C. App. Brescia, sentenza 15 luglio 2020 (dep. 11 novembre 2020), n. 1683, Pres. Deantoni, rel. Milesi
1. La decisione. – Giacché, talvolta, repetita iuvant[1], il consueto e apprezzato team legale e scientifico ripropone lo strumento dell’a-IAT (Autobiographical Implicit Association Test) come nuova prova utile per il giudizio di revisione; di questo si occupa la decisione della Corte di appello bresciana.
Questi i fatti processuali. Una persona condannata per avere concorso in un terribile episodio di violenza sessuale compiuto su una bambina piccola chiede la revisione del processo sulla base di tre elementi nuovi: una lettera proveniente dal correo, poi suicidatosi; una consulenza tecnica che smonta – dal punto di vista della sua attendibilità – la testimonianza accusatoria che la minore ebbe a rendere all’epoca dei fatti; il test a-IAT- per l’appunto – somministrato al condannato e dal quale sarebbe emersa la sua sincerità nel professarsi estraneo al delitto.
Il giudizio di revisione verrà ammesso, ma – ironia del caso – sulla base della nuova prova meno “nuova” di tutte e cioè di quella lettera per troppo tempo rimasta sepolta in un cassetto dell’ufficio della polizia giudiziaria.
Ora, che il medesimo fatto, apprezzato secondo tecnica scientifica non disponibile all’epoca del giudizio possa aprire le porte della revisione è dato noto e incontroverso[2]. Ed anche per la corte non è il principio in discussione. Il problema è che – per ragioni opposte – né la consulenza sulla testimonianza, né il test sulla memoria sono considerati utilmente spendibili ai fini di una futura assoluzione. Quanto alla prima, le ragioni sono tutte di merito e poco interessanti per queste riflessioni. Mentre, rispetto al test a-IAT gli argomenti sono ben più pregnanti.
Brevemente, per chi non avesse seguito i passaggi precedenti, l’a-IAT è un test che dovrebbe verificare se un soggetto rechi traccia mnestica di un determinato evento autobiografico. Il test, in estrema sintesi, funziona così: al soggetto da esaminare vengono proposte delle frasi che descrivono eventi biografici a lui riferiti. Il soggetto spinge un tasto “vero” o “falso” in base, appunto, al fatto che egli ritenga autentico o meno l’evento. In base ai tempi di risposta, valutati da un algoritmo, si dovrebbe potere stabilire se la persona abbia mentito o meno nel fornire la sua risposta. Negli anni passati questo test è stato protagonista di varie decisioni, giungendo fino in cassazione, con oscillanti esiti[3]. E dunque, per la corte si tratta di prendere posizione a favore o contro. Il collegio ritiene di potere uscire dall’impasse nominando un perito al quale devolvere l’onere di stabilire se l’a-IAT sia buona scienza o meno. Il risultato sembra favorire la tesi dell’attendibilità della tecnica; ma – a questo punto – arriva la sorpresa. O, forse, sarebbe meglio dire la Nemesi.
La corte si sofferma su due “effetti” dell’a-IAT: la capacità del test di fare emergere memorie implicite, cioè memorie che siano inconsapevoli anche per il soggetto che si sottopone alla prova[4]; la capacità di smascherare le false versioni consapevoli e quindi di smascherare l’eventuale “imbroglione”. Ma se così è, allora – per la corte – il test e-IAT è una macchina della verità e la macchina della verità sarebbe vietata dagli articoli 188 c.p.p. e 64 comma 2 c.p.p.[5]. Il test – scrive la corte – supera un limite invalicabile all’attività probatoria “costituito dal divieto di impiegare strumenti capaci di alterare la libertà di autodeterminarsi di ogni persona e, soprattutto, capaci di alterare la sua autonomia nel ricordare e valutare le cose”. In tutto questo chi – almeno come il sottoscritto – ha seguito tutte le alterne fortune del test ideato dal professore Sartori, non può fare a meno di cogliere un nonsoché di beffardo. Il perito, questa volta, è stato bravo a convincere la corte delle qualità del test; troppo bravo. Talmente tanto bravo che la corte si è persuasa del fatto che l’a-IAT è troppo potente per essere utilizzato nel processo penale. E quindi, anche stavolta, rimane fuori[6].
