Corte cost., sent. 5 giugno 2019 (dep. 18 luglio 2019), n. 189, Pres. Lattanzi, Red. Viganò
Per leggere il testo della sentenza, clicca qui.
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte costituzionale afferma la perdurante rilevanza penale, nel quadro normativo posteriore all’introduzione dell’art. 570-bis c.p., delle condotte di inosservanza degli obblighi di natura economica nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio.
Sono così dichiarate infondate le molteplici questioni di legittimità volte a censurare l’assetto sostanziale risultante a seguito della riforma attuativa del principio di riserva di codice, realizzata con d.lgs. 21/2018, che nella prospettazione dei rimettenti avrebbe circoscritto la tutela penale in materia, prima onnicomprensiva, agli interessi patrimoniali dei soli figli nati da coppie coniugate, integrando la violazione di plurimi parametri costituzionali.
Una simile ricostruzione – invero diffusa nella giurisprudenza di merito – è ora confutata dalla Corte, la quale avalla un diverso orientamento, di recente maturato in alcune decisioni della Cassazione, che consente di escludere i denunciati profili di illegittimità sulla base di una lettura più completa del dato positivo. Ciò peraltro non impedisce alla Corte di svolgere una breve riflessione critica sull’operato redazionale del legislatore (delegato) e di evidenziare l’opportunità di un intervento di – ulteriore – «riordino» topografico della disciplina pertinente.
2. Conviene premettere una panoramica sintetica delle ordinanze di rimessione, considerato che oltre alle questioni sollevate dal Tribunale di Nocera Inferiore e dalla Corte d’Appello di Trento – di cui si è dato conto con maggior dettaglio in altro contributo[1] – nel giudizio incidentale sono riunite anche quelle promosse dalla Corte d’Appello di Milano e dal Tribunale di Civitavecchia.
Nonostante la numerosità dei provvedimenti, comune è il loro impianto argomentativo, al netto di alcune differenze circa i parametri di legittimità prescelti.
2.1. I giudici di merito erano chiamati a pronunciarsi, in primo o in secondo grado, sulla responsabilità degli imputati in ordine all’omesso versamento delle somme o degli assegni periodici stabiliti dall’autorità giudiziaria ai sensi degli artt. 337-bis ss. c.c. in favore di figli nati fuori dal matrimonio (minorenni ma anche maggiorenni non economicamente autosufficienti).
Tale fattispecie concreta veniva ricondotta, nel capo di imputazione ovvero nel titolo di condanna da parte del giudice di prime cure ovvero ancora nella diversa qualificazione operata dal rimettente, al delitto di cui all’art. 3 l. 54/2006: norma quest’ultima che estendeva alle ipotesi di separazione e, in particolare, per il tramite dell’art. 4 della medesima legge, ai rapporti verso i figli nati fuori dal matrimonio – altrimenti non contemplati dal legislatore penale – la disciplina sanzionatoria che l’art. 12-sexies l. 898/70 già prevedeva in caso di divorzio per la violazione degli obblighi economici a favore dei figli di coppie coniugate.
In corso di giudizio sopravveniva tuttavia il d.lgs. 21/2018, che perseguendo l’obiettivo generale di trasferire all’interno del codice penale norme incriminatrici disseminate nell’ordinamento al di fuori di corpi normativi organici, con previsioni idealmente speculari disponeva – da un lato – l’abrogazione degli artt. 12-sexies l. 898/70 e 3 l. 54/06 e – dall’altro – l’introduzione dell’art. 570-bis c.p.
Quest’ultima norma, che delle precedenti dovrebbe riprodurre il testo, sanziona con «le pene previste dall’art. 570» l’inadempimento di obblighi economici verso i figli gravanti sul genitore a seguito di scioglimento del vincolo matrimoniale (divorzio, cessazione degli effetti civili, dichiarazione di nullità) o di separazione.
