Corte cost., sent. 25 gennaio 2022, n. 20 (ud. 30 novembre 2021), Pres. Coraggio, Red. Zanon
Per leggere la sentenza, clicca qui.
1. Con sentenza depositata il 25 gennaio 2022, la Corte costituzionale ha rigettato due questioni di legittimità sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Padova in relazione all’art. 4-bis c. 1-bis ord. pen., norma che disciplina la concessione dei benefici penitenziari ai soggetti che, detenuti o internati a seguito di condanna per uno o più reati c.d. ostativi, si trovino nell’impossibilità oggettiva di collaborare utilmente con la giustizia.
Tale previsione è stata interessata dalle censure del giudice a quo nella parte in cui subordina la possibilità di accedere ai permessi premio per i detenuti per reati ostativi la cui collaborazione sia ritenuta impossibile o inesigibile all’acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva»; più precisamente, al giudice delle leggi è stato chiesto di valutare la compatibilità con gli artt. 3 e 27 c. 3 Cost. del “doppio binario probatorio” che, secondo il diritto vivente, si è venuto a creare a seguito della sentenza della Corte cost. n. 253 del 2019, la quale ha sottoposto la valutazione dell’ammissibilità dell’istanza di permesso premio proveniente da un soggetto non collaborante “per scelta” a uno standard probatorio più rigoroso di quello previsto per il non collaborante “impossibilitato” dal citato comma 1-bis.
2. Sembra opportuno, nel prendere in esame la decisione in commento, muovere proprio dalla richiamata sentenza n. 253 del 2019.
Come noto, con tale pronuncia – giustamente oggetto di ampie attenzioni in dottrina[1] – la Corte costituzionale ha per la prima volta messo in discussione la legittimità della preclusione all’accesso ai benefici penitenziari stabilita per gli autori di “reati ostativi” dall’art. 4-bis c.1 ord. pen., riconoscendone il contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. nella parte in cui fondava il divieto di concessione dei permessi premio al condannato non collaborante su una presunzione di pericolosità assoluta (e non relativa). In particolare, la disciplina di cui al primo comma dell’art. 4-bis è stata dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non ammetteva la concessione dei permessi premio, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti».
Come già i primi commentatori non hanno mancato di sottolineare, l’intervento della Consulta, pur se specificamente calibrato sull’accesso all’istituto dei permessi premio di cui all’art. 30-ter ord. pen., ha gettato le basi per una generale rivisitazione del sistema dell’ostatività penitenziaria, operazione oggi non più eludibile a seguito di quanto ulteriormente sancito dal giudice delle leggi con l’ordinanza n. 97 del 2021[2]: chiamata a esprimersi nuovamente sulla compatibilità costituzionale della presunzione assoluta di pericolosità di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen., stavolta con riferimento alla preclusione ad accedere all’istituto della liberazione condizionale, la Corte ha infatti concesso al Parlamento un anno di tempo per procedere a una complessiva e ponderata riforma della materia, volta a rimuovere i profili di incompatibilità costituzionale della normativa attualmente vigente[3].
3. In questo contesto, un ulteriore problema che si è posto agli interpreti chiamati a confrontarsi con la valenza sistematica della sentenza n. 253 del 2019 attiene ai rapporti tra l’intervento manipolativo della Consulta e la disciplina della collaborazione impossibile, inesigibile o irrilevante contenuta nel comma 1-bis del medesimo art. 4-bis.