2. Considerazioni. – Qualche considerazione in più vale la pena farla, perché la sentenza bresciana ripropone, ancora una volta, un tema di grande importanza e cioè quello della valutazione del sapere scientifico nelle aule di giustizia. La corte viene posta davanti ad un quesito molto netto: l’a-IAT è scienza o qualcos’altro? A questo punto potevano essere percorse due strade.
La prima, maggiormente responsabilizzante, era quella di tentare di dare una risposta confrontando la tecnica con una griglia di valutazione, una lista, un che dir si voglia che potesse misurare la tecnica con degli “indici di scientificità”. Questo, ad esempio, è il modello Daubert ed è anche quello che fa il gip di Cremona nella citata decisione (con esito che, personalmente, non condivido, ma dimostrando indubbia autonomia).
La seconda, senza dubbio più facile, era quella di delegare la decisione ad un altro appartenente alla comunità scientifica. Bene, questa seconda strada è quella scelta dalla corte[7]. La lettura del quesito formulato a pagina 9 della sentenza non lascia margine d’interpretazione: al perito si chiede di dire se la metodologia a-IAT sia accreditata e valida. Ora, il ricorso ad un esperto in ausilio alla corte va benissimo, ma al perito si dovrebbe chiedere di fornire elementi di conoscenza non appartenenti al cosiddetto wealth of knowledge del giudice e in grado di porre quest’ultimo nelle condizioni di decidere. Non dovrebbe essere il perito a decidere al posto del giudice, anche perché non è detto che il grado di certezza che consente di valutare “attendibile” un certo dato in ambito scientifico sia lo stesso che viene richiesto perché quello stesso dato sia utilizzabile in ambito giuridico. D’altronde sulla tecnica di formulazione dei quesiti peritali – notoriamente annosa questione – bisognerebbe aprire una lunga parentesi. E siccome qui non è possibile farlo, andiamo avanti. Bene, una volta che si decide di incaricare qualcun altro di dirci se una determinata metodologia scientifica sia validata, bisogna farlo correttamente. Cioè bisogna in modo “scientifico”.
Il primo passo – spesso il più difficile e determinante per la qualità del risultato finale – è quello di scegliere un esperto in grado di fornire un contributo appropriato.
Una possibilità sarebbe quella di chiedere un parere a un soggetto accreditato per una speciale competenza nel settore di interesse. Personalmente riterrei questa soluzione decisamente non ottimale, perché il risultato sarebbe quello di ottenere un risposta del tipo “è così perché lo dico io e se lo dico io è vero”. Insomma, si tratterebbe di una riedizione del principio di autorità, purtroppo assai diffusa nelle aule di tribunale, ma decisamente antiscientifica[8]. In ogni caso, questa via non è praticabile dalla corte bresciana per una ragione molto semplice. Il consulente che presenta l’a-IAT ai giudici è il massimo esperto di questa tecnica. Anzi, è colui che l’ha inventata. Quindi, non può esistere esperto più esperto di lui.
Altra possibilità – che è quella optata dalla corte – è quella di identificare qualcuno al quale chiedere di rivedere gli studi che il consulente ha portato a sostegno della sua teoria. Il processo di revisione, tuttavia, dovrebbe essere affidato a chi ha delle competenze specifiche in questa particolare e fondamentale attività di verifica del sapere scientifico; competenze che, quantomeno, richiedono una solida formazione statistica[9]. Nel nostro caso, la corte – invece – affida la perizia ad una neuro scienziata sicuramente di altissimo livello, ma che ha un curriculum essenzialmente da ricercatrice. La corte sceglie un perito che ha un “peso” scientifico probabilmente non inferiore a quello del consulente, ma che non ha una competenza specifica nel settore di ricerca del consulente e che non ha un approccio meta-analitico. Questa scelta “intuizionistica” (del tipo “ne scelgo uno bravo che di quelle cose più o meno ci capisce”) denota una scarsa per non dire nulla conoscenza dei processi che presiedono l’attività di revisione sistematica[10].
