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06 Dicembre 2022


Prima indagine sul personale lombardo della Polizia Penitenziaria (PolPen XXI)

Un invito alla lettura dei risultati dell’indagine sulla polizia penitenziaria in Lombardia



1. Studiare il carcere e le sue pratiche quotidiane è una “una vera e propria sfida culturale e professionale”[1] che deve essere affrontata avendo ben chiara la logica coercitiva dell’istituzione penitenziaria e, al tempo stesso, mettendo a tema il suo carattere istituzionale non riducibile alla definizione ormai classica di istituzione totale[2]. Concepire il carcere come “sistema di amministrazione della coercizione”, infatti, “non risolve la riflessione sulla questione carceraria, ma costituisce semmai una chiave per iniziare a osservare l’istituzione nelle sue dinamiche quotidiane, tenendo conto innanzitutto delle azioni, delle interazioni, delle percezioni, delle emozioni, dei significati e delle intenzioni degli attori istituzionali che interpretano e costruiscono attivamente discorsi e pratiche detentive in relazione alle aspettative di governo delle emergenze che sono riposte su di loro”[3].

In tal senso, comprendere la quotidianità del carcere è rilevante per consentire una discussione pubblica sul sistema penitenziario quale dispositivo di contenimento delle emergenze sociali”[4] e di disciplinamento del corpo sociale[5] e, al contempo, avere elementi utili per affrontare la questione particolarmente rilevante del benessere sia di chi in esso vive che di chi vi lavora. È soprattutto alla Polizia Penitenziaria che viene delegata la gestione della quotidianità del carcere, che influisce non solo sulla qualità della vita delle persone ristrette ma anche sulla qualità del lavoro dello stesso personale penitenziario.

Come suggerisce la letteratura internazionale[6], analizzare il punto di vista degli operatori e delle operatrici di Polizia Penitenziaria è rilevante per diversi motivi: per migliorare le loro condizioni di lavoro, rilevando eventuali criticità; per renderne più effettivo l’operato, riflettendo sulle diverse modalità organizzative e le sensibilità culturali; infine, per consentire una discussione pubblica sulle polizie, in modo da rafforzare i presupposti democratici della loro legittimità.

Per cercare di comprendere la complessità del sistema carcerario è dunque fondamentale focalizzare l’attenzione su coloro che contribuiscono a costituire e (ri)definire l’istituzione stessa in cui operano quotidianamente, ricoprendo ruoli cruciali per il funzionamento dell’istituzione penitenziaria. Delineare un quadro generale dell’operato della Polizia Penitenziaria fornisce preziosi spunti per riflettere sia sulla loro professione, sia su tutta la realtà penitenziaria[7], suggerendo allo stesso tempo tematiche sulle quali bisognerebbe investire durante la formazione del personale.

 

2. In Italia sono poche le ricerche che si propongono di comprendere il lavoro degli e delle agenti in ambito carcerario, le loro percezioni su ciò che fanno, i loro convincimenti, le tonalità emotive che contraddistinguono la loro giornata di lavoro, il valore che danno alle attività che svolgono, quanto si sentono riconosciuti nel loro ruolo e le modalità con cui si relazionano tra loro e con i detenuti [8]

Per ridurre questo deficit di conoscenza, il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia ha promosso e realizzato l’indagine PolPen-XXI che costituisce la prima survey sul personale di Polizia Penitenziaria condotta in una regione italiana, la Lombardia, col proposito di rilevare la percezione degli/delle agenti su questioni relative alla loro esperienza lavorativa, all’orientamento professionale, alla qualità delle loro relazioni nel contesto lavorativo, alla legittimazione da parte dell’istituzione, al loro vissuto emotivo, alla gestione degli eventi critici, alla propensione all’uso della forza e all’emergenza Covid-19.