La funzione svolta da ultima previsione, in effetti, sembrerebbe essere proprio quella di consentire una deroga alla rigida preclusione stabilita dal precedente comma 1 in quei casi in cui una collaborazione effettiva del condannato ai sensi dell’art. 58-ter ord. pen. – o dell’art. 323-bis c. 2 c.p. per i delitti contro la pubblica amministrazione recentemente inseriti nel catalogo dei reati ostativi – debba ritenersi inesigibile (a causa della limitata partecipazione del detenuto al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna), impossibile (a causa dell’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, già operato con sentenza irrevocabile), oppure irrilevante (nei casi in cui nei confronti del soggetto sia stata applicata una delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62 n. 6, 114 ovvero 116 c. 2 c.p.). Nello specifico, fu lo stesso d.l. 306/92 che introdusse all’interno dell’art. 4-bis c. 1 la presunzione assoluta di pericolosità del detenuto non collaborante a stabilire, contestualmente, che tale disciplina non dovesse trovare applicazione nei casi di collaborazione “irrilevante”, ammettendo l’accesso ai benefici penitenziari in quest’ipotesi a condizione che fossero acquisiti «elementi tali da escludere in maniera certa l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata»[4]; il riferimento alla collaborazione inesigibile e impossibile si deve, invece, alla Corte costituzionale, che con le pronunce n. 357 del 1994 e n. 68 del 1995 ritenne necessario estendere il novero delle ipotesi equiparate alla collaborazione utile, sottratte dall’applicazione della preclusione assoluta sancita dall’art. 4-bis c. 1: indicazioni poi recepite dallo stesso legislatore, nel 2002, e da ultimo confluite nell’attuale comma 1-bis.
Tenuto conto di questa specifica funzione, l’intervento della Consulta nel 2019 ha, in un primo momento, indotto taluni interpreti a dubitare della persistente applicabilità della disciplina in esame. La stessa Corte di legittimità, invero, con alcune pronunce di poco successive alla declaratoria di illegittimità costituzionale si è inizialmente pronunciata per la sostanziale “abrogazione tacita” del comma 1-bis da parte dalla pronuncia manipolativa del giudice delle leggi, sostenendo che quest’ultima, attribuendo alla presunzione di pericolosità del non collaborante carattere relativo, aveva fatto venir meno lo stesso interesse del detenuto a chiedere l’accertamento dell’impossibilità della collaborazione (ciò, tuttavia, solo con riferimento alle istanze di accesso ai permessi premio di cui all’art. 30-ter, mentre la disciplina della collaborazione impossibile continuava a operare in sede di concessione degli altri benefici)[5].
Tale lettura conduceva a una rilevante conseguenza sul piano pratico: in assenza di collaborazione con la giustizia, all’istanza di concessione di permessi premio presentata da un detenuto per reati ostativi sarebbe stato sempre e comunque applicabile – tanto nei casi di mancata collaborazione volontaria, quanto nei casi di collaborazione impossibile o irrilevante – il “regime probatorio rafforzato” elaborato dalla sentenza n. 253 del 2019, in base al quale sul condannato che chiede di accedere al beneficio grava l’onere di allegare specifici elementi volti a escludere non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, come richiesto anche dalla previsione di cui al comma 1-bis, ma altresì il pericolo di un loro ripristino[6].
Questo orientamento è stato nondimeno superato da più recenti arresti della Suprema Corte: a partire dalla sentenza della Cassazione n. 5553 del 2020, difatti, presso la giurisprudenza di legittimità si è consolidata un’interpretazione volta a riconoscere alla previsione di cui al comma 1-bis dell’art. 4-bis perdurante «portata precettiva concreta», evidenziando come la pronuncia n. 253 del 2019 non avrebbe in alcun modo interessato la disciplina della collaborazione impossibile o irrilevante[7]; si è così sostenuto che alla (parziale) differenza dello standard probatorio richiesto dalle due diverse discipline corrisponderebbe una «percepibile differenza ontologica» tra la posizione di chi «oggettivamente può, ma soggettivamente non vuole” (silente per sua scelta)» e quella di chi «“soggettivamente vuole, ma oggettivamente non può” (silente suo malgrado)»[8].
4. Nel quadro così ricostruito si inserisce, da ultimo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis c. 1-bis ord. pen. sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Padova con ordinanza del 12 aprile 2021.