Ma andiamo avanti. Ci sono diversi termini che possono essere usati per presentare una rassegna della letteratura scientifica; ciascuno con le sue specificità[11]. L’espressione “rassegna sistematica” indica una ricerca condotta raccogliendo tutte le evidenze empiriche disponibili in letteratura mediante l’adozione di metodi sistematici che permettono di identificare gli studi primari pertinenti, selezionarli, valutarli criticamente e analizzarne di dati. Questa espressione viene, sovente, utilizzata in alternativa a “sintesi della ricerca”.
Invece, il termine “meta-analisi” – introdotto da Gene Glass nel 1970 – viene usato per indicare l’uso di metodi statistici per analizzare i risultati degli studi primari. Questo termine può essere impiegato in combinazione con rassegna sistematica o sintesi della ricerca. Esistono quindi rassegne sistematiche con o senza meta-analisi e cioè con o senza la parte di elaborazione statistica.
Le “rassegne narrative”, diversamente, presentano una sintesi della letteratura ma senza l’adozione di una metodologia sistematica ed esplicita. La rassegna narrativa, di regola, non ha il carattere della ripetibilità e non è trasparente nel processo che porta ad attribuire un certo peso ai vari studi considerati.
Da questa davvero sommaria descrizione si evince che il valore di ciascun tipo di rassegna della letteratura si colloca in posizione molto diversa nella piramide del sapere scientifico: le meta-analisi sono al vertice, le rassegne sistematiche immediatamente sotto, le rassegne narrative molto più in basso[12].
Ora, quel che è sicuro l’elaborato presentato alla corte di appello non sembra potere essere qualificato come rassegna sistematica e, tantomeno, meta-analisi.
Cercando di non essere pedanti, la lettura della perizia consente di notare che la più gran parte della letteratura citata a sostegno della validità dell’a-IAT proviene dallo stesso Sartori o da suoi coautori. Questo potenziale “conflitto di interessi” avrebbe dovuto suggerire l’estrapolazione dei dati relativi agli studi sperimentali citati e la loro autonoma valutazione. Questo non è stato fatto (o, almeno, non sembra emergere dal testo sottoposto alla corte). Il perito cita una “recente meta-analisi che ha tenuto conto dei principali contributi esistenti che hanno esplorato i temi della validità e della attendibilità della misura, evidenziando come gli esperimenti di validazione dell’a-IAT consentano di attribuire valori pari al 90% al fine di identificare la veridicità delle memorie autobiografiche”. Questa meta-analisi mostrerebbe la “robustezza dei dati risultati ottenuti (con particolare riferimento ai valori relativi all’intervallo di confidenza)”. Ma questa meta analisi non è indipendente perché proviene dallo stesso autore di cui bisognerebbe revisionare la letteratura! Quindi, se il perito avesse voluto citarla in modo corretto dal punto di vista metodologico, avrebbe dovuto valutare e verificare i dati degli studi primari e non riportare la tabella elaborata dallo stesso Sartori (pg. 29-30 della perizia).
Più in generale, le considerazioni del perito sul maggiore o minor grado di persuasività di questo o quello studio citato non sono verificabili esternamente. Revisionare uno studio vuole dire analizzarlo e smontarlo per poi ricostruirlo e vedere se i risultati che vengono fuori sono congruenti con quelli dell’autore. Qui, invece, ci muoviamo nel campo della personale, magari giustissima, ma pur sempre soggettiva convinzione del perito. Perito che, per di più, non ha competenze specifiche di a-IAT.
Infine, si dice che l’a-IAT sarebbe riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale di riferimento. E qui si apre il gigantesco problema di definire cosa sia una “comunità scientifica di riferimento”. Il perito cita 41 lavori tra i principali riferimenti bibliografici per a-IAT. Di quattordici di questi è autore o coautore Sartori. Dei residui lavori solo una minima parte sembrano essere studi sperimentali sull’a-IAT. Quindi, viene il forte dubbio che la comunità scientifica di riferimento sia costituita, per la più gran parte, da Sartori. Di questo, ovviamente, non si può fare una colpa a Sartori. Ma se si chiede al perito di dire se il test sia accreditato presso la comunità scientifica, il perito dovrebbe prima definire la comunità scientifica ed adottare un supplemento di cautela nella revisione.
