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  Scheda  
16 Gennaio 2020


La Cassazione si confronta, sia pure in fase cautelare, con la nuova fattispecie di 'tortura' (art. 613 bis c.p.)


1. Con le tre sentenze in commento, la Suprema Corte si è finalmente confrontata, sia pure in fase cautelare, con la nuova fattispecie di tortura introdotta all’art. 613 bis c.p. dalla legge n. 110 del 2017.

 

2. La pronuncia più risalente in ordine di tempo (oltre che la più sintetica), è la n. 37317, resa dalla Prima Sezione il 15 maggio 2018. A differenza delle altre, la stessa riguarda un caso che non ha avuto grande rilievo mediatico (quantomeno a livello nazionale), e che conviene pertanto ricostruire nelle sue linee essenziali alla luce degli atti di indagine richiamati nella motivazione[1]

Come si legge nel secondo paragrafo del considerato in diritto, i due giovani indagati, dopo che la persona offesa era salita a bordo della propria autovettura, l'avevano minacciata con una pistola e l'avevano costretta a rimanere dentro l'auto e a raggiungere quindi la località appartata dove, agendo in concorso tra loro, ne avevano fatto bersaglio di umiliazioni e violenze. Più nel dettaglio, i due avevano ripetutamente percosso l’uomo oggetto dell’aggressione con un bastone, gli avevano fatto stendere la mano su un cordolo e poi lo avevano colpito sulle dita al fine di spezzargliele, gli avevano tirato un bastone sui denti, rompendoglieli, gli avevano immerso più volte nell'acqua la testa avvolta in una coperta, come per affogarlo, e lo avevano infine umiliato, costringendolo a restare nudo e a pulire il suo stesso sangue.

Nel dichiarare inammissibile il primo motivo di ricorso, il Collegio ha anzitutto rilevato che, oltre a porre in essere una condotta correttamente qualificata come crudele (sulla base della particolare efferatezza, insensibilità e gratuita delle violenze inflitte, nonché dei comportamenti particolarmente umilianti la vittima, come quelli di urinarle addosso, farla restare nuda e costringerla a pulire il suo stesso sangue), gli indagati avevano altresì perpetrato nei suoi confronti violenze e minacce gravi, “ossia condotte che, unitamente agli altri elementi materiali del reato, sono, comunque idonee a configurare, in alternativa all’aver agito con crudeltà, l'ipotesi delittuosa contestata”.

Analogamente, andavano superate le censure della difesa in ordine alla sussistenza della condizione di minorata difesa della vittima, che nella previsione dell’art. 613 bis c.p. è contemplata come condizione alternativa allo stato di privazione della libertà personale.  Nel caso di specie, infatti, la privazione della libertà personale della vittima doveva ritenersi certamente sussistente, considerato che il provvedimento del Tribunale del riesame aveva ritenuto assorbito in quello di tortura il reato di sequestro di persona originariamente contestato.

Contrariamente a quanto sostenuto da uno dei ricorrenti, infine, il provvedimento impugnato forniva, nella sua globale motivazione – come tale comprensiva anche della dettagliata e minuziosa descrizione del fatto, così come emergente dalle dichiarazioni della persona offesa e dagli altri atti di indagine – una puntuale ricognizione delle acute sofferenze fisiche e psichiche provocate alla persona offesa, tra le quali andavano certamente annoverati i colpi sulla mano finalizzati alla rottura delle dita, la bastonata sui denti, l'immersione in acqua della testa avvolta in una coperta, e rispetto alle quali andava, altresì, valorizzata “la durata del protrarsi della condotta”.

 

4.  A fronte di soluzioni senz’altro lineari e, come tali, in larga parte condivisibili, l’unico passaggio motivazionale che desta qualche perplessità è quello relativo al presunto assorbimento nel delitto di tortura di quello di sequestro di persona; una soluzione, questa, che la Prima Sezione della Cassazione non avalla espressamente, ma dalla quale neppure prende le distanze.