2.2. La novella aveva suscitato in giurisprudenza una varietà di reazioni. Escluso infatti, per opinione incontroversa, che la disposizione innestata nel codice potesse configurare un caso di nuova incriminazione, dovendosi invece riconoscere un rapporto di continuità normativa tra figure di reato, ci si era però interrogati sulla possibilità di ravvisare nella successione tra norme una ipotesi di abolitio criminis in relazione alla classe di fatti in esame.
In questo senso è sembrato deporre il tenore letterale della disposizione, che non menziona i figli nati fuori dal matrimonio e anzi individua nel «coniuge» il soggetto attivo del reato: su questi presupposti si era quindi affermata la tesi – cui aderiscono i rimettenti – secondo la quale l’art. 570-bis sarebbe idoneo a punire esclusivamente le condotte inosservanti nei rapporti con i figli nati in costanza di matrimonio.
Una volta persuasi della perdita di rilevanza penale degli inadempimenti ai danni di figli di coppie non coniugate, i giudici a quo non esitavano a coglierne, sotto vari aspetti, il contrasto con alcune disposizioni della Costituzione: anzitutto gli artt. 3 e 30, per quanto concerne la parità di trattamento e tutele nei rapporti di filiazione, a prescindere dalla sussistenza di un rapporto di coniugio; ma anche gli artt. 25, secondo comma, e 76, ritenendo integrato un eccesso di delega rispetto alle previsioni della c.d. riforma Orlando, che come noto autorizzava il Governo, nell’ambito dell’attuazione della riserva di codice, a una formale traslazione di sede delle norme incriminatrici, ma non alla modifica della loro portata materiale (cfr. art. 1, co. 85, lett. q) l. 103/17).
Ne scaturiva una serie di ordinanze di rimessione (la prima delle quali successiva solo di pochi giorni rispetto all’entrata in vigore del decreto attuativo), con le quali veniva investita la Corte costituzionale della questione di legittimità dell’art. 570-bis c.p., nonché delle disposizioni del d.lgs. 21/2018 che hanno introdotto la nuova fattispecie codicistica (art. 2 co. 1 lett. c)) e di quelle che hanno abrogato l’art. 12-sexies l. 898/70 (art. 7 co. 1 lett. b)) e l’art. 3 l. 54/06 (art. 7 co. 1 lett. o)).
3. La Corte costituzionale con la sentenza in esame dichiara infondate tutte le questioni – con l’eccezione di quella relativa alla norma abrogatrice dell’art. 12-sexies, dichiarata inammissibile perché inerente a una previsione inidonea a incidere sull’an della illiceità penale dei fatti di causa e dunque priva di rilevanza (§ 8 del ‘considerato in diritto’).
Per il resto, sono respinte le eccezioni di inammissibilità proposte dall’Avvocatura dello Stato, anch’esse reiterate con argomenti analoghi per ciascuna delle ordinanze di rimessione.
In particolare (§ 9.1), mentre l’Avvocatura intendeva valorizzare la concreta possibilità – pure emersa nel panorama giurisprudenziale (v. infra) – di una ricostruzione della normativa vigente che vada indenne da censure di illegittimità, la Corte ricorda, sulla base di un proprio consolidato indirizzo, come il filtro di ammissibilità impone al giudice a quo soltanto il previo esperimento di un tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata: cosicché, ove tale tentativo sia «effettivo» (da intendersi non apparente), la sua correttezza tecnica deve trattarsi alla stregua di un profilo di merito, da cui dipende la fondatezza della questione sollevata. Nel caso di specie, è sufficiente rilevare come i rimettenti si siano soffermati specificamente sulla possibilità di risolvere in via ermeneutica il contrasto con i parametri costituzionali, salvo scontrarsi con l’ostacolo – a loro giudizio insuperabile – del dato testuale.
4. Passando quindi all’esame del merito, la Corte antepone all’esame delle questioni una estesa ricostruzione dell’evoluzione storica della disciplina rilevante e dei principali orientamenti giurisprudenziali consolidati in materia di violazione degli obblighi di assistenza nei confronti dei figli (§ 7).