La survey sulla Lombardia s’inserisce all’interno di un più ampio progetto accademico che presenta due principali linee di ricerca: 1. proseguire con altre metodologie d’indagine di tipo qualitativo capaci di approfondire quegli aspetti che dai risultati della survey lombarda sono apparsi particolarmente rilevanti o critici; 2. estendere l’ambito di rilevazione delle opinioni degli/delle agenti ad altre regioni italiane e, auspicabilmente, all’intero territorio nazionale. In questa direzione, è in fase conclusiva la redazione del rapporto di ricerca su Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta svolto in collaborazione con il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria competente per queste regioni. Raggiungere un ampio numero di operatori e di operatrici di tutta Italia sarebbe, d’altra parte, indispensabile per comparare diverse realtà gestionali, per valutare l’impatto delle politiche e delle innovazioni organizzative e per cogliere le criticità prima che sfocino in emergenze. La rilevazione delle difficoltà nel gestire gli eventi critici, dei rapporti che s’instaurano tra colleghi/e e con le persone detenute, della percezione di supporto o, al contrario, di abbandono istituzionale, degli orientamenti culturali e della propensione all’uso della forza (per citare solo alcuni dei temi toccati dall’indagine) consente, infatti, non solo di riflettere sulle criticità del carcere a partire dal punto di vista di chi nel carcere lavora quotidianamente, ma anche di fondare proposte regolative, formative o gestionali.

 

3. La base di dati raccolti dalla survey PolPen-XXI e che riguardano 845 agenti di Polizia Penitenziaria della Lombardia consente riflessioni di ampio spettro a partire da diversi interessi e prospettive. In questa sede richiamo brevemente solo alcuni risultati attorno a cinque tematiche: qualità del lavoro, gestione di eventi critici, orientamento professionale, legittimazione istituzionale, propensione all’uso della forza.

 

a) La qualità del lavoro dipende dalla relazione con le persone ristrette

La specificità del lavoro in Polizia Penitenziaria rispetto ad altre forze di polizia risiede nel contatto continuativo con i destinatari del loro operato. La maggior parte dei rispondenti si occupa di attività a contatto con persone detenute e l’attività a cui si dedica più tempo durante una normale settimana lavorativa è la vigilanza in sezioni ordinarie (svolta dal 31.1% del campione). Questa peculiarità richiede una disposizione alla relazione con le persone ristrette diversa da quella che si acquisisce in esperienze lavorative pregresse: una prima criticità riguarda proprio il fatto che quasi 4 agenti su 10 ha prestato servizio nell’esercito prima di entrare nella Polizia Penitenziaria.

Il carcere è un’istituzione complessa organizzata sulla base di un articolato insieme di regole, ma è anche una comunità di persone, che attivamente contribuiscono alla definizione dell’ambiente in cui vivono. Il benessere in carcere per gli/le stessi/e agenti e non solo per le persone detenute dipende principalmente dalla qualità delle relazioni quotidiane che avvengono in spazi ristretti e che coinvolgono tutti gli attori sociali che abitano, lavorano, o svolgono attività in carcere e principalmente persone detenute e personale penitenziario.

La qualità della relazione con le persone detenute va indagata dunque in modo approfondito. Due terzi del campione, il 66.2%, ritiene che queste ultime riconoscano poco l’autorità del personale di polizia penitenziaria, ma se si passa dalle valutazioni generali alle esperienze personali, solo al 30.7% capita spesso di non essere rispettato/a dalle persone detenute. Nelle carceri di dimensioni ridotte le percentuali di chi percepisce di essere maggiormente rispettato sono solitamente più elevate. Similmente, la percezione generale del rischio che si corre di essere aggrediti/e da una persona detenuta lavorando in polizia penitenziaria (che riguarda il 65.5% del campione), risulta decisamente attenuata quando si passa dalle valutazioni generali alle esperienze più personali: il timore che possa accadere qualcosa di spiacevole nell’avere a che fare con una persona detenuta interessa una minoranza (il 25%), sia pure da non sottovalutare. Il livello di timore personale varia a seconda del ruolo (è più alto tra gli/le agenti, si riduce tra i/le sovrintendenti e ancor di più tra gli/le ispettori/ispettrici) ed è più alto nelle sezioni di alta sorveglianza e in quelle speciali.

Il personale penitenziario sembra particolarmente consapevole, d’altro canto, della rilevanza dell’aspetto relazionale. Il 70.5% riconosce l’importanza per il proprio lavoro di avere un buon rapporto con la popolazione detenuta; quasi la totalità del campione (il 96.5%) ritiene che sia giusto trattare le persone detenute con rispetto per la loro dignità, così come il 93.4% ritiene che sia giusto spiegare loro le motivazioni delle regole e delle decisioni che li/le riguardano.

Nonostante questo alto livello di consapevolezza, l’esperienza lavorativa di molti/e agenti è costellata da insulti ricevuti da persone detenute (che riguarda il 63,3% del campione per fatti accaduti nell’ultimo anno), mentre una minoranza comunque rilevante, il 15,5% riferisce di avere subito aggressioni fisiche. Le vittimizzazioni verbali e fisiche sono indicate come meno frequenti nelle carceri di dimensioni ridotte, dove riceve insulti il 45.54% del personale e ha subito un’aggressione solo il 6.93%. Anche in questo caso il ruolo di agente risulta essere quello più vittimizzato.