Alla luce della diversa oggettività giuridica dei due reati e del fatto che la privazione della libertà personale della vittima costituisce, ove presente, un mero presupposto della condotta punita dall'art. 613 bis c.p., sul quale non necessariamente si appunta alcun disvalore[2], non pare infatti di poter ravvisare tra quest'ultima norma e quelle di cui agli artt. 605, 630, 289 bis c.p. un rapporto inquadrabile alla luce dei principi di sussidiarietà o di consunzione, tale da giustificare la soluzione adottata dal Tribunale del riesame di Lecce.

Sulla base della ricostruzione in fatto offerta dalla Suprema Corte, nel caso di specie si sarebbe forse potuto giungere ad escludere il delitto di cui all’art. 605 c.p. non in virtù di un ipotetico assorbimento nel delitto di tortura, ma dell’orientamento, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui per la configurabilità del suddetto reato occorre che la privazione della libertà personale si protragga oltre il tempo necessario per la commissione del reato concorrente (sia esso violenza sessuale, rapina, violenza sessuale di gruppo, o, appunto, tortura)[3].

 

5. La seconda pronuncia – la n. 47079 dell’8 luglio 2019 – è senz’altro la più ambiziosa.

La Quinta Sezione della Corte di Cassazione si è espressa a seguito del ricorso proposto avverso l'ordinanza del 20 maggio 2019 del Tribunale della Libertà dei Minori di Taranto. La vicenda –alla quale la scorsa primavera anche i media nazionali hanno dato grande risalto, e da cui prende le mosse anche la terza delle sentenze in commento – è quella delle vessazioni perpetrate da un gruppo di giovani, la maggior parte dei quali minorenni, ai danni di un anziano disabile nel Comune di Manduria[4].

Come si legge nella parte motiva dedicata alla ricostruzione in fatto, il 5 aprile 2019 alcuni agenti della Polizia di Stato, sollecitati da numerosi vicini di casa che già da qualche settimana avevano effettuato segnalazioni ed esposti, erano intervenuti presso l'abitazione dello S.,  un uomo “descritto come schivo e privo di contatti con l'esterno”, che “spesso si chiudeva in casa e non parlava con nessuno”, il quale “era da tempo bersaglio di spedizioni aggressive da parte di giovani ignoti”, soprattutto in orario notturno.

Lo stesso S., raggiunto dal personale della Polizia di Stato, aveva confermato quanto dichiarato dai vicini, riferendo “di essere schernito e aggredito da tempo da parte di ignoti che, in più occasioni, erano anche penetrati in casa sua, recentemente anche percuotendo la con mazze sulle mani, sui fianchi, sul ventre e sulle ginocchia; avevano distrutto suppellettili di casa e rubato trecento euro prima di fuggire", e aveva altresì chiarito che, non aveva sporto in precedenza denuncia “perché provato fisicamente e per paura di ritorsioni”. 

In effetti, gli agenti giunti in loco avevano dato atto “di averlo rinvenuto in casa in preda alla paura, in stato confusionale e in degradanti condizioni di trascuratezza igienica e di salute, avendo egli dichiarato di non mangiare da una settimana, neppure essendo uscito di casa per la spesa, per timore di imbattersi nei suoi aggressori”, e così pure di aver riscontrato i danni al portone di casa, alle finestre e alle serrande.

Al momento dell’intervento, l'uomo, ricoverato d'urgenza per grave insufficienza renale, quindi sottoposto ad intervento chirurgico per accertata perforazione viscerale e infine deceduto il 23 aprile 2019, "presentava anche evidenti tracce di sangue coagulato alle labbra, alle gengive tra i denti, compatibili con traumi pregressi, nonché ecchimosi estese a entrambi gli arti inferiori, riconducibili a percosse o cadute”.