In modo schematico, possono individuarsi quattro fasi:
i) nel codice del 1930 norma di riferimento nel contesto dei rapporti familiari era l’art. 570, e in particolare la fattispecie di cui al co. 2 n. 2), che punisce la condotta di chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti, con previsione che la giurisprudenza nel tempo ha poi ricollegato alla semplice presenza di uno status filiationis;
ii) il vuoto nella tutela dei diritti del coniuge in caso di scioglimento del matrimonio (quando non opera il co. 1 dell’art. 570) ha portato nel 1987 all’introduzione nella legge sul divorzio dell’art. 12-sexies, che nell’incriminare le condotte di mancato versamento dell’assegno di mantenimento – di per sé considerato, a prescindere dello stato di bisogno del beneficiario – ha rafforzato anche la posizione dei figli, oltre i presupposti stringenti dell’art. 570 co. 2 n. 2);
iii) la medesima tecnica di tutela penale è stata estesa dalla legge sull’affido condiviso agli obblighi di natura economica nei confronti di coniuge e figli stabiliti in sede di separazione (art. 3); nella stessa l. 54/06 era ed è tutt’ora presente l’art. 4 co. 2, che, secondo una lettura ormai acquisita nella giurisprudenza di legittimità, estende l’applicabilità delle disposizioni del medesimo corpo normativo, comprese quelle sanzionatorie penali (art. 3), «ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati»;
iv) il quadro dei riferimenti normativi è infine mutato nel 2018, quando il legislatore delegato ha introdotto l’art. 570-bis c.p., intendendo realizzare in materia il principio di riserva di codice mediante la traslocazione delle fattispecie di cui agli artt. 12-sexies l. 898/70 e 3 l. 54/06.
5. Osserva la Corte come, a fronte dello scenario così delineato, l’interpretazione della nuova disposizione fornita dai rimettenti dovrebbe in effetti condurre a una declaratoria di illegittimità costituzionale (§ 10.1).
Se la fattispecie attualmente vigente escludesse dal proprio ambito di applicazione i fatti commessi ai danni di figli nati fuori dal matrimonio, come è sembrato suggerire il tenore letterale, sarebbe integrata con tutta evidenza una violazione dell’art. 76 Cost.
Secondo questa prospettiva, infatti, rispetto all’assetto previgente dovrebbe oggi riscontrarsi uno scarto di tipicità, posto che l’incriminazione dell’omesso versamento dell’assegno di mantenimento ex art. 3 l. 54/06 era da ritenersi – salvo un isolato precedente, ampiamente superato dal diritto vivente – applicabile anche alle condotte in danno dei figli di genitori non coniugati. La perdita di rilevanza penale di questi ultimi fatti in seguito all’introduzione del nuovo art. 570-bis c.p. concretizzerebbe allora un palese eccesso di delega, dato che, in base a una diffusa lettura della l. 103/2017, cui ora presta autorevole voce anche la Corte costituzionale, «il Governo non avrebbe potuto […] procedere a una modifica, in senso restrittivo o estensivo, dell’area applicativa delle disposizioni trasferite all’interno del codice penale».
6. Tuttavia, la tesi della (parziale) abolitio criminis, con l’inevitabile declaratoria di incostituzionalità che ne conseguirebbe, a giudizio della Corte risulta confutata convincentemente da un filone interpretativo che si è andato affermando nella giurisprudenza di legittimità con ripetuti arresti successivi alle ordinanze di rimessione (§10.2).
A partire dalla sent. 55744/2018, infatti, la Cassazione – promuovendo una tesi già emersa in almeno una pronuncia di merito – ha valorizzato la circostanza che nessuna delle disposizioni di abrogazione poste in coda al d.lgs. 21/2018 (art. 7) ha investito l’art. 4 co. 2 l. 54/06, ossia proprio quella norma che nel sistema precedente fungeva da “clausola di estensione” della disciplina penale prevista dall’art. 3 ai «procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati».
