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02 Luglio 2020


Insufficiente il termine di 24 ore per impugnare la decisione del magistrato di sorveglianza in materia di permessi premio: la Corte dichiara il termine costituzionalmente illegittimo e lo sostituisce con quello di 15 giorni

Corte cost., sent. 27 maggio 2020 (dep. 12 giugno 2020), n. 113, Pres. Cartabia, Red. Viganò



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1. Con la decisione indicata in epigrafe, la Corte costituzionale ha recentemente dichiarato l’illegittimità dell’art. 30-ter co. 7 ord. pen. nella parte in cui, rinviando a quanto disposto dall’art. 30-bis co. 3 ord. pen., prevede che la decisione del magistrato di sorveglianza relativa alla richiesta di permesso premio debba essere impugnata entro il termine di 24 ore dalla sua comunicazione, anziché entro quello di 15 giorni, come previsto dall’art. 35-bis co. 4 ord. pen.  

 

2. La questione era stata sollevata dalla Prima sezione penale della Corte di cassazione lo scorso novembre, con ordinanza n. 45976/2019, di cui era già stata data notizia su questa Rivista.

In breve, la Suprema Corte era stata investita del ricorso dal difensore del detenuto G.V., che aveva impugnato, dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Bologna, il provvedimento con cui era stata rigettata l’istanza di permesso premio, avanzata al fine di poter trascorrere qualche ora in compagnia dei suoi familiari.

Il Tribunale, però, dichiarava il reclamo inammissibile poiché tardivo, essendo stato presentato mezz’ora dopo lo scadere del termine di 24 ore previsto dalla legge per l’impugnazione della decisione di rigetto: quest’ultimo era stato infatti comunicato al detenuto alle ore 8.16 del 13 novembre ed il reclamo era stato presentato alle ore 8.44 del giorno successivo.

La Sezione rimettente ha ritenuto che la questione fosse rilevante, in quanto dalla dichiarazione di illegittimità della norma censurata sarebbe derivata una situazione di indubbio vantaggio per il ricorrente, poiché il suo reclamo avrebbe dovuto essere valutato nel merito.

Per quanto riguarda, invece, la non manifesta infondatezza, dopo aver richiamato la sentenza n. 235/1996 della Corte costituzionale[1], il giudice a quo ha indicato, quali parametri violati, l’art. 3 Cost., poiché la disciplina censurata equipara irragionevolmente il termine per proporre reclamo contro i permessi premio e contro quelli di necessità;  l’art. 27 Cost., in quanto la brevità del termine si risolve in un ostacolo alla funzione rieducativa; l’art. 24 Cost., in ragione del pregiudizio all’effettività del diritto di difesa e, infine, l’art. 111 Cost., in virtù dello squilibrio che crea tra le posizioni di accusa e difesa.

 

3. Sulla base di tali premesse, la Consulta provvede innanzitutto ad una delimitazione dell’oggetto delle censure di illegittimità, chiarendo che esse riguardano esclusivamente il termine di 24 ore previsto per impugnare la decisione relativa alla richiesta di permessi premio, che risulta dal richiamo operato dall’art. 30-ter co. 7 all’art. 30-bis ord., restando invece estranea al suo giudizio l’identica disciplina prevista per i permessi di necessità.

Vale la pena a questo proposito ricordare che i permessi di necessità erano già presenti già nel tessuto originario della legge di ordinamento penitenziario del 1975, in particolare nell’art. 30 ord. pen., e la loro previsione rispondeva essenzialmente ad un’esigenza di umanizzazione della pena, essendo possibile fruirne solo in presenza di presupposti oggettivi ed eccezionali – ovvero l’imminente pericolo di vita di un familiare o altri eventi familiari di particolare gravità – estranei quindi alla vita e alla condotta carceraria del detenuto[2].

I permessi premio, invece, sono stati introdotti successivamente tra i benefici penitenziari dalla legge 10 ottobre 1986 n. 663 (cd. Legge Gozzini) e si differenziano dai primi, oltre che per la loro valenza premiale suggerita dalla denominazione stessa dell’istituto, soprattutto per la circostanza che, secondo l’art. 30- ter co. 3 ord. pen.,la loro esperienza costituisca parte integrante del trattamento penitenziario e debba essere seguita dagli educatori e dagli assistenti sociali penitenziari in collaborazione con gli operatori sociali del territorio.