Sia chiaro, con tutto ciò non voglio affatto dire che la perizia non valga nulla. Ancora di meno mi interessa sostenere che l’a-IAT non sia attendibile; cosa che non sono certo in grado di dire. Quel che mi sembra di potere affermare è che l’attendibilità del test non può essere affermata sulla base di una perizia con un quesito che delega la decisione, affidata alla persona sbagliata e densa di aspetti critici non adeguatamente evidenziati nelle motivazioni della sentenza. L’aspetto sul quale mi pare molto importante concentrare l’attenzione è che queste criticità sono di tipo strettamente metodologico. Cioè, come ho avuto più volte modo di sostenere, per sorvegliare adeguatamente la scienza che entra nel processo[13] non si richiede di essere esperti nello specifico settore[14], si richiede di conoscere le basi dell’epistemologia. E questo risultato potrebbe essere conseguito in modo abbastanza agevole, se solo vi fosse consapevolezza. Come dice G.K. Chesterton, in una delle mie citazioni preferite[15], “It isn’t that they can't see the solution. It is that they can’t see the problem”.
[1] I precedenti possono essere letti in G. Gennari , La macchina della verità si è fermata a Salerno…. fortunatamente, in Diritto penale contemporaneo, 12, 2018.
[2] Cass. pen., 2 gennaio 2013, n. 14255 proprio in tema di a-IAT (la decisione è inedita, ma è ampiamente richiamata nel contributo citato alla nota precedente). Successivamente, Cass. pen., 14 febbraio 2017, n. 13930.
[3] G. Gennari, Nuove e vecchie scienze forensi alla prova delle corti, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2016, 117-123
[4] Secondo il suo ideatore, il test potrebbe fare emergere un certo ricordo, magari in qualche modo mistificato inconsciamente dalla persona, nella sua nitidezza ed anche al di là della consapevolezza del soggetto.
[5] Qui segnalo altro enorme problema e cioè se davvero le tecniche neuroscientifiche violino la libertà morale della persona e se per questo debbano essere vietate. Non sono affatto certo che un innocente debba rimanere in carcere perché la prova che lo può liberare viola la sua libertà morale. Anzi, sono piuttosto certo del contrario. Approfondisce molto bene questo tema A. Bonomi, Libertà morale e accertamenti neuroscientifici: profili costituzionali, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 3/2017
[6] A tutt’oggi l’unico caso in cui la-IAT è stato utilizzato in corte è quello in cui il test è stato presentato per la prima volta e cioè G.i.p. Cremona, 19 luglio 2011, n. 109, inedita.
[7] La corte afferma di agire in ossequio al principio di diritto espresso da Cass. Pen., 2 gennaio 2013, n. 14255. In quel caso la cassazione aveva rimproverato la decisione della Corte di Appello di Catanzaro, che aveva escluso sempre l’a-IAT ai fini di revisione, dicendo che il giudice di merito deve documentarsi priva di respingere o meno una tecnica scientifica. La Corte, però, non dice che il giudice deve farlo facendo decidere ad altri.
[8] Un esempio è fornito in G. Gennari, Nuove e vecchie scienze forensi alla prova delle corti, cit., p. 13, nota 38.
[9] Il lavoro di revisione viene svolto – consuetudinariamente – da statistici ed epidemiologici. Il lavoro di revisione non richiede una competenza specifica nella materia da rivedere, ma nel processo di valutazione della letteratura esistente.
[10] Esistono delle risorse aperte a tutti, come la Cochrane collaboration (www.cochrane.org) o la Campbell collaboration (www.campbellcollaboration.org) che avrebbero potuto facilmente aiutare la corte.
[11] Da questo momento il riferimento bibliografico è E. Crocetti, Rassegne sistematiche, sintesi della ricerca e meta-analisi, CreateSpace, North Charleston, SC, USA, 2015.
[12] Sulla “gerarchia delle evidenze” basta inserire le parole chiave su un qualsiasi motore per trovare un profluvio di riscontri. Per chi volesse si può andare direttamente a vedere il sito della Cochrane.
[13] Qui si parla di a-IAT, ma ovviamente il ragionamento può essere esteso a mille altri esempi.
[14] Tutti ricorderanno la “legittima ignoranza” del giudice, rivendicata dalla sentenza Knox-Sollecito della Suprema Corte (Cass. Pen., 7 settembre 2015, n. 1105)
[15] G. K. Chesterton, The Scandal of Padre Brown, House of Stratus, 2008, p. 141.