Nel rigettare i ricorsi, conformemente alle richieste del Procuratore Generale, la Quinta Sezione ha anzitutto rilevato come le doglianze relative alla riconducibilità dei fatti contestati allo schema legale della nuova fattispecie delittuosa di cui all'art. 613 bis c.p. fossero in buona parte giustificate “dalla recente introduzione, nell'ordinamento, del delitto di tortura, e dal dibattito dottrinario che ne è seguito, nell'ambito del quale sono stati segnalati dai primi commentatori nodi interpretativi ancora non affrontati dalla giurisprudenza di legittimità”: di qui, la necessità di un “preliminare approccio analitico finalizzato a delineare, sul piano euristico, i contorni della fattispecie”.

Dopo un breve richiamo ad alcune (per lo più risalenti) pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo in tema di art. 3 CEDU (per vero non tutte aventi ad oggetto fattispecie nelle quali i giudici di Strasburgo avevano ravvisato veri e propri atti di tortura), e dopo aver menzionato l'art. 13 co. 4 della Costituzione, la sentenza evidenzia come l’art. 613 bis c.p. si collochi tra i delitti contro la libertà individuale, “e, più precisamente, in chiusura della sezione relativa ai delitti contro la libertà morale”: in ragione della sedes materiae prescelta, il bene giuridico tutelato dal reato in esame deve dunque individuarsi nella cd. “libertà morale o psichica, comunemente intesa come diritto dell'individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni psichiche”.

La Corte ha poi preso atto della scelta  del legislatore italiano “ di non identificare in via esclusiva la tortura con il reato proprio del funzionario pubblico, ma di includere nella nozione anche le condotte poste in essere da soggetti privi di qualifica”; una soluzione, questa,  che “pur non condivisa da quanti ritengono che il fenomeno della tortura, nella sua essenza, includa esclusivamente i fatti di violenza fisica o morale perpetrati da pubblici ufficiali nei confronti di individui che, per varie ragioni, si trovano sottoposti al loro potere (cd. tortura di Stato), in tal senso deponendo sia la nozione storica di tortura, sia quella di diritto internazionale art. 1 della Convenzione ONU del 1984”, da un lato “tiene conto dell'esperienza proveniente dalla realtà criminologica che dimostra come la tortura possa assumere anche una dimensione inter-privatistica” e,  dall'altro, “risulta maggiormente coerente con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che interpreta il divieto di tortura di cui all'articolo 3 CEDU come riferito a tutti i soggetti dell'ordinamento, pubblici o privati che siano”, e adotta una definizione ampia di tortura, consistente “nell'atto di cagionare scientemente a un soggetto indifeso intense sofferenze, di natura fisica o psichica, a prescindere dalla qualità soggettiva dell'autore della condotta”.

Quanto alla natura della fattispecie, l'art. 613 bis c.p. introduce “un reato doloso, formalmente vincolato per le modalità della condotta (violenze o minacce gravi, crudeltà), per l'evento naturalistico (acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico)  e per il soggetto passivo (persona privata della libertà personale o affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza della gente, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa)”,  e richiede, inoltre, “una condotta plurima o abituale, o in alternativa, che il fatto comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”.

Si tratta, inoltre, di un reato eventualmente abituale – suscettibile, in tal caso, di essere integrato anche in presenza di sole due condotte e anche in un minimo lasso temporale, come un'ora o alcuni minuti, potendosi mutuare l'orientamento giurisprudenziale formatosi in relazione alla fattispecie degli atti persecutori di cui all'art. 612 bis c.p.,  che contiene una analoga previsione – ma che può essere realizzato anche attraverso un unico atto idoneo a ledere l'incolumità fisica, la libertà individuale e morale del soggetto, che comporti “un trattamento inumano e degradante”.