Proprio in quanto parte integrante del trattamento, il permesso premio potrà essere concesso ai soli condannati, i quali devono aver tenuto una regolare condotta e non risultare socialmente pericolosi, al fine di consentire loro di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro.

Sebbene, dunque, i due tipi di permesso siano diversi nei presupposti e nell’oggetto, attraverso la previsione di cui all’art. 30-ter comma 7 – secondo cui “il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto al reclamo al Tribunale di sorveglianza, secondo le procedure di cui all’art. 30-bis[3] – sono stati equiparati per quel che riguarda il termine di 24 ore previsto per impugnare le relative decisioni.  

 

 

4. Così individuato il thema decidendum, la Corte ritiene che le questioni siano fondate, con riferimento agli artt. 3, 24 e 27 Cost.

Punto di partenza del ragionamento è proprio il suo precedente arresto del 1996.

In quell’occasione, infatti, la Corte non aveva mancato di sottolineare la profonda differenza esistente, quanto a presupposti e finalità, tra i permessi premio e quelli di necessità e l’irragionevolezza della previsione di un identico termine per impugnare le rispettive decisioni.

Non essendo, però, possibile in quel momento rintracciare una soluzione costituzionalmente orientata, in grado di porre rimedio alla pur riscontrata eccessiva brevità del termine, la questione era stata dichiarata inammissibile ed era stato demandato al legislatore il compito di “provvedere, quanto più rapidamente, alla fissazione di un nuovo termine che contemperi la tutela del diritto di difesa con le esigenze di speditezza della procedura”[4].

La Corte, pertanto, nella sentenza in commento, prende atto del fatto che tale monito è rimasto inascoltato per oltre vent’anni e ribadisce la già rilevata contrarietà alle norme costituzionali del termine di 24 ore.

In particolare, esso viene ritenuto irragionevole al metro dell’art. 3 Cost., poiché prevede un unico termine per impugnare i provvedimenti in materia di permessi di necessità e quelli relativi ai permessi premio, pur non sussistendo in quest’ultimo caso le ragioni di urgenza che giustificano, per i permessi ordinari, la brevità del termine.

D’altra parte, la previsione di un termine così ridotto pregiudica ingiustificatamente l’effettività del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nella misura in cui impone all’istante, entro un così breve lasso di tempo, di ottenere l’assistenza tecnica di un difensore e di articolare degli specifici motivi a sostegno del suo reclamo.

Infine, tali ostacoli alla possibilità di far valere le proprie ragioni su un istituto di importanza cruciale, in un’ottica di progressività trattamentale, entrano inevitabilmente in contrasto con la funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27 co. 3 Cost., in quanto impediscono all’interessato di contestare efficacemente eventuali decisioni erronee assunte dal magistrato di sorveglianza su uno strumento di cruciale importanza ai fini del trattamento penitenziario.

Da questo punto di vista, occorre osservare che la sentenza in commento si inserisce in quel filone giurisprudenziale che, a partire dalla sentenza n. 188 del 1990[5], ha progressivamente valorizzato la  funzione special preventiva di tale beneficio e la sua importanza quale strumento diretto ad agevolare la progressione rieducativa del condannato, nell’ottica di un suo futuro positivo ritorno in società[6]. Nella sentenza in commento, la Corte ribadisce la funzione “pedagogico-propulsiva” del permesso premio, mettendo in evidenza come esso rappresenti il primo strumento che, durante la fase di esecuzione della pena, consente agli operatori penitenziari di valutare gli effetti sul detenuto di un temporaneo ritorno in libertà[7].

Secondo la Corte, è da ritenersi invece assorbita la doglianza formulata con riferimento all’art. 111 Cost.

 

5. Rilevata l’illegittimità di siffatta normativa rispetto ai parametri costituzionali indicati, la Corte prende in considerazione l’art. 35-bis ord. pen. quale “preciso punto di riferimento normativo, già rinvenibile nel sistema legislativo”, idoneo a sostituire la previsione dichiarata illegittima.

Tale norma, che disciplina il reclamo giurisdizionale, prevede al quarto comma la possibilità di impugnare dinanzi al Tribunale di sorveglianza il provvedimento emesso dal magistrato entro un termine di 15 giorni, decorrenti dalla comunicazione o notificazione dell’avviso di deposito della relativa decisione.