Il presupposto logico da cui muove il giudice rimettente è che l’interpretazione secondo cui la sentenza n. 253 del 2019 avrebbe determinato l’«abrogazione implicita in parte qua delle disposizioni in tema di collaborazione impossibile o inesigibile» sia quella maggiormente conforme alla ratio e al tenore del principio di diritto elaborato dal giudice delle leggi; preso atto, tuttavia, di come l’interpretazione opposta sia ormai divenuta “diritto vivente” presso la Corte di legittimità, il giudice a quo ritiene necessario sollecitare l’attenzione della Consulta sull’esistenza di profili di illegittimità costituzionale della stessa disciplina di cui al citato comma 1-bis, nella parte in cui determina l’applicazione di un regime di valutazione della pericolosità dei condannati per reati ostativi diverso da quello considerato necessario dalla stessa Corte costituzionale.
In altri termini, il bersaglio delle censure di costituzionalità è rappresentato dallo stesso “doppio binario probatorio” che, secondo il “diritto vivente”, distingue le ipotesi di mancata collaborazione “per scelta” da quelle di collaborazione “impossibile”.
4.1. Anzitutto, sostiene il giudice a quo, il trattamento differenziato previsto dall’art. 4-bis c. 1-bis sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. in quanto privo di adeguata giustificazione razionale. Non vi sarebbe infatti ragione per escludere il condannato che si trovi in una situazione di collaborazione impossibile dal più rigoroso regime probatorio delineato dalla Corte costituzionale, atteso che l’atteggiamento soggettivo di chi non possa collaborare può ben essere equivalente a quello di chi non voglia collaborare; detto altrimenti, l’impossibilità o inesigibilità della collaborazione non incide in alcun modo sul profilo della pericolosità concreta del condannato per reati ostativi: rispetto ai condannati che “se anche avessero potuto non avrebbero collaborato” emergerebbe dunque la medesima esigenza di un accertamento rigoroso dell’assenza di collegamenti tanto attuali quanto potenziali con la criminalità organizzata che la Corte costituzionale ha rinvenuto con riferimento ai soggetti che “pur potendo non collaborino”, non evincendosi alcuna reale “differenza ontologica” tra le due situazioni[9].
4.2. In secondo luogo, a giudizio del rimettente la mancata attribuzione al magistrato di sorveglianza del potere di svolgere una prognosi circa la possibilità di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata determinerebbe altresì una violazione dell’art. 27 c. 3 Cost. con riferimento al principio di individualizzazione della pena nella fase esecutiva, che impone che il giudice possa valutare pienamente e in concreto la personalità del condannato.
5. Sulla base di queste considerazioni, il Magistrato di sorveglianza di Padova sollecita una pronuncia manipolativa del richiamato comma 1-bis che conduca ad applicare anche in caso di collaborazione impossibile o inesigibile il più rigoroso standard probatorio coniato dalla Corte cost. n. 253 del 2019.
Trattandosi, all’evidenza, di intervento suscettibile di produrre effetti in malam partem nei confronti del condannato che si trovi in tali situazioni, la Consulta è stata anzitutto chiamata a valutare l’ammissibilità delle questioni alla luce del principio di riserva di legge, che – salvo limitate eccezioni – preclude al giudice delle leggi di incidere in peius sulla norma penale.
Nell’affrontare tale questione preliminare, la Corte si pone in linea con la prevalente giurisprudenza di legittimità, rintracciando nella sentenza n. 253 del 2019 la volontà di introdurre uno standard probatorio più elevato rispetto a quello previsto dalla disciplina del comma 1-bis[10]; il giudice delle leggi, pertanto, non nega che un’eventuale pronuncia di accoglimento produrrebbe degli effetti sfavorevoli per il condannato la cui collaborazione debba ritenersi impossibile o inesigibile, ma rileva che un simile esito di per sé non creerebbe alcun contrasto con il principio di riserva di legge di cui all’art. 25 c. 2 Cost., il quale non opera con riferimento alla disciplina dei benefici penitenziari.