Venendo all'analisi degli elementi di fattispecie, dalla sentenza in commento sembrano potersi trarre i seguenti punti fermi:

a) l'aggettivo “gravi” deve intendersi riferito tanto alle minacce quanto alle violenze;

b) occorre “che le violenze le minacce siano realizzate reiteratamente, in più riprese o, comunque, con modalità tali che si possa parlare di più condotte, perché realizzate in un arco temporale abbastanza lungo, o perché, per le modalità di esecuzione, possano distinguersi plurime manifestazioni di violenza fisica o morale” (ciò che è avvenuto nel caso di specie, nel quale appare evidente, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, “che si sia trattato  di vere e proprie "spedizioni punitive" ai danni di un soggetto  affetto da patologia psichica, oltre che da un profondo disagio esistenziale e sociale, di carattere schivo, auto emarginato di socialmente, quanto debole, inoffensivo e incapace di difendersi”);

c) che la violenza può essere esercitata non solo sulle persone, ma anche sulle cose (ferma restando la necessità che la stessa possa qualificarsi come “grave” e che sia reiterata o che si accompagni almeno ad una condotta minacciosa);

d) che la crudeltà, “che costituisce un elemento normativo di fattispecie, integra un requisito di natura prettamente valutativa, e intrinsecamente dotato di forte carica valoriale”, per il quale non è richiesta la reiterazione;

e) che il “trattamento inumano e degradante” è elemento alternativo alla pluralità delle azioni, e che i due aggettivi devono intendersi riferiti all’esito offensivo della condotta, e non ai comportamenti dell’agente;

d) che per l'interpretazione dell’espressione "condizioni di minorata difesa" deve farsi riferimento all'elaborazione giurisprudenziale maturata a proposito dell'aggravante comune di cui all'art. 61 n. 5 c.p.;

e) che il trauma psichico delineato dalla norma può essere interpretato in conformità alla definizione che si trae dalla sua teorizzazione in ambito psicologico, ovverosia come “un evento che, per le sue caratteristiche, risulta “non integrabile” nel sistema psichico pregresso della persona, minacciando di frammentare la coesione mentale”,  e che, come tale, può essere anche temporaneo, non essendo necessario che l'esperienza dolorosa si traduca in una sindrome di “trauma psicologico strutturato" (PTSD);

f) che l'aggettivo "verificabile" rimanda a un trauma psichico riscontrabile oggettivamente, attraverso l'accertamento probatorio, il quale non deve avere necessariamente contemplare un riscontro nosografico o peritale, proprio perché, come si è appena detto, può rilevare ai fini dell'integrazione dell'evento anche un trauma temporaneo e non inquadrabile in una categoria predefinita;

g) che, a tal fine, può mutuarsi l'orientamento giurisprudenziale elaborato in tema di atti persecutori, secondo il quale la prova dell’evento può ben trarsi da elementi sintomatici del trauma psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, dai suoi comportamenti successivi e anche dalla condotta dalla stessa tenuta.

 

6. Si tratta di osservazioni senz'altro perspicue e di immediata utilità per l'interprete, indubbiamente chiamato a confrontarsi con un dato normativo per molti versi ambiguo.

Non può non rilevarsi, nondimeno, come la Quinta Sezione non abbia inteso prendere posizione sul nodo interpretativo più cruciale, ovverosia quello della natura autonoma o circostanziale della fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 613 bis c.p. (quella, per intenderci, della cd. “tortura di Stato”).

La stessa si è infatti limitata ad affermare, sul punto, che, con la legge n. 110 del 2017, il legislatore, tra l'ipotesi del reato comune e quella del reato proprio, avrebbe accolto “una sorta di terza via, consistente nella previsione di un reato comune, accompagnata da un aggravamento afflittivo nell'ipotesi in cui la tortura sia commessa da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio”. L’espressione “aggravamento afflittivo” parrebbe, nondimeno, improvvidamente suggerire un favor per la tesi della natura meramente circostanziale di tale fattispecie, con tutte le conseguenze che ne derivano[5].

