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23 Marzo 2022


La Corte costituzionale sul favoreggiamento dell’immigrazione irregolare: illegittima l’aggravante che parifica il trattamento sanzionatorio dei trafficanti a quello di coloro che prestano un aiuto per finalità solidaristiche

Corte cost., sent. 10 marzo 2022, n. 63, Pres. Amato, Red. Viganò



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* L’autore del presente commento ha contribuito, in qualità di membro dell’Accademia di Diritto e Migrazioni, all’intervento di “amicus curiae” ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (G.U. n. 17 del 22 gennaio 2020), ammesso dalla Corte costituzionale con decreto presidenziale del 22 dicembre 2021.

 

1. Con la sentenza n. 63 del 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 12, comma 3, lettera d) Testo Unico immigrazione, nella parte in cui prevede, quali circostanze aggravanti speciali del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, l’utilizzo di servizi internazionali di trasporto ovvero di documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti. I giudici delle leggi hanno infatti ritenuto che il significativo inasprimento della cornice edittale ricollegato a tali ipotesi – pari al quintuplo della pena detentiva minima e al triplo di quella massima previste per la fattispecie base di cui all’art. 12, comma 1 t.u. imm. – sia contrario al principio di proporzionalità della pena, ricavabile dal combinato disposto degli artt. 3 e 27, comma 3 Cost.

La tipologia di vulnus accertato dalla Corte, ossia l’illegittimità tout court delle due aggravanti, si riflette, nel dispositivo della sentenza, nella semplice ablazione della parte della disposizione che le contiene; con la conseguenza che i fatti di aiuto all’immigrazione irregolare commessi con le modalità indicate risultano ora assoggettati alle sole pene previste per la fattispecie base di cui all’art. 12, comma 1 t.u. imm., salvo, ovviamente, la ricorrenza di altre circostanze aggravanti o di altre fattispecie autonome in concorso con il favoreggiamento.

Prima di procedere alla disamina della pronuncia, pare utile evidenziare che essa rappresenta, in ordine cronologico, il secondo intervento di un tribunale costituzionale europeo sul favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (il primo, risalente al 2018, era stato quello del Conseil constitutionnel francese, che aveva parzialmente censurato, alla luce del principio di fraternité, il carattere arbitrariamente restrittivo della scriminante umanitaria prevista dalla normativa d’oltralpe[1]). Si tratta di una materia a sua volta oggetto di armonizzazione per effetto del combinato disposto di una direttiva e di una decisione quadro, entrambe risalenti al 2002, spesso congiuntamente richiamate con l’etichetta di Facilitators’ package[2]. Pertanto, sebbene la pronuncia che ci si appresta ad illustrare riguardi profili specifici dell’apparato sanzionatorio italiano, essa nondimeno merita di essere idealmente collocata all’intero di un quadro più ampio, relativo alla legittimità delle scelte compiute dagli Stati membri nell’attuazione di obblighi sovranazionali di incriminazione posti a tutela delle frontiere europee. 

 

2. Il giudizio a quo vede imputata una donna di origine congolese, giunta all’aeroporto di Bologna nel 2019 insieme a due minorenni che riferiva essere la figlia e la nipote. Al varco di frontiera la donna aveva esibito documenti falsi per sé e le minori, ed era stata immediatamente arrestata con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, aggravato dall’utilizzo di un servizio di trasporto internazionale (l’aereo) e di documenti contraffatti (art. 12, commi 1 e 3 lett. d) Testo Unico Immigrazione).

Con ordinanza del 1° dicembre 2020, in parziale accoglimento delle più ampie censure prospettate dalla difesa dell’imputata, il Tribunale di Bologna aveva sollevato questione di legittimità costituzionale delle aggravanti in questione, ravvisandone, anche alla luce di una puntuale ricostruzione della pertinente giurisprudenza costituzionale, il contrasto con i principi di uguaglianza-ragionevolezza e di proporzionalità della pena (qui l'ordinanza di rimessione e il relativo commento). A sostegno delle argomentazioni del giudice felsineo erano poi intervenuti, in qualità di amici curiae, organizzazioni internazionali e network specializzati in diritto dell’immigrazione e dei rifugiati[3]. Tenuto conto che le censure prospettate dal rimettente e dai terzi intervenienti sono state sostanzialmente recepite dalla pronuncia della Consulta, ad essa si farà esclusivo riferimento nel prosieguo.

 

3. Dopo un ampio inquadramento della disciplina dettata dall’art. 12 t.u. imm. – dove la Corte dà conto delle numerose riforme succedutesi negli anni, delle fonti sovranazionali di cui la disposizione costituisce attuazione[4], nonché del diritto vivente che assegna natura di mere circostanze aggravanti alle ipotesi di cui al comma 3, inclusa quella censurata di cui alla lett. d)[5] – la sentenza richiama sinteticamente la propria giurisprudenza in materia proporzionalità della pena, ribadendo che il relativo sindacato di legittimità può essere effettuato sia alla luce delle pene previste per altre figure di reato (o circostanze aggravanti), secondo il modello del tertium comparationis (vengono richiamate le sentenze n. 88 del 2019, n. 68 del 2012, n. 409 del 1989 e n. 218 del 1974); sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate dalla medesima ipotesi alla quale la pena oggetto di scrutinio è collegata (sentenze n. 136 e n. 73 del 2020, n. 284 e n. 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016 e n. 341 del 1994). La manifesta sproporzione, chiarisce la Corte, sussiste in particolare ogniqualvolta il legislatore preveda una forbice edittale la cui misura minima risulti eccessivamente elevata, vincolando così al giudice a commisurare pene non proporzionate al disvalore delle condotte tipiche di minima gravità (sentenza n. 28 del 2022).