Così, spostata l’attenzione dal dato testuale della singola norma incriminatrice al dato sistematico, la perdurante vigenza dell’art. 4 co. 2 porta a concludere che il perimetro di illiceità penale non ha subito restrizioni rispetto al passato.
Tale conclusione è supportata, ancor più che dall’asserita natura meramente compilativa del d.lgs. 21/2018 (che è un quid da dimostrare, e non un assunto), dalla previsione del medesimo decreto delegato (art. 8) che a sua volta prevede, a fini di coordinamento, una “clausola di corrispondenza” tra le disposizioni abrogate dall’art. 7 e quelle di nuova introduzione nel codice penale, stabilendo che i rinvii alle prime – ai nostri fini, all’art. 3 l. 54/06 – debbano in futuro considerarsi come rinvii a quelle tra le seconde che ne costituiscono la trasposizione formale – in questo caso, all’art. 570-bis c.p.
La rilevanza penale delle condotte di violazione degli obblighi economici nei confronti di figli nati fuori dal matrimonio deriva quindi, oggi, da un triplice combinato disposto: norma incriminatrice principale, che descrive nei tratti essenziali la condotta tipica e fissa (per relationem) il trattamento sanzionatorio, è l’art. 570-bis c.p., la cui tipicità è estesa alle ipotesi di coppie non coniugate dal tutt’ora vigente art. 4 co. 2 l. 54/06, la cui applicabilità alla disposizione codicistica, nonostante l’abrogazione della norma oggetto dell’originario richiamo, è infine assicurata dall’art. 8 d.lgs. 21/2018.
La Corte costituzionale avalla dunque questa interpretazione, che al contempo beneficia di un solido fondamento normativo, sottraendosi così al divieto di analogia, e porta ad escludere i profili di illegittimità denunciati dai rimettenti (non solo l’eccesso di delega, ma anche la disparità di trattamento), consentendo di chiudere il giudizio incidentale con una soluzione conservativa della normativa vigente.
7. Esclusa la fondatezza delle questioni di legittimità, la stessa Corte ritiene in conclusione di dover comunque formulare un rilievo critico rispetto al quadro di diritto positivo frutto delle modifiche apportate dal d.lgs. 21/2018 (§ 11).
La triangolazione sopra descritta, sufficiente per offrire un’esegesi conforme a Costituzione, è sì «un’operazione ermeneutica ineccepibile, ma certo non di solare evidenza»: la Corte segnala come l’interprete si trovi costretto a ricostruire il perimetro dell’incriminazione ricorrendo a due ulteriori disposizioni esterne al codice penale – e, potremmo aggiungere, appartenenti a testi normativi differenti –, attraverso un percorso comunque non privo di asperità, tanto da essere ritenuto impraticabile da numerosi giudici di merito.
Un simile assetto è destinato a impattare negativamente anche sul destinatario della norma, rivelandosi “distonico” rispetto all’obiettivo di «migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni» che costituiva finalità espressa della legge delega e che gode di rilevanza costituzionale ai sensi dell’art. 25, secondo comma. Un profilo di tensione con i principi che la Corte auspica sia il legislatore a eliminare, mediante un intervento «direttamente sul testo dell’art. 570-bis cod. pen., per esplicitarne l’applicabilità – già oggi riconosciuta dal diritto vivente – anche alla condotta omissiva del genitore che non adempia i propri obblighi economici nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio».
* * *
8. Illustrati struttura e contenuti della decisione, alcune considerazioni di commento.
Anzitutto, muovendo dal punto toccato per ultimo, si apprezza la concretezza dell’osservazione della Corte in punto di conoscibilità del precetto.
La penetrazione nell’ordinamento nazionale del principio di legalità in chiave sostanziale elaborato dalla Corte edu ha fatto maturare una spiccata sensibilità, tanto nella giurisprudenza ordinaria che costituzionale, per la qualità della legislazione in materia penale come garanzia a presidio dei diritti fondamentali della persona.