 

7. Anche la terza pronuncia – la n. 50208 dell’11 ottobre 2019 – è stata resa dalla Quinta Sezione nell’ambito della medesima vicenda concreta, a seguito del ricorso avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame di Taranto che aveva confermato l'ordinanza applicativa della custodia in carcere emessa dal G.I.P. dello stesso ufficio giudiziario nei confronti dei due soggetti maggiorenni che avevano agito in concorso con i predetti minori (nei cui confronti si procedeva, pertanto, separatamente).

Dopo un breve richiamo alla normativa internazionale di riferimento, il Collegio giudicante ha riconosciuto come l’iter parlamentare che ha condotto all'approvazione della legge n. 110 del 2017 abbia subito una brusca accelerazione a seguito della sentenza Bartesaghi, Gallo e altri c. Italia, resa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo il 22 giugno 2017 – e concernente i noti fatti verificatisi durante il G8 di Genova del 2001, sui quali si era già espressa Cass., sez. V, sent. n. 38085 del 5 luglio 2012 – la quale aveva, a sua volta, ribadito il principio di diritto già affermato nella causa Cestaro c. Italia del 7 aprile 2014, avente ad oggetto i medesimi fatti.

Nelle pronunce suddette, la Corte EDU, “nel vagliare il grado di tutela assicurato dal nostro ordinamento ai diritti delle vittime delle violenze perpetrate l'interno della scuola Diaz, riconducendo quelle condotte alla nozione di tortura, aveva stigmatizzato la mancanza, nel nostro sistema penale, di una disposizione che la punisse”.

È a questo punto che si inserisce l'affermazione più problematica della  sentenza, sulla quale ci si diffonderà nell'ambito delle osservazioni critiche: “La norma  di nuovo conio prevede un reato comune contemplando l'eventualità che esso sia commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio come circostanza aggravante e di evento (costituito dalle acute sofferenze fisiche o, in via alternativa, da un verificabile trauma psichico provocato alla vittima),  caratterizzato da dolo generico e dalla descrizione delle modalità della condotta (“con violenza o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà”).  Il reato si configura se la vittima è un soggetto privato della libertà personale o affidato alla custodia, potestà, vigilanza, controllo cura o assistenza dell'autore del fatto ovvero se la persona offesa si trovi in condizioni di minorata difesa e la condotta è integrata se è commessa mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Con quest'ultima pronuncia la Quinta Sezione opta espressamente, dunque, per la qualificazione della fattispecie di cui al secondo comma come mera circostanza aggravante.

Effettuato questo succinto inquadramento preliminare, nell'affrontare il primo motivo di ricorso il Collegio ritiene, anzitutto, che la locuzione "mediante più condotte" che figura all’art. 613 bis co. 1 c.p. sia stata correttamente interpretata dai giudici del riesame come relativa “non già solo ad una pluralità di ordine temporale con episodi eventualmente reiterati nel tempo, ma anche alla perpetrazione di più contegni violenti nello stesso contesto cronologico”.

A tal fine, la Corte reputa convincente la ricostruzione anche di natura sistematica svolta dal Tribunale del riesame circoscrivendo la valenza semantica del plurale attraverso una comparazione con la fattispecie limitrofa di cui all'art. 612 bis c.p., nell’ambito del quale, a differenza della fattispecie che qui ci occupa, “la necessità di una reiterazione nel senso anche della riproduzione dei comportamenti persecutori in successivi contesti temporali è stata espressamente prevista dal legislatore”, che ha, appunto, fatto riferimento alla nozione di “condotte reiterate”.

Per altro verso, la Quinta Sezione fa propria la riflessione del Tribunale del riesame sulla necessità di non svilire le esigenze di tutela evidenziate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nelle pronunce in precedenza menzionate: un'interpretazione della disposizione che ne circoscrivesse l'applicazione ai casi di reiterazione differita nel tempo delle condotte, infatti,  “determinerebbe il paradosso di impedire la riferibilità della norma a quanto verificatosi nella scuola Diaz, laddove non vi è stata la reiterazione, diluita nel tempo, delle condotte”, in una prospettiva indubbiamente distonica rispetto a quella seguita dalla Corte EDU, e non potrebbe pertanto dirsi convenzionalmente orientata.

