assoluto di trattamenti inumani e degradanti, in C. E. Paliero – F. Viganò – F. Basile – G.L. Gatta (a cura di), La pena, ancora: tra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, Giuffrè, 2018, pag. 783 ss; F. Gianfilippi, La fase decisionale, in F. Fiorentin (a cura di), La tutela preventiva e compensava per i diritti dei detenuti, Giappichelli, 2019, pagg. 483 ss.

[30] Ci si riferisce alla sentenza Cass., 9 settembre 2019, n. 52819, Sciuto, per il cui commento si rinvia a M. Mariotti, Ancora sul sovraffollamento carcerario: nel calcolo della superficie della cella è compreso lo spazio del letto? la Cassazione interpreta la giurisprudenza di Strasburgo in modo particolarmente favorevole ai detenuti, in Dir. pen. cont., 29 marzo 2017. Non è mancato in dottrina chi ha sostenuto che la Suprema Corte non fosse in realtà obbligata a seguire la sentenza Mursic. È stato osservato infatti che, se si tengono in considerazione i criteri espressi dalla sentenza della Corte cost. n. 49 del 2015 per individuare la giurisprudenza convenzionale consolidata cui il giudice deve attenersi, la Cassazione avrebbe potuto anche prendere come punto di riferimento la sentenza Torreggiani, poiché essa si poneva all’esito di una serie di pronunce che avevano individuato nello spazio inferiore ai tre metri quadri la presunzione assoluta di violazione dell’art. 3 CEDU ed era una sentenza-pilota contro l’Italia, quindi assimilabile ad un comando legislativo; d’altra parte, la sentenza Mursic si era contraddistinta per un alto numero di autorevoli opinioni dissenzienti. Occorre ricordare, in ogni caso, che i principi espressi nella sentenza Mursic sono stati in seguito ribaditi nelle sentenze CEDU Rezmives e altri c. Romania del 2017 e Nikin e altri c. Estonia del 2019, cfr. F. Gianfilippi, La fase decisionale, cit., pag. 494; per i rilievi critici relativi alla validità del criterio del consolidamento, si rinvia a D. Galliani, Le briciole di pane, i giudici, il senso di umanità. Una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 35, 35-bis e 35-ter dell’ordinamento penitenziario, in F. Fiorentin (a cura di), La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, Giappichelli, 2019, pagg. 108 ss.

[31] Il tribunale di sorveglianza di Perugia aveva calcolato lo spazio minimo disponibile escludendo la superficie occupata dal bagno e da altri arredi fissi ma includendo quella del letto, considerata superficie utile al riposo, cfr. F. Gianfilippi, La fase decisionale, cit., pag. 495.

[32] Cfr., le sentenze citate da F. Gianfilippi, La fase decisionale, cit., pag. 499, in cui si riportano, ex multis, Cass. 17 novembre 2016 n. 7422, Collesano; Cass., 17 novembre 2016, n. 12338, Agretti; Cass., 17 novembre 2016, n. 13124, Morello; Cass., 17 novembre 2016, n. 16418, Lorefice; Cass., 17 novembre 2016, n. 23713, Tenore; Cass. 21 aprile 2017, n. 22929, Iannì; Cass., 27 novembre 2018, n. 7091, Burgio; Cass., 22 gennaio 2019, n. 12155, Sarno.

[33] Cfr. G. Giostra, Art. 35-ter ord. pen., cit., pag. 492; R. G. Conti, La nuova frontiera dopo la “Torreggiani”: tracciati e prospettive per il giudice e per il legislatore, in F. Fiorentin (a cura di), La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, Giappichelli, 2019 pag. 624.

[34] Secondo le Sezioni unite, resta la possibilità per il giudice di ricorrere alla Corte costituzionale nel caso in cui ritenesse che l’art. 35-ter ord. pen. così come applicata in virtù dell’interpretazione convenzionale, sia in contrasto con l’art. 27 co. 3 Cost., rilevando al contempo che si tratta di un’ipotesi piuttosto astratta, Cfr. par. 10 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551.

[35] In questo senso, vengono in considerazione per l’interprete due punti di riferimento: da un lato, la sentenza Mursic che ha accertato che non potesse ritenersi breve il periodo di 27 giorni consecutivi in cui il ricorrente era stato ristretto in uno spazio inferiore ai tre metri quadri; dall’altro lo stesso art. 35-ter ord. pen., in cui il legislatore ha inserito il riferimento ad un periodo non inferiore a 15 giorni come presupposto per ottenere la tutela risarcitoria. Di conseguenza, dovrebbe ritenersi non breve un periodo di tempo in condizioni spaziali al di sotto dei tre metri quadri protrattosi per più di 15 giorni.

[36] Peraltro, in quell’occasione, la Corte EDU ha rilevato che la carenza di uno spazio minimo vitale fosse ulteriormente aggravata dalla presenza di mobilio all’interno delle celle nonché dalla presenza di elementi negativi quali la mancanza di acqua calda e l’inadeguatezza del sistema di areazione e illuminazione; Cfr. par. 17 del considerato in diritto, Cass., Sez. un., sent. 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551.