Secondo la Consulta, tale disposizione rappresenta un “preciso punto di riferimento già rinvenibile nel sistema legislativo”, da tenere in considerazione per colmare il vulnus riscontrato, seppur non costituisca l’unica soluzione costituzionalmente orientata. Proprio per tale ragione, la Corte ricorda che il legislatore è in ogni caso libero di individuare un nuovo e diverso termine rispetto ai 15 giorni.

 

6. In conclusione, dunque, alla luce delle ragioni esposte, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter co. 7, nella parte in cui prevede il termine di 24 ore per impugnare la decisione del magistrato di sorveglianza in materia di permessi premio, lasciando fermo il rinvio alla procedura di cui all’art. 30-bis ord. pen. per ogni altro e diverso profilo.

Oggi, quindi, il termine per impugnare tali provvedimenti è, tanto per l’interessato, quanto per il pubblico ministero, quello di 15 giorni.

 

7. Con questa decisione, la Corte costituzionale prende di fatto le distanze dal suo precedente orientamento, espresso nella sentenza n. 235/1996.

In quell’occasione, la questione di legittimità costituzionale riguardava nello specifico l’art. 30-bis co. 3 ord. pen. ed era stata sollevata in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 Cost.[8]. Pur avendo rilevato l’irragionevolezza della disciplina, la questione era stata dichiarata dalla Corte inammissibile per l’impossibilità di rinvenire, all’interno del sistema, una soluzione costituzionalmente obbligata.

Le ragioni per cui oggi la Corte si pronuncia diversamente sono principalmente due: la prima è la progressiva evoluzione della giurisprudenza costituzionale; la seconda l’introduzione di un significativo riferimento normativo.

 

8. Per quanto riguarda il primo aspetto, la sentenza in commento rappresenta a nostro avviso un esempio concreto di come, negli ultimi anni, la Corte costituzionale si sia progressivamente emancipata dalla sua prospettiva tradizionale di giudizio che, in ossequio ad una rigida lettura del principio di legalità, vedeva subordinato il suo intervento all’esistenza delle cd. rime obbligate, ovvero di quelle soluzioni che, discendendo direttamente dal testo della Costituzione, fossero in grado di colmare la lacuna incostituzionale, senza però andare ad intaccare la sfera di discrezionalità propria del legislatore[9].

Questo tipico atteggiamento di self restraint è stato mantenuto dalla Consulta almeno fino alla pronuncia n. 223 del 2015 – in cui è stata dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 co. 1 c.p. – ed è stato poi oggetto di profondo ripensamento a partire dalla sentenza n. 236 del 2016, in cui la Corte invece dichiarò illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., la pena prevista per il delitto di cui all’art. 567, secondo comma, rinunciando per la prima volta all’individuazione di un tertium comparationis, elemento quest’ultimo al quale in passato aveva subordinato l’ammissibilità di simili questioni di legittimità costituzionale[10].

Ulteriori esempi in materia di sindacato di proporzione sulle scelte sanzionatorie, che dimostrano questo mutato atteggiamento, sono la sentenza n. 222 del 2018, in cui è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 216, ultimo comma, l. fall.  per contrasto con gli artt. 3, 27 e 117 Cost.[11] e, ancora, la sentenza n. 40 del 2019, in cui è stato dichiarato illegittimo l’art. 73, co.1, T.U. stup. per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.[12].

L’analisi diacronica della giurisprudenza costituzionale consente di apprezzare un’evoluzione del suo schema di giudizio in cui l’intervento della Corte trova ora legittimazione nei casi in cui si verta in materia di diritti fondamentali, vi sia stato inoltre un suo precedente monito, espresso attraverso una pronuncia di inammissibilità o di rigetto, cui però non ha fatto seguito un adeguato e tempestivo intervento legislativo e, al contempo, siano rintracciabili all’interno del sistema, “precisi punti di riferimento” ovvero ulteriori “soluzioni già esistenti[13].  

In quest’ottica, allora, la discrezionalità del legislatore diviene per la Corte un limite relativo, superabile nel caso in cui la sua prolungata inerzia dia luogo ad una perdurante omissione incostituzionale, che, proprio in quanto tale, legittima la riproposizione della relativa questione di legittimità. Anche perché, se così non fosse, resterebbero estranee alla valutazione della Corte proprio quelle ipotesi di mancata attuazione della Costituzione e la possibilità di  porvi rimedio risulterebbe inevitabilmente limitata ai soli casi in cui vi sia stato un esercizio della funzione legislativa in contrasto con la Costituzione[14].