Anche a voler ritenere dunque (contrariamente a quel che emergeva dagli atti di indagine, che potevano ragionevolmente far ritenere che vi fossero stati più accessi presso l’abitazione della vittima), che uno dei ricorrenti si fosse recato una sola volta sul luogo dei fatti, ciò non sarebbe comunque valso ad escludere la natura abituale del reato, posto che il video acquisito consentiva di attribuire al medesimo la perpetrazione di più condotte violente, ancorché poste in essere nello stesso contesto cronologico.

La Corte si è poi diffusa sul concetto di crudeltà, evidenziando come il ricorrente avesse trascurato “il quid pluris costituito dalla ricerca, da parte degli indagati, delle sofferenze della vittima come di un risultato foriero di generare un soddisfacimento di un istinto sadico che merita la connotazione di cui si discute”, e richiamando l'esegesi dell'aggravante di cui all'art. 61 co. 1 n. 4 c.p.  offerta da Cass., SS.UU., sent. n. 40516 del 23.6.2016.

Ancora, la stessa ha condivisibilmente affermato la non coincidenza tra le "acute sofferenze fisiche” richieste dall’art. 613 bis co. 1 c.p. e le “lesioni” che figurano quale elemento solo circostanziale al co. 4, evidenziando che “se la condizione per la punizione del reato di tortura fosse quella dell'evidenza delle conseguenze fisiche sul corpo della vittima, resterebbero fuori dalla tutela penale tutte quelle condotte foriere di sofferenze fisiche acute, ma che non lasciano segni sul corpo di chi le subisce”.

Per ritenere integrato tale evento, il giudice della cautela aveva dunque correttamente valorizzato non solo i certificati medici relativi al ricovero della persona offesa in ospedale, ma anche e soprattutto la documentazione video delle violenze, “che corroborava l'idea che le condotte degli indagati avessero provocato alla persona offesa le conseguenze in termini di patimento fisico richieste dal legislatore della novella”.

La suddetta documentazione era essenziale anche per ritenere integrato l’evento alternativo del “verificabile trauma psichico", anch’esso immediatamente percepibile dalle riprese video, “che avevano immortalato il volto terrorizzato e disorientato di St. mentre veniva malmenato e si vedeva distruggere la casa”, e per affermare la sussistenza del quale i giudici del riesame avevano correttamente valorizzato anche “la condizione in cui i poliziotti lo trovarono ad aprile, quando temeva di aprire anche a loro ed era da giorni rintanato in casa, senza potersi procurare generi di prima necessità, per paura di uscire di casa ed imbattersi nei suoi aguzzini”. Il ricorso era dunque “del tutto fuori traiettoria” laddove pretendeva di identificare tale evento alternativo nella patologia mentale da cui la vittima era già affetta.

Parimenti privo di pregio era il tentativo dei ricorrenti di escludere la condizione di minorata difesa della vittima esaltando, quale indicatore di una sua potenziale reattività, la circostanza che la stessa avesse, sin dal 2012, sporto denuncia per fatti analoghi.

Pienamente in linea con la giurisprudenza di legittimità in tema di art. 61 n. 5 c.p., il Tribunale del riesame di Taranto aveva infatti correttamente valorizzato le condizioni personali in cui versava la persona offesa(che, oltre a soffrire di una grave patologia psichiatrica, abitava da sola, in uno stato di degrado, tra oggetti accatastati alla rinfusa, senza un telefono fisso né un cellulare con i quali chiedere aiuto) e quelle ambientali del tempo di notte e dell’isolamento in cui l’abitazione della stessa era ubicata, quali altrettanti elementi che avevano agevolato l’opera degli aguzzini.