Viene così ribadito che, nonostante i recenti arresti con cui la giurisprudenza costituzionale ha aperto alla possibilità di attribuire (a determinate condizioni) carattere sostanziale a norme dell’ordinamento penitenziario[11], resta valida la regola generale secondo cui la disciplina dell’esecuzione della pena ha carattere processuale, e così, in particolare, la disciplina dei permessi premio.
6. Come si anticipava, nessuna delle questioni formulate dal Magistrato di sorveglianza di Padova ha trovato accoglimento da parte della Consulta.
6.1. In primo luogo, la censura fondata sull’art. 27 c. 3 Cost. viene reputata dalla Corte inammissibile, in quanto «oscura e apodittica, oltre che intrinsecamente contraddittoria».
Viene sottolineato, in particolare, che l’argomentazione del giudice a quo sembra tralasciare il fatto che, anche in presenza dei requisiti previsti dal comma 1-bis, il magistrato di sorveglianza non può comunque esimersi dallo svolgere un’effettiva valutazione in concreto della pericolosità sociale del richiedente, la quale costituisce un passaggio imprescindibile per la concessione dei permessi premio ai sensi dell’art. 30-ter ord. pen.
6.2. La questione relativa all’art. 3 Cost. viene invece dichiarata infondata nel merito; a giudizio della Corte costituzionale, infatti, deve ritenersi non irragionevole un trattamento differenziato – sotto il profilo degli oneri di allegazione – del condannato per reati ostativi che si trovi nella impossibilità di collaborare con la giustizia rispetto al condannato che, invece, possa collaborare ma decida di non farlo.
Nel motivare tale conclusione, la Consulta evidenzia la scorrettezza della prospettiva adottata dal giudice a quo, sottolineando che «il peso degli oneri dimostrativi da addossare al richiedente il permesso premio non può decisivamente basarsi sul suo atteggiamento soggettivo, ma deve dipendere dalla situazione oggettiva all’esame della magistratura di sorveglianza»[12]; svolgendo dunque il confronto tenuto conto solo di quest’ultimo profilo, il giudice delle leggi sottolinea la significativa differenza tra i due casi in comparazione.
A tal riguardo, viene ricordato che la presunzione di pericolosità sociale del condannato per reati ostativi che si rifiuti di collaborare quando possa farlo si fonda, come riconosciuto dalla stessa Corte cost. n. 253 del 2019, su «precisi dati di esperienza», i quali giustificano appieno il ricorso a oneri probatori di maggior rigore; non meno rilevante è, secondo la Corte, il fatto che la scelta di serbare il silenzio in queste ipotesi sia di per sé suscettibile di produrre un «effetto di favore per la consorteria criminale», circostanza che avvalora l’esigenza di una «regola “probatoria” di maggiore rigore rispetto allo standard minimo».
Tenuto conto di questi elementi, la Corte ritiene di dover concludere per la “ontologica diversità” della situazione oggettiva del condannato che, invece, si ritrovi in radice nell’impossibilità di prestare una collaborazione effettiva: in queste condizioni, infatti, l’atteggiamento del detenuto assumerebbe «un significato del tutto neutro, ciò che consente di circoscrivere il tema di prova – ai fini del superamento del regime ostativo – all’esclusione di attualità dei collegamenti».
7. La pronuncia si chiude con due brevi considerazioni, a integrazione degli argomenti finora esaminati.
Da un lato, la Consulta ricorda – senza però insistere particolarmente su tale profilo – che la disciplina della collaborazione impossibile o inesigibile è figlia della stessa giurisprudenza costituzionale che, vigente la preclusione assoluta di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen., aveva ritenuto necessario sottoporre a disposizioni di minor rigore i casi in cui la mancata collaborazione non fosse oggettivamente imputabile al condannato.