Tale dinamica è proprio quella che si è verificata nel caso oggetto della pronuncia in commento, poiché, come anticipato, l’eccessiva brevità del termine previsto per impugnare la decisione relativa alla richiesta di permesso premio era già stata portata all’attenzione della Corte nel 1996 e, in quell’occasione, pur dichiarando la questione inammissibile per la disomogeneità dei tertia comparationis indicati – ovvero gli artt. 14-ter ord. pen. e 585 c.p.p. – la Consulta non mancò di rilevare la contrarietà di siffatta disciplina rispetto alle norme costituzionali, sollecitando pertanto il legislatore ad intervenire sul punto, ipotesi che poi in effetti non si è verificata.

A questo punto, la Corte, investita nuovamente della questione, dopo aver preso atto della perdurante inattività legislativa, non poteva che porre rimedio a quella che era, fino a poco tempo fa, una disciplina irragionevole, che comportava una grave lesione del diritto di difesa e del principio di rieducazione del condannato.

 

9. L’ulteriore fondamentale ragione per cui la Corte è pervenuta in questa occasione alla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 30-ter co. 7 ord. pen. è, come accennato, l’esistenza di un significativo riferimento normativo.

La vera novità rispetto al passato è infatti rappresentata dal fatto che il sistema di tutele apprestato dall’ordinamento penitenziario si è nel frattempo evoluto con la piena giurisdizionalizzazione del procedimento di reclamo avverso gli atti dell’Amministrazione penitenziaria che siano lesivi dei diritti

Il reclamo giurisdizionale di cui all’art. 35-bis ord. pen.[15] si svolge, infatti, con alcune varianti, secondo il procedimento di sorveglianza di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p., unica procedura esecutiva conforme ai precetti costituzionali[16].  

Com’è noto, tale norma è stata introdotta  dall’art. 3 co. 1 lett. b) del d.l. 23 dicembre 2013 n. 146 Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”, convertito con modificazioni nella l. 21 febbraio 2014 n. 10, su impulso delle pressanti sollecitazioni provenienti dalla Corte EDU[17], per porre rimedio alla prolungata assenza di un effettivo rimedio giurisdizionale di carattere generale, a tutela dei diritti dei detenuti. Ed infatti, come affermato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 26 del 1999[18], quest’ultimo non poteva, infatti, essere identificato con il reclamo di cui all’art. 35 ord. pen., nel quale sono assenti i requisiti minimi della giurisdizione, né nel procedimento in materia di sorveglianza speciale previsto dall’art. 14-ter ord. pen., che nemmeno prevede la partecipazione dell’interessato.

Ora, come spiega la stessa Corte costituzionale la disciplina dell’art. 35-bis, che disciplina in via generale il controllo giurisdizionale su tutte le decisioni che incidono sui diritti del detenuto, ed in particolare il suo co. 4  – che prevede il termine di quindici giorni per il reclamo innanzi al Tribunale di sorveglianza – costituisce una soluzione già esistente nel sistema che si presta naturalmente a essere estesa al reclamo avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza concernenti i permessi premio, da presentare parimenti al tribunale di sorveglianza”.

 

10. Infine, la problematicità della previsione di un termine così ridotto per impugnare la decisione relativa ad uno strumento di importanza decisiva nell’ottica di un’esecuzione progressiva della pena è emersa ancor di più dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019, che, com’è noto, ha aperto alla possibilità per i detenuti per delitti di cui all’art. 4-bis ord. pen. di ottenere i permessi premio qualora provino l’assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e il rischio di un loro ripristino. 

Prima dell’intervento della sentenza in commento, infatti, un detenuto per reati di cui al 4-bis ord. pen. che voleva fruire di un permesso premio doveva non solo provare gli elementi a sostegno dell’istanza – ovvero, esclusione sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di un loro ripristino – ma, in caso di rigetto, avrebbe avuto solo 24 ore di tempo per impugnare la relativa decisione[19].