La pandemia sembra aver reso il lavoro più stressante per quasi tutti/e gli/le agenti (91.1%). La maggior parte del personale penitenziario (73.1%) ritiene che con la pandemia i rapporti con le persone detenute siano diventati più tesi e, di conseguenza, anche la gestione della popolazione detenuta sia diventata più complicata.

 

b) Più formazione alla gestione di eventi critici

Il carcere vive di emergenze, che si articolano nella quotidianità come tensioni e momenti critici: non si verificano spesso, ma potenzialmente sono sempre in agguato, inducendo gli agenti a vivere la quotidianità nella consapevolezza che qualcosa di grave possa succedere da un momento all’altro. Più della metà (56%) degli agenti si sente impreparato ad affrontare una rivolta nell’istituto e più di 1 agente su 3 indica di non saper come gestire una rissa tra detenuti o il caso in cui un collega venga aggredito da un detenuto. Gli agenti spesso si confrontano con situazioni dai connotati altamente critici, non potendo contare sulla vicinanza di colleghi collaborativi o ritenuti effettivamente competenti. Non a caso, stimolati a riflettere su cosa servirebbe per rendere più sicuro il lavoro in polizia penitenziaria, una buona maggioranza (quasi il 62%) del personale si trova d’accordo nell’indicare l’esigenza di più formazione alla gestione di eventi critici e di persone problematiche. Inoltre, alla domanda su quale figura professionale preferirebbe avere al suo fianco, la scelta prevalente ricade su un collega che sappia relazionarsi con le persone detenute in modo rispettoso, seguita da un collega che dica cosa fare e come comportarsi. Ancora una volta emerge la consapevolezza dell’importanza di intrattenere buone relazioni con i detenuti.

 

c) Oscillazione tra sorveglianza e trattamento

L’agente non è semplicemente chiamato/a ad assicurare l’ordine negli istituti come garanzia per l’attuazione del trattamento, ma è, allo stesso tempo, parte del trattamento, dovendo contribuire all’osservazione comportamentale del detenuto. Di questo sono consapevoli anche gli/le agenti degli istituti lombardi che esprimono in larga maggioranza un orientamento rieducativo: il 72% è d’accordo sul fatto che occorra impegnarsi a fondo per dare un’opportunità di reinserimento sociale alle persone detenute e ben il 78% sostiene che aiutare le persone detenute con problemi sia parte del lavoro del poliziotto penitenziario.

Tale atteggiamento, tuttavia, convive e si sovrappone almeno in parte con orientamenti custodiali o apertamente punitivi: il 55% ritiene che il modo migliore di trattare le persone detenute sia comunque quello di farle mangiare, farle lavorare, farle dormire e di non dare loro troppa confidenza; il 61% è d’accordo sul fatto che il carcere duro sia l’unico modo per evitare che le persone detenute commettano altri crimini; il 62% ritiene che piuttosto che pensare ai diritti occorra rendere la pena effettiva. La tensione ineliminabile tra obiettivi di cura e custodia insita nel ruolo dell’agente, che testimonia la coesistenza nell’istituzione carceraria di finalità sostanzialmente antitetiche, genera un profondo conflitto, definito, appunto, “conflitto di ruolo”. L’agente dovrà preferire un orientamento custodiale o riabilitativo? Dovrà mantenersi a distanza dai detenuti o, piuttosto, dovrà assumere un atteggiamento di sostegno nell’ottica del reinserimento sociale degli stessi? La confusione che ne deriva alimenta sentimenti di frustrazione e incide, oltre che sulla soddisfazione lavorativa degli agenti, anche sulla possibilità che i singoli si impegnino nella realizzazione dei fini istituzionali.

 

d) Sentirsi isolati, poco riconosciuti e delegittimati

Diversi studi empirici evidenziano come la distanza relazionale che deriva dall’orientamento verticistico dell’organizzazione molto spesso implichi l’assenza di un effettivo contatto con i superiori e, più generalmente, ostacoli la percezione di un supporto concreto da parte dell’Amministrazione penitenziaria generalmente considerata. Gli agenti si sentirebbero ignorati, lasciati soli ad affrontare le numerose criticità che emergono nell’espletamento dei loro compiti, e non vedrebbero riconosciuto in alcun modo l’impegno profuso, con ovvie conseguenze nei termini di un crescente avvilimento e di una profonda insoddisfazione.

