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28 Maggio 2021


Patrocinio a spese dell’Erario, a prescindere dalle condizioni di reddito, per le persone offese (tra l’altro) dai reati di violenza di genere: la Corte costituzionale ne ribadisce la ragionevolezza

Corte cost., sent. 11 gennaio 2021, n. 1, Pres. red. Coraggio



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1. Nella sentenza qui pubblicata la Corte costituzionale dichiara l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24, terzo comma, Cost., dell’art. 76, comma 4-ter, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nella parte in cui prevede – a prescindere da limiti di reddito – l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa dai reati di cui agli artt. 572, 583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis c.p.[1], nonché, ove commessi in danno di minori, di quelli di cui agli artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies del codice penale.

 

2. La questione viene sollevata nell’ambito di un procedimento per violenza sessuale nei confronti di una donna adulta (art. 609-bis c.p.) dal G.i.p. di Tivoli, il quale ritiene che la disposizione sia in contrasto con l’art. 3 Cost., poiché introduce un automatismo[2] di ammissione al patrocinio a spese dello Stato che, nell’eliminare qualsiasi spazio di discrezionalità del giudice, disciplina in modo identico situazioni del tutto eterogenee sotto il profilo economico. Ad essere violato sarebbe anche l’art. 24, terzo comma, Cost., poiché l’ammissione indiscriminata al beneficio di qualsiasi persona offesa da uno dei reati indicati porta a includere anche soggetti di eccezionali capacità economiche, a discapito della necessaria salvaguardia dell’equilibrio dei conti pubblici e di contenimento della spesa in tema di giustizia.

 

3. Secondo la Corte, tuttavia, la disposizione censurata non lede il principio di uguaglianza poiché si giustifica in ragione della «vulnerabilità delle vittime dei reati indicati» e delle «esigenze di garantire al massimo il venire alla luce di tali reati» (par. 5 del considerato in diritto). In tal senso, la Corte ritiene ragionevole e non arbitraria la scelta legislativa (l. n. 38 del 2009 e n. 119 del 2013) di offrire alla persona offesa vulnerabile – come già avviene, ad esempio, per il minore straniero non accompagnato (art. 76, c. 4-quater) – un concreto sostegno, per «incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità»[3].

La Corte verifica, inoltre, il fondamento empirico-fattuale dell’automatismo: la previsione del patrocinio a spese dello Stato «non è legat[a] ad una presunzione di non abbienza delle persone offese dai reati indicati dalla norma censurata e ha tutt’altre ragioni», che trovano un solido riscontro in «significativi dati di esperienza e innumerevoli studi vittimologici». Con riguardo, infine, all’art. 24, c. 3 Cost., la Corte ha buon gioco nell’evidenziare che questo parametro costituzionale, nel sancire esclusivamente l’effettività del diritto di difesa ai non abbienti, non può essere inteso come una preclusione per il legislatore «di prevedere strumenti per assicurare l’accesso alla giustizia, pur in difetto della situazione di non abbienza, a presidio di altri valori costituzionalmente rilevanti, come quelli in esame».

 

4. Questa pronuncia della Corte va certamente accolta con favore. Che il patrocinio a spese dello Stato possa essere concesso a prescindere dalla situazione reddituale non è certamente una novità che deriva dall’introduzione, nel 2009, del comma 4-ter nell’art. 76 del d.P.R. 115/2002.

Oltre all’esempio citato dalla Corte, relativo al minore straniero non accompagnato[4], vale la pena citare l’art. 10 della l. n. 206 del 2004, che riguarda le vittime di atti di terrorismo e delle stragi di tale matrice o dei superstiti. Si tratta di eccezioni alla regola generale di accesso al patrocinio gratuito su base reddituale che sembrano tutt’altro che irragionevoli. Al pari del patrocinio a carico dello Stato per le persone non abbienti, tali previsioni trovano fondamento nell’art. 3, comma 2, Cost. perché mirano a soddisfare esigenze di giustizia sostanziale, facendo fronte a difficoltà di carattere sociale[5] nell’accesso alla giustizia.

 

5. Benché la disciplina derogatoria si applichi a tutte le persone offese dei reati indicati, un significato particolare essa assume per le vittime di violenza di genere, che costituisce già di per sé un fenomeno discriminatorio, sia perché colpisce le donne in modo sproporzionato, sia perché impedisce alle donne il pieno godimento dei loro diritti: in questo senso, molto chiaramente si è pronunciata la Corte Europea dei diritti dell’uomo[6], richiamando espressamente la CEDAW (Convention on the Elimination of all forms of Discrimination Against Women), che tra l’altro sollecita gli Stati a prevedere azioni positive per ristabilire l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne (art. 4). In questa stessa prospettiva la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne (c.d. Convenzione di Istanbul), all’art. 4, stabilisce che le «misure necessarie per prevenire la violenza e proteggere le donne contro la violenza di genere non saranno considerate discriminatorie ai sensi della presente Convenzione».

Sul piano specifico dell’accesso alla giustizia da parte delle donne vittime della violenza maschile, pare poi opportuno ricordare che la Corte di Strasburgo, nel caso Talpis c. Italia (sentenza del 2 marzo 2017), ha condannato il nostro Paese per la violazione non solo degli artt. 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione, ma anche dell’art. 14 (divieto di discriminazione). La sentenza si esprime in modo molto critico nei confronti delle autorità giudiziarie italiane, per l’inerzia e l’incapacità di riconoscere e quindi affrontare adeguatamente il fenomeno della violenza maschile sulle donne; e proprio in ragione della criticità della situazione riscontrata, l’esecuzione della sentenza è stata sottoposta alla procedura rafforzata, che permane tuttora[7].