Su tale aspetto si era, del resto, concentrata anche l’attenzione della Commissione parlamentare Antimafia, che nella sua ultima Relazione, approvata il 20 maggio 2020, ha sottolineato l’opportunità che il legislatore intervenisse quanto prima su tale termine, ritenuto talmente esiguo da non garantire né l’esercizio effettivo del diritto di difesa da parte del  condannato né le esigenze di natura special-preventive in caso di reclamo da parte del pubblico ministero[20].

In conclusione, quindi, a fronte dell’inerzia legislativa, la sentenza n. 113 del 2020 segna una tappa fondamentale per quel che riguarda l’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti delle persone detenute.

 

 

[1] Nella sentenza n. 253/1996 la questione di legittimità costituzionale riguardava nello specifico l’art. 30-bis co.3 ord. pen. ed era stata sollevata in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 Cost.  Erano stati individuati, quali tertia comparationis, l’art. 585 c.p.p. (che stabilisce un termine per l’impugnazione non inferiore a 15 giorni) e l’art. 14-ter ord. pen.  (che contempla invece un termine di 10 giorni). Pur avendo rilevato l’irragionevolezza della disciplina, la questione era stata dichiarata dalla Corte inammissibile per mancanza di una soluzione costituzionalmente obbligata.

[2] L’istituto dei permessi – seppur classificato come “visite ai familiari” − trovò una prima regolamentazione nel d.d.l. approvato al Senato 10 marzo 1971, poi successivamente decaduto, il quale prevedeva che il magistrato di sorveglianza potesse concedere al condannato o imputato un permesso per potersi recare a visitare un familiare che si trovasse in “imminente pericolo di vita”. Il Senato approvò successivamente il d.d.l. 18 dicembre 1973, il quale prevedeva tre tipi di permesso: permessi concedibili “nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o convivente; permessi “per gravi e accertati motivi”; permessi espressamente definiti come speciali e concedibili ai detenuti che avessero tenuto “regolare condotta, anche al fine di mantenere le loro relazioni umane”. Il d.d.l. passò alla Camera e all’interno della Commissione giustizia si sviluppò un ampio dibattito in merito alla ritenuta incompatibilità tra il meccanismo dei permessi speciali e un sistema detentivo con un’impronta ancora rigidamente custodialista. Erano, inoltre, molto forti le preoccupazioni per le conseguenze che si sarebbero potute generare in termini di ordine pubblico. Si decise, dunque, di eliminare la previsione ed attendere i risultati dell’attuazione dei permessi dei primi due tipi, contemplati nel testo approvato alla Camera nel 1974. Il testo, così emendato, fu poi definitivamente approvato al Senato e divenne la legge 26 luglio 1975 n. 354. A distanza di poco tempo dall’introduzione dei permessi si generarono i primi allarmismi, ritenendo, in particolare, che a causa dei permessi fosse aumentato il numero di evasioni e il tasso di criminalità (nonostante un’indagine conoscitiva del Consiglio superiore della magistratura mettesse in luce che la percentuale dei permessi infruttuosamente concessi dovesse ritenersi normale). Non si può negare, in ogni caso, l’uso considerevole che si fece dei permessi da parte della magistratura di sorveglianza, soprattutto di quelli del secondo tipo. In tale clima, intervenne il legislatore, una prima volta con la l. 12 gennaio 1977 n. 1 (la quale modificava la competenza a concedere il permesso) e, successivamente, con la l. 20 luglio 1977 n. 450. Con tale secondo intervento si restrinse l’ambito applicativo dei permessi del secondo tipo, prevedendo inoltre la scorta e un particolare procedimento per la concessione. Tale intervento ebbe l’effetto di trasformare l’istituto del permesso da strumento del trattamento a rimedio eccezionale per singoli episodi. Il tema dei permessi è successivamente tornato all’attenzione del legislatore e ha trovato compiuta attuazione con quella che può essere definita “la seconda legge di riforma dell’ordinamento penitenziario”, ovvero la legge 10 ottobre 1986 n. 663. Cfr. L. Tampieri, I permessi premio e le norme in materia di permessi e licenze, in G. Flora (a cura di), Le nuove norme sull’ordinamento penitenziario, L. 10 ottobre 1986 n. 663, Giuffrè ed., Milano, 1987, pag. 136 ss.

[3] Il procedimento di concessione del beneficio è stato inserito all’art. 30-bis ord. pen. dalla legge 20 luglio 1977 n. 450.