I dati dell’indagine confermano queste ipotesi. Il personale penitenziario percepisce complessivamente la mancanza di un supporto e di un riconoscimento da parte dell’Amministrazione Penitenziaria: quasi 9 agenti su 10 ritengono che l’Amministrazione non comprenda le difficoltà dei poliziotti penitenziari e quasi la metà riferisce di non essere ascoltato dai superiori quando si presenta un problema sul lavoro.

Questa distanza con i vertici istituzionali e con i propri superiori comporta un senso di isolamento che incide negativamente sulla percezione di riconoscimento del proprio ruolo: circa il 70% dichiara che se anche dovesse fare un buon lavoro nessuno se ne accorgerebbe e, ancor più esplicitamente, nella stessa percentuale i poliziotti penitenziari sentono di essere giudicati male qualsiasi cosa facciano. Una buona parte, il 39%, riferisce che “quando si verifica un problema, vale di più la parola della persona detenuta che la mia”.

La distanza si fa sentire anche in termini di chiarezza delle regole e dei compiti, comportando l’insorgere di un’ambiguità di ruolo: il 61% riferisce che spesso non si sa quale regola o procedura seguire per non sbagliare e per il 41,6% quando si verifica qualche problema non si sa chi debba occuparsene o a chi rivolgersi.

Tale sensazione di isolamento sarebbe rafforzata, per altro verso, dalla percezione di un giudizio distorto e fondamentalmente negativo della società: l’opinione diffusa tra gli agenti (condivisa da quasi 8 agenti su 10) è che la generalità della popolazione non comprenda le difficoltà correlate allo svolgimento del lavoro di polizia penitenziaria.

 

e) La propensione all’uso della forza

Le carceri sono sistemi di amministrazione della coercizione, in cui la forza necessaria alla restrizione delle libertà gioca un ruolo essenziale. Il personale di Polizia penitenziaria è l’unico a poter usare legittimamente la forza fisica per controllare i detenuti e garantire ordine e sicurezza, nei casi previsti dalla legge. È l’art. 41 comma 1 dell’ordinamento penitenziario a stabilire il divieto dell’impiego della forza fisica nei confronti delle persone ristrette salvo che «non sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti».

C’è un limite, dunque, all’uso della forza da parte degli agenti, superato il quale la forza legittima diventa violenza illegittima. Questo limite, che richiama i criteri della necessità e della proporzionalità, in concreto si definisce nella contingenza delle situazioni che ci si trova ad affrontare. Nel libro La forza di polizia. Uno studio criminologico sulla violenza[9] ho cercato di comprendere come accade che un agente, piuttosto che attivare altre modalità comportamentali, scelga di usare violenza sul corpo di una persona. Ho discusso, in particolare, della “tesi della mela marcia”, dimostrando come un uso eccessivo della forza (fino a veri e propri episodi di police brutality) non dipenda tanto da una condizione di stress che inibisce istantaneamente la capacità di restare lucidi, di fermare la propria azione violenta e di attivare altre modalità di gestione dell’evento critico. Non che la capacità di gestione dell’emotività non conti, ma va considerata all’interno di dinamiche relazionali, culturali e istituzionali che vengono filtrate, cognitivamente ed emotivamente, dalla soggettività del singolo agente di polizia penitenziaria. Questi, re-interpretando ciò che accade durante un evento critico – che altro non è che un’interazione che in un dato momento si fa problematica – sulla base del proprio sguardo sul mondo nei termini di aspettative sociali e istituzionali circa l’appropriatezza e di legittimazioni del proprio agire, dà un senso a ciò che gli accade e interviene per come ritiene più giusto, coerente e utile. Mi rendo conto che questi brevi cenni teorici aprono a una prospettiva di analisi della violenza che sarebbe troppo lungo in questa sede riprendere compiutamente. Basti, in questa sede, il riferimento a fatti recenti dove i gesti violenti (manganellate, calci, pugni, schiaffi, strattoni, umiliazioni) ripetuti in modo seriale e organizzati anche dal punto di vista scenico (i corridoi umani di agenti) accadono non per un’improvvisa incapacità degli agenti di gestire i propri eccessi emotivi, ma come strategia di controllo sociale per ristabilire simbolicamente un ordine che si è percepito violato. E l’ordine di cui si parla non è certo astratto: è l’ordine carcerario, quello che stabilisce i rapporti di potere e di subordinazione presenti in un determinato istituto di pena e che orienta i comportamenti e le dinamiche relazionali. Un ordine che può affermarsi in alcune carceri e non in altre, in alcuni reparti e non in altri, a seconda di come gli orientamenti culturali attraversano i saperi professionali e la soggettività di ciascuno. Un ordine che può essere anche molto lontano da ciò che l’ordinamento giuridico indica e che lo è tanto più quanto più il sapere professionale si costruisce in modo isolato dalle indicazioni ordinamentali, ma anche quanto più chi deve orientare in senso democratico-costituzionale il governo delle carceri (o di uno specifico carcere) cede alla logica della sottomissione violenta come unica modalità di relazione con le persone ristrette. 