Dall’altro, viene precisato che l’atteggiamento soggettivo del condannato la cui collaborazione sia considerata impossibile non sarà solo per questo irrilevante: come già rammentato sopra, infatti, una volta accertata l’esistenza dei requisiti di cui al comma 1-bis il magistrato di sorveglianza dovrà comunque svolgere un attento vaglio della pericolosità sociale del detenuto in sede di valutazione della meritevolezza del permesso premio, in base a quanto prescritto dallo stesso art. 30-ter ord. pen.
Quest’ultima asserzione ci permette di chiarire un punto fondamentale, che ci pare sotteso all’intero ragionamento della Corte, ma che probabilmente merita di essere esplicitato: la differenza tra la disciplina prevista dalla legge per la collaborazione impossibile o inesigibile (o, ancora, irrilevante) e quella elaborata dalla sentenza n. 253 del 2019 non risiede nell’ampiezza dell’accertamento che il magistrato di sorveglianza è tenuto a svolgere, ma nel «peso degli oneri dimostrativi da addossare al richiedente il permesso premio». Anche nei casi di cui al comma 1-bis, infatti, per poter concedere il beneficio il giudice dovrà giungere a escludere la pericolosità sociale del condannato, e dunque altresì la possibilità che questi torni a tessere dei legami solo momentaneamente interrotti con il gruppo criminale di appartenenza; ciò che in questo caso manca, tuttavia, è quell’“onere di specifica allegazione” di cui la Consulta ha espressamente gravato il condannato non collaborante “per scelta”, tenuto a indicare specificamente gli elementi da cui desumere l’assenza del pericolo di ripristino di tali legami (oltre che di collegamenti ancora attuali)[13].
[1] Corte cost., sent. 23 ottobre 2019 (dep. 4 dicembre 2019), n. 253, su questa Rivista oggetto di commento da parte di S. Bernardi, Per la Consulta la presunzione di pericolosità dei condannati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia è legittima solo se relativa: cade la preclusione assoluta all’accesso ai permessi premio ex art. 4-bis comma 1 ord. pen., 28 gennaio 2020, e M. Ruotolo, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, 12 dicembre 2019. Tra gli altri, numerosi commenti possiamo richiamare, senza pretese di esaustività: M. Chiavario, La sentenza sui permessi-premio: una pronuncia che non merita inquadramenti unilaterali, in Osservatorio AIC, 1, 2020; G. Dodaro, L'onere di collaborazione con la giustizia per l'accesso ai permessi premio ex art. 4-bis, comma 1, ord. penit. di fronte alla Costituzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, 259 ss.; F. Fiorentin, Preclusioni penitenziarie e permessi premio, in Cass. pen., 2020, 1019 ss.; R. De Vito, Mancata collaborazione e permessi premio: cade il muro della presunzione assoluta, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, 1, 349 ss.; M. Pelissero, Permessi premio e reati ostativi. Condizioni, limiti e potenzialità di sviluppo della sent. 253/2019 della Corte costituzionale, in Legis. Pen., 30 marzo 2020, 1 ss.; A. Pugiotto, Due decisioni radicali della Corte costituzionale in tema di ostatività penitenziaria: le sentt. nn. 253 e 263 del 2019, in Giurisprudenza Costituzionale, 2019, 3321 ss.; S. Talini, Presunzioni assolute e assenza di condotta collaborativa: una nuova sentenza additiva ad effetto sostitutivo della Corte costituzionale, in Consulta on line, 18 dicembre 2019; A. Santangelo, Nuovi profili di illegittimità del regime ostativo: la speranza di un permesso o il permesso di sperare?, in Cass. pen. 2020, 7-8, 2777 ss.
[2] Corte cost., sent. 11 maggio 2021, n. 97, sulla quale può rimandarsi al commento di E. Dolcini, L’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, in questa Rivista, 25 maggio 2021.
