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25 Settembre 2023


La sentenza di condanna del Tribunale di Siena sui fatti di tortura nel carcere di San Gimignano

Trib. Siena, Sez. penale, sent. n. 9 marzo 2023 (dep. 5 settembre 2023), n. 211



1. Si segnala all’attenzione dei lettori la sentenza resa dal Tribunale di Siena in composizione collegiale il 9 marzo 2023 – depositata il 5 settembre 2023 – sui fatti avvenuti all’interno del Carcere di San Gimignano nell’ottobre 2018. Tra le imputazioni, anche la cd. tortura di Stato prevista dall’art. 613 bis co. 2 c.p., che il collegio non ha esitato a qualificare in termini di fattispecie autonoma di reato sulla scorta di un ricco apparato argomentativo (cfr. le pp. 219 ss. delle motivazioni).

Questa, in estrema sintesi, la vicenda (già oggetto, in sede cautelare, dell’ordinanza applicativa degli arresti domiciliari emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Siena il 28 agosto 2019).

L’11 ottobre 2018, un gruppo di quindici agenti penitenziari in servizio presso il Carcere di San Gimignano prelevava a forza dalla camera detentiva n. 4 posta nel lato “A” del reparto isolamento un giovane nordafricano condannato per il delitto di cui all’art. 73 co. 4 d.P.R. n. 309/1990, che si apprestava ad uscire per fare la doccia, per poi trascinarlo e strattonarlo lungo tutto il corridoio, colpirlo alla testa con pugni, afferrarlo per la gola, sottoporlo ad una grave torsione ad un braccio, strattonarlo e trascinarlo ancora una volta nel medesimo corridoio, scaraventarlo nella camera detentiva n. 19 del lato “B” del reparto isolamento, percuoterlo e lasciarlo in mutande per tutto il pomeriggio, la sera e la notte, quantomeno fino alla mattina successiva. Nel corso del brutale pestaggio, l’uomo veniva inoltre bloccato a terra per quarantacinque secondi, durante i quali un ispettore del peso di circa 120 kg gli montava sulla vita e sulle gambe con le ginocchia e un altro ispettore lo prendeva per il collo (per la ricostruzione si vedano, in particolare, le pp. 222 ss. delle motivazioni).

 

2. Il Collegio ha lapidariamente escluso «l’assenza di qualsivoglia necessità di prevenire o impedire atti di violenza, tentativi di evasione ovvero di vincere una resistenza» del giovane nordafricano, «mai finanche accennat». Di qui, la conclusione obbligata che non si fosse trattato di legittimo uso della forza pubblica, ma «di vero e proprio esercizio di violenza, di abuso della forza pubblica e di abuso di autorità, perpetrato ad opera di componenti dell’apparato pubblico di custodia e, quindi, di appartenenti alle pubbliche istituzioni» (p. 223).

Ad avviso dei giudici di prime cure, le «vere ragioni della spedizione punitiva» ai danni del detenuto erano emerse lentamente nel corso dell’esame diretto di uno degli imputati: si era trattato di un monito per i detenuti del Reparto Sicurezza (appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso o camorristico), a fronte del clima di tensione e di protesta che aveva connotato il reparto isolamento nella mattinata (pp. 182 ss.). E quella che il Collegio ha definito come «aberrante opera di ‘pedagogia carceraria’» era poi proseguita all’interno della stanza detentiva di un altro detenuto con le minacce di cui al capo C), al fine di consolidare ulteriormente i rapporti di forza ristabiliti grazie all’operazione posta in essere poco prima (p. 241).

L’ipotesi accusatoria ha, dunque, ampiamente retto al vaglio dibattimentale: il giudizio si è concluso con la condanna di tutti gli imputati per i reati loro rispettivamente ascritti – ad eccezione delle minacce aggravate di cui al capo D), non confermate dal detenuto che le avrebbe subite – a pene comprese tra i 5 anni e 10 mesi e i 6 anni e 6 mesi di reclusione.

 

3. Dopo un’ampia disamina del quadro normativo di riferimento, sul piano nazionale e sovranazionale (pp. 189 ss.), il Collegio non si è sottratto ad un’analitica esegesi del delitto di cui all’art. 613 bis c.p., in parte recependo gli indirizzi in via di consolidamento nella giurisprudenza di legittimità, in parte offrendo soluzioni interpretative inedite, alcune più altre meno convincenti (pp. 210 ss.).

Così, ad esempio, si è affermato:

- che l’aggettivo “gravi” di cui al co. 1 dev’essere inteso come riferito alle sole minacce, e non anche alle violenze (pp. 212 ss.);

- che il “trattamento inumano e degradante per la dignità della persona” costituisce una “condizione di punibilità di tipo intrinseco, essendo intimamente collegata al disvalore tipico del fatto punito” (p. 214);

- che l’espressione “acute sofferenze fisiche” di cui al co. 1 esclude quelle a carattere lieve, ma non postula il raggiungimento della soglia di sofferenza che coincide con il dolore straziante e lancinante (p. 216);

- che la prova del carattere acuto delle sofferenze può essere desunta dall’atteggiamento della persona offesa, e in particolare da «espressioni o smorfie facciali, particolari vocalizzazioni e altri atteggiamenti posturali tipicamente associati agli stati dolorosi» (p. 216);

- che, similmente a quella di “indole particolarmente malvagia del colpevole” evocata dall’art. 108 c.p., la nozione dell’“agire con crudeltà” presenta un contenuto ampiamente valutativo, che «rende una singola azione penalmente rilevante, ex art. 613 bis c.p., soltanto là dove questa sia espressiva di un atteggiamento di totale insensibilità verso l’inflizione di sofferenze, di intima soddisfazione e di compiaciuto sadismo per il dolore arrecato ad altri, tenuto da parte di una persona che, con siffatto contegno, si dimostri così del tutto priva di empatia, nonché ricolma di spietatezza» (p. 215);

- che il concetto di “sofferenza fisica” rimanda alla definizione di dolore acquisita nel campo delle neuroscienze, secondo cui lo stesso si identifica con una «esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole, associata ad un pericolo tissutale o potenziale o descritto in termini di potenziale danno» (p. 215).

Del tutto condivisibilmente, poi, i giudici di prime cure hanno ritenuto che la circostanza aggravante di cui all’art. 613 bis co. 4 c.p. contestata al capo A) dovesse ritenersi assorbita nel delitto di lesioni dolose di cui al capo B), perché «la non volontà dell’evento lesivo aggravatore» è «l’esatto opposto della volontà dell’evento lesivo che caratterizza la riconosciuta fattispecie di cui all’art. 582 c.p.» (p. 225).

Particolarmente pregevoli, infine, i §§ 50 e 51, dedicati al tema dell’isolamento continuo quale misura di rigore in deroga alle ordinarie regole trattamentali, sviluppato in relazione al delitto di cui all’art. 608 c.p. contestato al capo I).