 

6. Vi è un altro aspetto che merita di essere messo in rilievo. La scelta legislativa oggetto del sindacato della Corte deve essere considerata nella sua finalità di offrire alla persona offesa vulnerabile non solo un sostegno per «incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità» – come si ricorda nella sentenza –, ma anche e soprattutto l’assistenza di un professionista, che in questi casi risulta di estrema importanza durante l’intero corso del procedimento penale. In realtà, è solo dopo la scelta di denunciare – spesso sofferta e maturata in un lungo lasso di tempo – che la persona offesa di quegli specifici reati ha necessità di un supporto tecnico, che le spieghi quali sono i suoi diritti, quali sono le possibili scelte difensive e come funziona il sistema penale. E ciò, a maggior ragione, dopo la Direttiva 2012/29/UE che, oltre a dedicare particolare attenzione alle vittime di «[…] violenza di genere, violenza nelle relazioni strette, violenza o sfruttamento sessuale o basati sull’odio e le vittime con disabilità» (art. 22), garantisce loro un catalogo ampio di diritti nell’ambito del procedimento penale, che fanno ormai parte anche del nostro ordinamento[8].

È qui che il patrocinio a spese dell’Erario assume un ruolo determinante, nel permettere alla persona offesa di esercitare concretamente ed effettivamente i diritti ad essa riconosciuti nel processo penale e nel prevenire quel fenomeno di vittimizzazione secondaria, che come è noto costituisce l’ostacolo principale nel percorso di uscita dalla violenza. Non è, dunque, un caso che la Convenzione di Istanbul abbia espressamente dedicato una disposizione (l’art. 57) all’accesso al patrocinio non oneroso per le donne vittime di violenza.

 

7. Un’ultima considerazione. Desta particolare perplessità la prospettiva assunta dal giudice rimettente nel sollevare la questione di legittimità: quest’ultima non è volta ad ampliare l’ambito di applicazione del beneficio, lamentandosi l’irragionevole esclusione di una fattispecie incriminatrice dal catalogo dei reati per i quali la persona offesa può accedere al patrocinio a spese dello Stato senza limiti di reddito; al contrario, si chiede alla Corte di restringere il novero dei destinatari del beneficio, per assicurare un’uguaglianza in malam partem. In altre parole, il dubbio di incostituzionalità non riguarda la mancata attuazione del programma costituzionale da parte del legislatore, bensì una disciplina di favore adottata dal legislatore per (innegabili ed evidenti) esigenze di giustizia sostanziale, come la Corte ha facilmente ricordato. Ma vi è di più: pare davvero discutibile la scelta del giudice rimettente di mettere a confronto la tutela delle vittime vulnerabili nel sistema di giustizia penale con la necessità di contenimento della spesa statale. Potrebbe trattarsi di un mero argomento strumentale alla rimozione di un limite alla discrezionalità del giudice, ma rimane il dubbio che la questione nasconda invece una manifestazione di insofferenza per il mutato ruolo della persona offesa (o, più in particolare, di una certa categoria di vittime) e la loro rappresentanza nel procedimento penale.

 

 

[1] Si tratta dei reati tipici della violenza contro le donne e domestica. Sarebbe peraltro stato opportuno aggiungere a questo elenco il nuovo delitto di costrizione o induzione al matrimonio, introdotto all’art. 558-bis c.p. con la l. 69/2019.

[2] Secondo la giurisprudenza di legittimità, il giudice deve limitarsi ad accertare che l’istanza sia stata presentata dalla persona offesa da uno dei reati di cui alla norma. In questo senso l’applicazione della norma ha carattere automatico, in base a un’interpretazione giurisprudenziale che, tuttavia, non sembra possa avere alternative: Cass., 15 febbraio 2017, n. 13497; nello stesso senso Cass., 10 ottobre 2018, n. 52822, entrambe reperibili in www.iusexplorer.it.

[3] Per una ricostruzione più approfondita delle modifiche legislative, anche a fronte dell’impulso derivante dalle fonti sovranazionali, e dei dubbi di legittimità sollevati durante l’iter parlamentare v. A. Gerosa, Il patrocinio a spese dello Stato per le vittime vulnerabili: un istituto soltanto di diritto processuale? Osservazioni alla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2021, in AIC, 6 aprile 2021, p. 259 ss.

[4] Questa disposizione è stata peraltro oggetto di un’analoga questione di legittimità costituzionale che è stata dichiarata manifestamente infondata (ord. n. 439 del 2004),

[5] In tal senso anche A. Gerosa, op. cit., p. 265 s. Questo aspetto, come accaduto in altri casi, non viene esplicitato nelle motivazioni della Corte costituzionale: G. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale, Milano, 2012, p. 47 ss. e 83 ss.

[6] V. Corte EDU, 9 luglio 2019, Volodina v. Russia.

[7] Lo stato della procedura rafforzata nel caso Talpis è consultabile in www.coe.int.

[8] Cfr. G. Almansi, Commento alla sentenza n. 1/2021 della Corte costituzionale. Il gratuito patrocinio in assenza di limiti di reddito della donna non è incostituzionale, in Osservatorio Violenza sulle Donne, 11 marzo 2021, p. 4.