[3] All’ordinanza di rinvio della Consulta hanno peraltro fatto seguito diverse proposte di legge, da ultimo confluite in un testo unificato, rispetto al quale si rimanda al commento di D. Galliani, A proposito del testo unificato dei progetti di legge di riforma del regime ostativo ex art. 4-bis ord. penit., in questa Rivista, 29 novembre 2021.
[4] Si ricorda che il d.l. 306/92 ha sostituito integralmente il testo dell’art. 4-bis c. 1 ord. pen., il quale, nella sua versione originaria, introdotta solo l’anno precedente dal d.l. 152/92, subordinava l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione all’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. La riforma del 1992, introducendo una radicale preclusione all’accesso ai benefici penitenziari per i detenuti che non collaborassero con la giustizia, ha quindi mantenuto la possibilità di provare l’assenza di collegamenti attuali solo in caso di collaborazione “irrilevante”.
[5] Così, in particolare, Cass. pen., Sez. I, 27 gennaio 2020, sentenze nn. 3307, 3308, 3309, 3310, 3311, 3313 e 3314.
[6] Cfr. in proposito Corte cost., sent. 23 ottobre 2019 (dep. 4 dicembre 2019), n. 253, § 9
[7] Cfr. Cass. pen., Sez. I, sent. 28 gennaio 2020 (dep. 12 febbraio 2020), n. 5553, § 4.4, sulla quale può rinviarsi ad A. Della Bella, La Cassazione dopo la sentenza 253 della Corte costituzionale: il destino della collaborazione impossibile e lo standard probatorio richiesto per il superamento della presunzione assoluta di pericolosità, in questa Rivista, 17 aprile 2020. Nello stesso senso, successivamente, le sentenze emessa da Cass. pen., Sez. I, 23 marzo 2020, n. 10551; 30 giugno 2020, n. 19600; 22 settembre 2020, n. 26480; 21 ottobre 2020, nn. 29140, 29141 e 29151; 6 novembre 2020, nn. 31017 e 31025; 21 gennaio 2021, n. 2593; 22 aprile 2021, n. 15286; 17 giugno 2021, nn. 23858, 23859 e 23862.
[8] Così Cass. pen., Sez. V, 22 ottobre 2020 (dep. 21 dicembre 2020), n. 36887.
[9] Il rimettente sottolinea anzi che una valutazione in concreto potrebbe rivelare «addirittura una minore pericolosità del soggetto che sceglie di non collaborare pur potendolo fare (ad esempio perché mosso dai timori per la propria e l’altrui incolumità), rispetto a quello che si trova nell’impossibilità di farlo ma che non lo avrebbe comunque fatto».
[10] La Consulta, cioè, riconosce che «la disciplina applicabile al detenuto non collaborante per sua scelta diverge da quella che governa i casi di collaborazione impossibile o inesigibile», così avvalorando la tesi del “doppio binario probatorio: cfr. in proposito il § 4.1. della sentenza in commento.
[11] Così in particolare Corte cost., sent. 26 febbraio 2020, n. 32, la quale ha affermato il carattere sostanziale della normativa che, disciplinando l’esecuzione della pena, determini una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato; nello stesso senso cfr. anche Corte cost., sent. 11 febbraio 2021, n. 17.
[12] Cfr. § 6 della pronuncia in commento.
[13] Tale onere, che per l’appunto riguarda tanto gli elementi volti a escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, quanto quelli che escludano il pericolo di un loro ripristino, è chiaramente affermato da Corte cost., sent. 23 ottobre 2019 (dep. 4 dicembre 2019), n. 253, § 9. In senso ancora più stringente, peraltro, la Consulta afferma che «se le informazioni pervenute dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica depongono in senso negativo, incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione degli elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno». Sull’entità degli oneri di allegazione imposti al condannato per reati ostativi può rimandarsi al contributo di F. Gianfilippi, Dopo la sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale: oneri di allegazione e istanze di permesso premio dell’ergastolano non collaborante, in questa Rivista, 20 settembre 2021.