[4] Cfr. par. 6 del considerato in diritto sentenza C. Cost. n. 235/1996.

[5] “Il permesso-premio, infatti , costituisce incentivo alla collaborazione del detenuto con l'istituzione carceraria, appunto in funzione del premio previsto, in assenza di particolare pericolosità sociale, quale conseguenza di regolare condotta (ex art. 30-ter, ottavo comma, della legge penitenziaria) ed insieme strumento, esso stesso, di rieducazione, in quanto consente un iniziale reinserimento del condannato nella società. Il permesso- premio qui in discussione, oltre a consentire al condannato di coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro, costituisce parte integrante del trattamento rieducativo, ai sensi dell'espresso disposto del terzo comma dell'art. 30-ter della legge penitenziaria; lo stesso permesso (che pertanto autorizza anche - attraverso l'osservazione, da parte degli operatori penitenziari, degli effetti sul condannato dell'esperienza del temporaneo ritorno alla libertà - a trarre utili elementi per l'eventuale concessione di misure alternative alla detenzione e, comunque, per l'ulteriore prosecuzione della pena detentiva) chiarisce la perfetta compatibilità tra misure premiali e finalità rieducative dell'esecuzione penale, così ribadendo, fra l'altro, quel che, da tempo, è ben noto alla pedagogia generale e cioè la potente molla rieducativa che ogni premio, qualsiasi sanzione positiva, ha sull'educando almeno alla pari delle sanzioni negative”. Cfr. par. 2 del considerato in diritto sentenza C. Cost. n. 188/1990.

[6] Per le diverse posizioni dottrinali sulla natura dei permessi premio, si rinvia a F. Fiorentin, Art. 30-ter ord. pen., in Ordinamento penitenziario commentato, F. Della Casa (a cura di), Cedam, 2019, pag. 421.

[7] Sono da annoverare le sentenze C. Cost. n. 227 del 1995; C. Cost. n. 504 del 1995; n. 445 del 1997; n. 257 del 2006 e, da ultimo, la sentenza n. 253 del 2019.

[8] Venivano individuati, quali tertia comparationis, l’art. 585 c.p.p. (che stabilisce un termine per l’impugnazione non inferiore a 15 giorni) e l’art. 14-ter ord. pen.  (che contempla invece un termine di 10 giorni).

[9] M. Ruotolo, L’evoluzione delle tecniche decisorie della Corte costituzionale nel giudizio in via incidentale. Per un inquadramento dell’ord. n. 207 del 2018 in un nuovo contesto giurisprudenziale, in Rivista AIC n. 2/2019, 26 giugno 2019, pag.  649.

[10] Cfr., sul punto, F. Viganò, Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2/2017, pag. 61.

[11] In tal caso il precedente monito inascoltato era contenuto nella sentenza n. 134 del 2012. Cfr., sul punto, A. Galluccio, La sentenza della Consulta su pene fisse e rime obbligate: costituzionalmente illegittime le pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta, in Dir. pen. cont., 10 dicembre 2018.

[12] In tal caso il precedente monito inascoltato era contenuto nella sentenza n. 179 del 2017. Cfr., sul punto, C. Bray, Stupefacenti: la Corte costituzionale dichiara sproporzionata la pena minima di otto anni di reclusione per i fatti di non lieve entità aventi a oggetto le droghe pesanti, in Dir. pen. cont., 18 marzo 2019.

[13] Per un’esemplificazione dell’evoluzione dello schema di giudizio della Corte costituzionale, si rinvia a M. Ruotolo, L’evoluzione delle tecniche decisorie della Corte costituzionale nel giudizio in via incidentale, cit., pag.  653. L’A. osserva come “ le “rime obbligate” giustificano un intervento “immediato” della Corte, ove realmente la lacuna incostituzionale possa da subito essere colmata senza invadere la sfera di discrezionalità del legislatore; al contempo, le “rime obbligate” impediscono alla Corte di intervenire subito, ove l’intervento legislativo si riveli indispensabile nella scelta delle diverse opzioni per colmare la lacuna incostituzionale; ma, in quest’ultimo caso – ed è qui la novità –, le “rime obbligate” non possono impedire alla Corte di intervenire sia pure in “seconda battuta”, ove la questione torni alla sua attenzione a seguito di monito già rivolto al legislatore affinché questi eserciti la sua discrezionalità, trovando una soluzione conforme a Costituzione per rimediare alla già rilevata lacuna. Ciò, in particolare, ove si verta in materia di diritti fondamentali”.