Le prime elaborazioni sui dati dell’indagine, sia pure nei limiti di ciò che una survey può dire su temi così complessi e che richiamano alla necessità di approcci più qualitativi, sembrano confermare alcuni passaggi dell’interpretazione proposta.

Innanzitutto, la dimensione rilevata nell’indagine non è tanto l’uso della forza (a cui comunque dichiara di aver fatto ricorso almeno una volta nell’ultimo anno solo l’8% degli agenti, senza alcun approfondimento sulla legittimità o meno del gesto adottato) quanto, seguendo le indicazioni della letteratura internazionale, la propensione all’uso della forza in situazioni che segnalano una qualche criticità in termini di legittimità.

Innanzitutto va detto che la propensione all’uso della forza in situazioni problematiche sotto il profilo della legittimità riguarda una minoranza di agenti: il 76% ritiene che sia sbagliato usare la forza per non apparire deboli, l’83.4% ritiene non sia corretto ricorrere all’uso la forza con chi non obbedisce e l’87.8% considera sbagliata l’idea secondo la quale si debba usare più forza di quanto sarebbe strettamente indispensabile per farsi rispettare. L’indice sintetico di propensione all’uso della forza mostra, tuttavia, che una percentuale per nulla trascurabile di agenti, il 36.7%, ha risposto che sarebbe disposto/a a usare la forza in almeno uno dei quattro items di propensione all’uso della forza utilizzati. Ci sono differenze statisticamente significative in base al genere dei/delle partecipanti e al ruolo ricoperto negli istituti: i maschi si mostrano più propensi all’uso della forza rispetto alle colleghe femmine e la propensione all’uso della forza non solo è più diffusa tra agenti e assistenti, ma essa tende a decrescere alla crescita del ruolo ricoperto in istituto. Emerge dunque un problema di percezione dei limiti di legittimità dell’uso della forza che coinvolge una parte non trascurabile degli/delle agenti.

Anche alla luce delle recenti inchieste giudiziarie volte ad accertare casi di violenza e tortura in carcere, approfondire il tema della propensione all’uso della forza in rapporto alla qualità della relazione con i detenuti, all’orientamento culturale (che si costruisce a partire dalle opinioni personali che incontrano i saperi professionali) e al senso di delegittimazione istituzionale diventa essenziale per approntare interventi organizzativi, gestionali e formativi utili a ridurre il ricorso all’uso della forza da parte degli/delle agenti nella gestione tanto della quotidianità quanto degli eventi critici.

 

4. Dall’inchiesta sugli operatori lombardi della Polizia Penitenziaria emergono elementi di ambiguità circa la percezione del ruolo, dell’istituzione e dell’ambiente carcerario, caratterizzata da una tensione costante tra punizione e rieducazione, distanza e avvicinamento, isolamento e socializzazione. Questi elementi, tuttavia, più che segnare ontologicamente la figura dell’agente, segnalano il fatto che la Polizia Penitenziaria si trovi nel mezzo di conflitti culturali sulla penalità che coinvolgono la funzione del carcere e il ruolo di chi vi lavora. Così, mentre si attende l’entrata in vigore di una riforma del sistema penale che prescinda dalla centralità del carcere, la spinta culturale e politica all’incarcerazione copre velocemente ogni spazio di arretramento della pretesa coercitiva realizzato attraverso varie forme di alternatives, col risultato di un’espansione complessiva di governo della popolazione attraverso il carcere. E ancora: mentre gli istituti di pena sono diventati nel corso degli ultimi decenni più porosi rispetto alla società e più soggetti a controlli esterni, proprio negli ultimi tempi si colgono spinte verso una trasformazione in senso poliziale dell’amministrazione del penitenziario.