Come noto, particolare attenzione è stata riservata al canone di prevedibilità dell’applicazione giurisprudenziale e, correlativamente, alla accessibilità-determinatezza delle norme incriminatrici. Il problema dell’«oscurità del testo legislativo», che la celebre sent. n. 364/1988 (§ 27) già aveva individuato tra gli ostacoli alla conoscibilità del precetto, come tali idonei a escludere la colpevolezza dell’agente, sembra oggi confluire – a tutto beneficio della garanzia dei diritti della persona[2] – nel discorso sulla portata del principio di legalità.
Nella generalità dei casi, sino alle recenti sentt. 24 e 25 del 2019 (intervenute in materia di misure di prevenzione)[3], la verifica circa il rispetto di tali requisiti ha come dato di partenza e fulcro dell’analisi la formulazione letterale della singola disposizione, ad esempio ritenuta censurabile perché contenente termini polisemici o generici (si pensi al tenore delle prescrizioni la cui violazione integrava le fattispecie di cui all’art. 75 d.lgs. 159/2011).
La decisione della Corte costituzionale che qui si esamina sembra avvertire come la qualità della legge – o, meglio, la prevedibilità sulla base (solo) della legge – possa dipendere anche da ulteriori fattori: non tanto dalla scelta del lessico utilizzato per enunciare il precetto, di per sé adeguatamente “localizzato”, quanto addirittura dall’ubicazione dei lemmi che lo compongono. È, come si accennava, un’affermazione caratterizzata da condivisibile realismo quella per cui una norma risultante dall’assemblaggio farraginoso di frammenti sparsi nell’ordinamento ponga problemi in termini di accessibilità ai suoi destinatari, non necessariamente dei tecnici (come nel caso di specie).
Non pare infine superfluo – nel contesto delle dinamiche sempre fluide di un sistema di garanzie multilivello – richiamare l’attenzione del lettore sul fatto che la Corte, nell’indicare il fondamento dell’esigenza di una «più immediata riconoscibilità del precetto penale», non evochi l’art. 7 Cedu, menzionando unicamente l’art. 25, secondo comma, Cost. La scelta di valorizzare la dimensione interna della legalità potrebbe d’altra parte cogliersi di immediato riflesso nella sollecitazione di un intervento legislativo in materia, più conforme ai principi di un ordinamento di civil law, quando forse per lo standard convenzionale sarebbe stato sufficiente lo stabilizzarsi del diritto vivente, tanto più se convalidato da una decisione autorevole come la presente.
9. Fatto salvo quanto osservato al punto precedente, può dirsi che la specifica questione oggetto del giudizio incidentale abbia trovato una soluzione soddisfacente sul piano sostanziale e anche consequenziale sul piano logico-giuridico.
In realtà, a rigore, non risulta che nella giurisprudenza della Cassazione ripresa dalla sentenza in esame – né nelle motivazioni di quest’ultima – venga attribuita rilevanza a quanto osservato nella relazione dell’Ufficio del Massimario sull’art. 570-bis[4]: in tale sede (p. 11-12) si era infatti evidenziato come nella nuova disposizione codicistica non sono confluite soltanto le figure di reato di cui agli artt. 12-sexies e 3, ma anche alcune delle fattispecie la cui punibilità, nel sistema previgente, dipendeva proprio dalla clausola di estensione di cui all’art. 4 co. 2, che le contemplava accanto a quelle relative ai figli di coppie non coniugate (è il caso, in particolare, delle ipotesi di nullità del matrimonio).
Un simile disallineamento, che porterebbe nuova linfa alla tesi dell’abolitio, oggi probabilmente può ritenersi passato in secondo piano nell’economia del ragionamento: ciò non tanto per il valore proprio dell’argomento a contrario, di per sé mai decisivo, bensì perché tale rilievo ci sembra indirettamente assorbito dalla più generale sottolineatura, da parte della Corte, della imperfetta opera redazionale del legislatore delegato, alla cui luce viene più facile spiegare l’omissione come una negligente dimenticanza piuttosto che come scelta consapevole.