La Corte ha, peraltro, precisato che l’esistenza delle condizioni "facilitatrici" per il riconoscimento della condizione di minorata difesa va valutata non già rispetto a reazioni successive (quali la decisione di rivolgersi alle forze dell’ordine per sporgere denuncia), ma esclusivamente con riguardo “alle oggettive possibilità di contrasto della zona terreno nel momento in cui essa viene perpetrata”.

Il Collegio ha condivisibilmente affermato, inoltre, che il concetto – noto alla legislazione e alla giurisprudenza convenzionale – di "trattamento inumano e degradante" quale condizione  ulteriore per la punibilità del reato in alternativa alle “più condotte” pare riferibile a comportamenti che inducano nella vittima sofferenze di minore intensità di quelle legate al concetto di tortura,  e che pertanto, “se l'ordinanza impugnata resiste alle critiche del ricorrente che attaccano la più grave caratterizzazione della condotta come tortura, è evidente che queste ultime non potrebbero avere alcuna incidenza sulla tenuta dell'ordinanza avversata laddove si riferiscono al concetto in esame, che attiene a condotte caratterizzate da una più moderata carica etero offensiva”. Correttamente, ad ogni modo, il Tribunale del riesame aveva valorizzato in malam partem il fatto che la vittima fosse braccata in casa dai suoi assalitori, percossa, insultata, dileggiata, e che il tutto, "ad accrescere nel grado di afflittività la dignità della persona, [fosse] poi oggetto di ripresa video e di diffusione sul web”.

La Corte prende posizione, da ultimo, sulla violazione degli artt. 3 e 25 Cost. che uno dei ricorsi lamenta nell’avversare l'ordito argomentativo del Tribunale del riesame in ordine al requisito della minorata difesa, definendo tuttavia il relativo passaggio argomentativo “talmente fugace da essere inidoneo a chiarire come il dato normativo e la discrezionalità del legislatore che ne è alla base possano incorrere nelle anomalie accennate”.

 

8. Quest'ultima, recentissima sentenza, mostra una più sicura padronanza della giurisprudenza della Corte europea in tema di art. 3 CEDU, facendo buon governo della distinzione concettuale tra le nozioni di “tortura”, da un lato, e di “trattamento inumano e/o degradante”, dall'altro, e non ignorando il rapporto di progressione scalare e di continenza tra le stesse esistente[6]

Condivisibilmente, poi, la Corte ha riconosciuto come abbiano avuto un peso determinante per l’introduzione dell'art. 613 bis c.p. nell'ordinamento interno le pronunce rese dalla Corte di Strasburgo nel 2014 e nel 2017 a proposito delle vicende del G8 genovese del 2001, che avevano evidenziato l’esistenza di una lacuna normativa e “invitato” il legislatore italiano a porvi rimedio.

Da ciò discende, ad avviso dei giudici della quinta sezione, l'esigenza di interpretare la nuova disposizione in conformità ai principi affermati dalla Corte di Strasburgo in tema di art. 3 CEDU, proprio per non frustrare le esigenze di tutela che la stessa ha evidenziato nelle predette sentenze.

È un'affermazione senz’altro ineccepibile, dalla quale, tuttavia, il Collegio giudicante non trae tutte le necessarie conseguenze. Si allude, all'evidenza, al (pur rapidissimo, quasi tralatizio) passaggio motivazionale in cui la fattispecie della tortura cd. “di Stato” di cui al secondo comma dell’art. 613 bis c.p. viene relegata a mera circostanza aggravante, come tale suscettibile di soccombere a fronte di circostanze attenuanti concorrenti (ivi comprese quelle di cui all'art. 62 bis c.p.)  nell’ambito di un eventuale giudizio di bilanciamento.

Se questo orientamento dovesse essere effettivamente avallato dalla Corte, avrebbero ragion d'essere le critiche di quanti, in sede di primo commento, avevano fieramente avversato la scelta del legislatore 2017 di adottare una fattispecie più ampia di quella delineata dall'art. 1 della 3 della convenzione ONU contro la tortura del 1984 (alla quale il nuovo delitto avrebbe, invece, dovuto ispirarsi)[7].