Pensare che queste tensioni rimangano fuori dall’ambito professionale e percettivo del personale della Polizia Penitenziaria e che non influiscano sulla vita lavorativa degli/delle agenti (su cosa pensano, come si relazionano e ciò che fanno) è illusorio. Semmai, sarebbe necessario partire dal presupposto che, nei fatti, oggi la gestione delle carceri è affidata quasi esclusivamente alla Polizia Penitenziaria – tranne che in alcuni angoli del sistema – e che ogni riforma in tale ambito deve considerare prioritaria la definizione chiara di cosa ci si aspetta da questa particolare forza di polizia, lavorando nella direzione di un cambiamento culturale che investa anzitutto l’organizzazione e i saperi professionali.

 

 

[1] I. Grattagliano, N. Petruzzelli, V. Pirè, S. Vernaglione, L. Dassisti, L. Ravagnani, C.A. Romano (2020). Doppia pena e doppio diritto? Il carcere al tempo della pandemia da Covid-19. Rassegna Italiana di Criminologia, 4, p. 279.

[2] E. Goffman (1978). Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza. Torino: Einaudi.

[3] R. Cornelli, C. Chisari (2022). “Gestire l’emergenza nelle carceri: uno studio sulla Polizia Penitenziaria”, in Pacini Volpe, P. (a cura di). Il tempo del carcere. Aspetti criminologici e sociologici della prigione attuale. Modelli a confronto tra Francia e Italia, Pisa: Pisa University Press, pp. 146-7.

[4] Ibidem, p. 145

[5] M. Foucault (1976). Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Torino: Einaudi.

[6] Cfr. M.L. Griffin (2011). Job satisfaction among detention officers Assessing the relative contribution of organizational climate variables, Journal of Criminal Justice, 29(3), 219-232; K. Kauffman (1988). Prison Officers and Their World. Harvard University Press, Cambridge; A. Liebling (2011). Distinctions and Distinctiveness in the Work of Prison Officers: Legitimacy and Authority Revisited. European Journal of Criminology, 8(6), 484-499; S. J. Tracy (2009). Il carcere. Potere, paradosso, support sociale e prestigio: un approccio critico al tentativo di affrontare il burnout degli agenti di custodia, 35-57, in Fineman, S. (a cura di). Le emozioni nell’organizzazione. Il potere delle passioni nei contesti organizzativi. Milano: Raffaello Cortina Editore.

[7] Cfr. A. Maculan, S. Santorso (2012). Gli operatori carcerari in Italia: qualche riflessione sugli educatori e sugli agenti di Polizia Penitenziaria, Antigone, 7(1), 84-97; A. Maculan (2014). Lo studio della Polizia penitenziaria: uno sguardo al di fuori dei confini italiani. Sociologia del diritto, 2, 111-136; S. Milazzo, A. Rizzo (2010). La percezione delle problematiche lavorative nel personale di polizia penitenziaria. Rassegna penitenziaria e criminologica, 3(14), 39-67.

[8] In generale, in Italia gli studi sulle forze dell’ordine hanno ricevuto una scarsa attenzione da parte della comunità scientifica, ad eccezione di pochi, tra cui vale la pena menzionare quelli di Salvatore Palidda (2000) e Roberto Cornelli (2020). Le ricerche sulla Polizia Penitenziaria sono ancora più rare, ad eccezione di poche, tra cui: lo studio etnografico sul lavoro degli agenti di Polizia Penitenziaria condotto da Luigi Gariglio (2018); lo studio qualitativo sul benessere professionale della Polizia Penitenziaria di Chiara D’Angelo, Caterina Gozzoli e Davide Mezzanotte (2015); la ricerca condotta da Sofia Milazzo e Anna Rizzo (2010) riguardo la percezione delle problematiche lavorative della Polizia Penitenziaria presso la Casa Circondariale Cavadonna di Siracusa; lo studio di Gabriele Prati e Sara Boldrin (2011) sul benessere organizzativo e i fattori di stress nel personale di Polizia Penitenziaria. Oltre a ciò, vale la pena menzionare le riflessioni sulla categoria professionale della Polizia Penitenziaria e sul carcere di Pietro Buffa (2013a; 2013b).

[9] R. Cornelli (2020). La forza di polizia. Uno studio criminologico sulla violenza. Torino: Giappichelli.