10. Su un piano più generale, degna di nota la riflessione che la Corte svolge – ex officio – rispetto alla prospettiva di un proprio intervento che, nella prospettiva dei rimettenti, avrebbe dovuto condurre a un ampliamento dell’area della punibilità (§ 9.4).
Come noto, il fondamento dell’inammissibilità del sindacato in malam partem è costituito dal principio di legalità-riserva di legge. Secondo un orientamento inaugurato dalla sent. 5/2014, qui ribadito dalla Corte, tale principio dell’inammissibilità rappresenta anche il limite, nel senso che esso non può essere invocato per precludere lo scrutinio di legittimità di una disposizione – quand’anche favorevole – introdotta da un soggetto non abilitato alla produzione normativa in materia penale, per ragioni sostanziali o procedurali. Pertanto, accanto alle ipotesi di sindacato sulle norme c.d. di favore (riconosciuto sin dalla sent. 394/2006), per evitare “zone franche” dal controllo di legittimità deve riconoscersi la possibilità per la Corte di esaminare nel merito le questioni con cui, come nel caso di specie, si censura che l’Esecutivo abbia abrogato una norma contro il criterio di delega, così esorbitando dalle valutazioni del Parlamento, cui è riservato il monopolio delle scelte di politica criminale.
Tanto chiarito in relazione ai presupposti di ammissibilità, spostandoci sul piano delle ipotesi ancor più interessante sarebbe stato capire (se e) come la Corte avrebbe affrontato la questione relativa agli effetti intertemporali di una eventuale sentenza di accoglimento.
Il tema dell’estensione retroattiva degli effetti in malam partem della declaratoria di incostituzionalità è stato affrontato solo in modo parziale nella giurisprudenza della Corte, anche nelle ipotesi in cui pure la questione era stata dichiarata fondata (si veda ad es. la sent. 5/2014).
Di recente, nella sent. 236/2018 – in cui gli effetti sfavorevoli sul piano sostanziale scaturivano dalla declaratoria di incostituzionalità di una norma processuale, attributiva della competenza al giudice di pace – si è affermata la prevalenza del principio di irretroattività della disciplina peggiorativa sulla consueta efficacia ex tunc della caducazione per illegittimità, con riferimento ai «fatti commessi fino al giorno della pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale».
Tale conclusione è invero pacifica per i fatti c.d. concomitanti (commessi cioè nel periodo di vigenza della norma più favorevole), posto che rispetto ad essi non può che riconoscersi il diritto fondamentale della persona di non essere sorpresa dallo Stato con una sanzione (più grave) non prevedibile al tempo della condotta.
L’incertezza attiene invece alla sorte dei fatti c.d. pregressi: alla possibilità, cioè, che i fatti commessi prima dell’entrata in vigore della norma più favorevole – e dunque nel vigore della disciplina più sfavorevole, che “rivive” a seguito della declaratoria di illegittimità – beneficino comunque della depenalizzazione realizzata dalla norma poi risultata invalida. Questo lo scenario che poteva delinearsi nel caso di specie, posto che, come già rilevato in sede di analisi di alcune ordinanze di rimessione, almeno parte delle condotte addebitate agli imputati nei giudizi a quo si esauriva in un periodo precedente all’entrata in vigore del d.lgs. 21/2018, fonte della supposta abolitio.
A questo riguardo, l’affermazione contenuta nella sent. 236/2018 – che non consta abbia ancora ricevuto approfondimenti in dottrina – è sì formulata in termini generali, ma anche per questo non sembra esprimere una posizione specifica e definitiva della Corte costituzionale circa la disciplina applicabile ai fatti pregressi, rispetto ai quali può peraltro dubitarsi che sussista la ratio di tutela dell’invocato divieto di retroattività in peius.
Sul punto è invece nota una decisione della Cassazione del 2017[5], che ha sostenuto l’operatività del principio di retroattività favorevole anche rispetto al soggetto imputato per un fatto commesso prima dell’entrata in vigore di una norma abolitrice poi dichiarata illegittima. La novità della questione anche all’interno della giurisprudenza di legittimità e la persuasività delle numerose critiche mosse in dottrina[6] alla sentenza inducono a ritenere seriamente possibile che in futuro sul punto si registrino decisioni di segno opposto.