Non si tratta, nondimeno, dell'unica soluzione interpretativa possibile, né tantomeno di quella più corretta dal punto di vista dogmatico o maggiormente rispettosa degli obblighi sovranazionali di tutela penale assunti dal nostro Paese (discendenti, in primis, dalla Convenzione ONU del 1984 e dall’art. 3 CEDU).

È pertanto non solo auspicabile, ma anche del tutto ragionevole, attendersi che la Suprema Corte possa, in futuro, prendere invece chiaramente (e motivatamente) posizione a favore della tesi della natura autonoma della fattispecie, esattamente come ha fatto, ad esempio, in riferimento ad altre due figure criminose di recente introduzione quali quelle previste dagli artt. 589 bis e 590 bis c.p., utilizzando proprio lo stesso argomento che alcuni tra i più autorevoli commentatori hanno speso in suo sostegno[8]: dato che sarebbe insostenibile ipotizzare la sussistenza di un’aggravante dell’aggravante, e preso atto che quelle dei commi 4 e 5 dell’art. 613 bis c.p. costituiscono autentiche circostanze aggravanti, è giocoforza ritenere che il comma 2 debba essere inquadrato come una fattispecie di autonoma di reato, come tale sottratta al giudizio di bilanciamento[9].

 

 

[1] Si tratta della vicenda giudiziaria di cui dà conto E. Scaroina, Il delitto di tortura. L’attualità di un crimine antico, Cacucci, 2018, p. 262, nota 185, indicandola come la prima contestazione del nuovo reato.

[2] Basti pensare, a tal proposito, alle ipotesi – tipiche dei casi di tortura cd. “di Stato” – in cui la privazione della libertà personale consegua all’adozione di un provvedimento cautelare o precautelare, o avvenga in esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza detentive. In tali casi, infatti, la privazione della libertà personale della vittima di tortura è del tutto lecita, e costituisce unicamente l'antefatto delle condotte penalmente rilevanti punite dall’art. 613 bis c.p.

[3] Così, da ultimo, Cass, sez. III, sent. n. 55302 del 22.9.2016, secondo cui “II delitto di sequestro di persona concorre con quelli di violenza sessuale o di rapina, nel caso in cui la privazione della libertà personale si protrae, quanto al delitto di cui all'art. 609-bis cod. pen., nel tempo anteriore o successivo alla costrizione necessaria a compiere gli atti sessuali e, quanto al delitto di di cui all'art. 628 cod. pen., anche dopo l'avvenuto impossessamento della "res", ma per un tempo apprezzabile e senza necessità ai fini della consumazione della rapina”, dovendosi viceversa ritenere assorbito nei medesimi, e Cass., sez. III, sent. n. 967 del 26.11.2014, a tenore della quale “In tema di concorso di reati, il delitto di sequestro di persona concorre con quello di violenza sessuale di gruppo, allorquando la privazione della libertà di movimento della vittima si protrae oltre il tempo strettamente necessario al compimento degli atti di violenza sessuale, a nulla rilevando che l'impedimento ad allontanarsi sia precedente, contestuale o successivo allo svolgersi delle violenze”.

[4] Sia consentito, per una puntuale ricostruzione, il rinvio ad A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione e di persecuzione penale della tortura, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, pp. 852-854.

[5] Sia consentito ancora, anche per i necessari riferimenti bibliografici, il rinvio ad A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno, cit., pp. 831 ss.

[6] Si consenta il rinvio a F. Cassibba – A. Colella, Proibizione della tortura, in G. Ubertis – F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, 2016, p. 67.

[7] Cfr. ancora, anche per i necessari riferimenti bibliografici, E. Scaroina, Il delitto di tortura, cit., p. 253 ss.

[8] Si veda, in proposito, la parte motiva di Cass., sez. IV, sent. n. 29721 del 1° marzo 2017.