[14] Cfr. M. Ruotolo, L’evoluzione delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, cit., pag. 664.

[15] Secondo quanto disposto dall’art. 69 co. 6 ord. pen., il detenuto può sottoporre alla valutazione del magistrato di sorveglianza, che provvede a norma del 35-bis, le questioni relative all’esercizio del potere disciplinare (lett. a), ovvero all’inosservanza, da parte dell’amministrazione penitenziaria, di disposizioni previste dalla legge di ordinamento penitenziario, dalle quali derivi al detenuto un grave e attuale pregiudizio all’esercizio dei suoi diritti (lett. b). In caso di accoglimento del reclamo, qualora il detenuto abbia lamentato un pregiudizio dei suoi diritti a causa di un provvedimento disciplinare, il magistrato di sorveglianza potrà disporre l’annullamento del provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare; se, invece, le doglianze riguardano un comportamento dell’amministrazione penitenziaria il magistrato può ordinare a quest’ultima di porre rimedio, rimuovendo l’atto lesivo, entro un determinato termine indicato dal giudice stesso. Contro la decisione del magistrato di sorveglianza può essere proposto reclamo al Tribunale di sorveglianza nel termine di 15 giorni dalla data di notifica o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa. La decisione del Tribunale è ricorribile per cassazione per violazione di legge entro il medesimo termine di 15 giorni. In caso di mancata esecuzione del provvedimento non più soggetto ad impugnazione l’interessato o il difensore possono chiedere l’ottemperanza al magistrato di sorveglianza che ha emesso il provvedimento e il relativo procedimento si svolgerà secondo lo stesso schema procedimentale previsto per il reclamo, in base agli artt. 666 e 678 c.p.p.  Cfr. M. Bortolato, Art. 35-bis ord. pen., Ordinamento penitenziario commentato, F. Della Casa (a cura di), Cedam, 2019, pag. 461 ss.

[16] M. Ruaro, Art. 678 c.p.p., in Ordinamento penitenziario commentato, F. Della Casa (a cura di), Cedam, 2019, pag. 1009 ss.

[17] Si segnalano, in ordine di tempo, la sent. 15 novembre 1996, Diana e Dominichini c. Italia; sent. 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia; sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia.

[18] Con la sentenza n. 26 del 1999, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità degli artt. 35 e 69 ord. pen. “nella parte in cui essi non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale”.

[20] Cfr. pag. 36 della Relazione. Per un approfondimento dei suoi contenuti sia consentito rinviare a C. Cataneo, La Relazione della Commissione Antimafia sull’istituto di cui all’articolo 4-bis ord. pen. e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, in questa Rivista, 18 giugno 2020.  Deve osservarsi, d’altra parte, che la necessità di un ripensamento della procedura di reclamo avverso le decisioni in materia di permessi premio poteva trarsi anche dalla recente introduzione, ad opera del d.lgs n. 123/2018, di una procedura semplificata per l’accesso alle misure alternative dall’esterno, in presenza di determinati presupposti (istanza presentata ab externo; pena detentiva da espiare non superiore ad 1 anno e 6 mesi): l’art. 678 co. 1-ter c.p.p. prevede, non diversamente dalla richiesta di permesso premio, una prima fase dinanzi al magistrato di sorveglianza in assenza di contraddittorio, che viene poi recuperato con la possibilità di proporre opposizione al Tribunale di sorveglianza nel termine di 10 giorni. Quel che si vuole in questa sede sottolineare è la scelta legislativa di assegnare un termine più lungo, di 10 giorni, (contro le 24 ore previste in origine dal 30-ter per impugnare la decisione del magistrato di sorveglianza sulla richiesta di permesso premio), pur trattandosi di un semplice atto di opposizione, ovvero un mera richiesta di devoluzione al collegio, la cui ammissibilità non è pertanto subordinata alla presentazione di specifici motivi (a differenza di ciò che accade con il reclamo avverso i provvedimenti in materia di permessi premio). Si veda, sul punto, M. Ruaro, Art. 678 c.p.p., cit., pag. 1017 ss.