11. Per concludere, una breve riflessione sulla complessiva disciplina di tutela penale degli obblighi di assistenza familiare.
Dalle motivazioni della Corte, anche nella parte in cui viene ricostruita l’evoluzione in materia, non sembra di poter trarre spunti utili per risolvere – se non definitivamente, almeno con maggior sicurezza di argomenti – le annose questioni interpretative che ruotano intorno ai rapporti tra i reati previsti dai co. 1 e 2 dell’art. 570 e, a loro volta, tra questi e le fattispecie oggi confluite nell’art. 570-bis.
Alcuni di tali problemi, come si ricorderà, avevano progressivamente assunto peso nel dibattito di contorno alle ordinanze di rimessione, nell’ambito di alcune ipotesi ricostruttive tese a verificare la possibilità che le condotte di omesso versamento dell’assegno ai figli di coppie non coniugate, asseritamente non ricomprese nella neo-introdotta disposizione, conservassero rilevanza penale ai sensi di norme già presenti nel codice.
Da questo specifico punto di vista, è inevitabile che le questioni risultino dequotate a seguito sentenza della Corte che si commenta. Tuttavia, è altrettanto evidente che esse siano destinate a mantenere grande importanza nella prassi applicativa, rispetto ai figli nati tanto in costanza di matrimonio quanto al di fuori di una unione riconosciuta.
Si pensi, per tutte, all’ipotesi del genitore che ometta di versare l’assegno di mantenimento stabilito dall’autorità giudiziaria e faccia così mancare i mezzi di sussistenza alla prole, integrando simultaneamente le fattispecie di cui agli artt. 570 co. 2 n. 2) e 570-bis (eventualmente combinato con l’art. 4 l. 54/06).
Non essendo questa la sede per approfondire il tema, ci si limita a segnalare, come aggiornamento, che nel periodo successivo alle ultime ordinanze di rimessione è intervenuta una nuova sentenza della Cassazione[7], il cui principio di diritto afferma la sussistenza, tra le figure criminose da ultimo citate, di un concorso eterogeneo e non di un rapporto di consunzione: la pronuncia testimonia sia l’attualità della questione sia la sua natura controversa, stante la presenza tra le sentenze di legittimità di orientamenti contrastanti, la cui composizione deve però ritenersi affidata alla giurisprudenza della stessa Suprema Corte, eventualmente a Sezioni unite.
[1] Omesso versamento dell’assegno a favore di figli di coppie non coniugate dopo il d.lgs. 21/2018: primi orientamenti giurisprudenziali su art. 570-bis e dintorni, in Dir. pen. cont., 8 ottobre 2018.
[2] Cfr. F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in Dir. pen. cont., 19 dicembre 2016, p. 8-10.
[3] Entrambe illustrate in S. Finocchiaro, Due pronunce della Corte costituzionale in tema di principio di legalità e misure di prevenzione a seguito della sentenza de Tommaso della Corte EDU, in Dir. pen. cont., 4 marzo 2019.
[5] Cass., Sez. I, sent. 22 settembre 2016 (dep. 18 maggio 2017), n. 24834, Pres. Vecchio, Est. Talerico, Augussori e a., relativa a un procedimento per il delitto di associazione di carattere militare per scopi politici (art. 1 d.lgs. 43/1998), incriminazione abrogata da una norma (art. 1 d.lgs. 231/2010) poi dichiarata illegittima dalla citata sent. 5/2014. La sentenza è consultabile a questo link.
[6] In particolare F. Viganò, Sugli effetti intertemporali della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma che abroga una precedente incriminazione, in Dir. pen. cont., fasc. 10/2017, p. 298 ss.
[7] Cass., Sez. VI, n. 18572/2019, Pres. Petitti, Est. Bassi, in CED, Rv. 275677.