 

4. Avvicinandosi al nocciolo delle censure, i giudici della Consulta evidenziano, anzitutto, che “l’intera gamma delle ipotesi delittuose descritte dall’art. 12 t.u. immigrazione ha quale comune oggetto di tutela l’ordinata gestione dei flussi migratori, ossia un interesse che – soggiunge la Corte citando il proprio precedente relativo al c.d. reato di clandestinità (sent. n. 250/2010) – può considerarsi “bene giuridico ‘strumentale’, attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma avanzata del complesso di beni pubblici ‘finali’, di sicuro rilievo costituzionale, suscettivi di essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata (…) quali, in particolare, gli equilibri del mercato del lavoro, le risorse (limitate) del sistema di sicurezza sociale, l’ordine e la sicurezza pubblica” (Considerato in diritto, n. 4.2.). Si tratta di un interesse alla cui tutela il legislatore italiano dedica, in adempimento dei richiamati obblighi sovranazionali, la fattispecie di cui al primo comma dell’art. 12 t.u. imm., che reprime gli atti diretti a procurare ingressi irregolari con la reclusione da uno a cinque anni.

Un trattamento sanzionatorio assai più severo è invece previsto dai successivi commi 3, 3-bis e 3-ter dell’art. 12, i cui aumenti di pena – osserva la Corte – “si ricollegano chiaramente, nella prospettiva del legislatore, alla dimensione plurioffensiva delle ipotesi ivi contemplate, il cui orizzonte di tutela trascende di gran lunga quello dell’ordinata gestione dei flussi migratori”. Detto altrimenti, ma sempre con le parole della Consulta, le ipotesi aggravate “sono volte anzitutto, anche se non esclusivamente, a tutelare le persone trasportate, che spesso versano in stato di bisogno, anche estremo (sentenza n. 142 del 2017)” (n. 4.3.).

Quanto appena affermato trova agevolmente riscontro – prosegue la pronuncia – rispetto alla maggior parte delle ipotesi aggravate in parola, le stesse selezionando modalità della condotta, o altre caratteristiche del fatto, in grado di fornire ragionevole giustificazione, nell’an e nel quantum, al significativo scarto sanzionatorio rispetto all’ipotesi base: il riferimento è, in particolare, alle lett. b) e c) del comma 3, imperniate, rispettivamente, sull’esposizione dei migranti a pericolo per la vita o l’incolumità, ovvero la sottoposizione degli stessi a trattamenti inumani o degradanti; nonché alla lett. a) del comma 3-bis, avente ad oggetto condotte confinanti con la tratta di persone. Vi sono poi ulteriori ipotesi aggravate “che appaiono evocare, secondo le verosimili intenzioni del legislatore, scenari di coinvolgimento di organizzazioni criminali attive nel traffico internazionale di migranti” (n. 4.3.), ossia quelle di cui al comma 3, lett. a) (fatto riguardante l’ingresso o la permanenza illegale di cinque o più persone), lett. d) inciso iniziale (fatto commesso da tra o più persone in concorso), lett. e) (disponibilità di armi o materiali esplodenti da parte degli autori del fatto).

Le medesime conclusioni non possono tuttavia essere estese – osserva la Corte giungendo così ad uno dei passaggi chiave della motivazione – alle ipotesi aggravate oggetto di censura.

Non, anzitutto, a quella consistente nell’utilizzo di servizi internazionali di trasporto, che già sul piano dell’an non è in grado di evidenziare alcun surplus di disvalore rispetto alla fattispecie base, dal momento che “non offende alcun bene giuridico ulteriore rispetto a quello tutelato dal comma 1 (l’ordinata gestione dei flussi migratori), né rappresenta una modalità di condotta particolarmente insidiosa o tale da creare speciali difficoltà di accertamento alla polizia di frontiera” (n. 4.4.1.). A tale riguardo viene respinto l’argomento dell’Avvocatura dello Stato secondo cui ai vettori internazionali di trasporto, per esigenze di speditezza, non potrebbero essere imposti lunghi e penetranti controlli, osservandosi come, al contrario, chiunque si avvalga di tali servizi è sistematicamente sottoposto a tali controlli proprio allo scopo di evitare ingressi non autorizzati, mentre agli stessi sfugge chi tenta di superare clandestinamente le frontiere.

Nemmeno l’aggravante dell’utilizzo di documenti contraffatti appare, a giudizio della Corte, sorretta da una ragionevole giustificazione: sebbene infatti, contrariamente a quella poc’anzi esaminata, essa sia in grado di arricchire l’oggettività giuridica del reato base con l’offesa attinente alla fede pubblica, nondimeno “sfugge ad ogni plausibile giustificazione […] l’entità dello scarto tra la pena prevista per la fattispecie base e quella ora all’esame” (n. 4.4.2.). A tale riguardo la Corte evidenzia un’anomalia intrasistematica rispetto alle pene comminate per i delitti di falso, tanto quelli previsti dal codice penale, quanto quelli di cui allo stesso testo unico immigrazione, che salvo eccezioni non oltrepassano, nel minimo, un anno di reclusione. Si tratta, chiosa la Corte, di un ragionamento analogo a quello compiuto, mutatis mutandis, dalla sentenza n. 236 del 2016, in materia di alterazione di stato civile (art. 567 c.p.), dove la Corte ha giudicato illegittima l’identica cornice edittale prevista dall’art. 567 comma 2 per l’alterazione di stato mediante falsità documentali, ritenendo manifestamente irragionevole lo scarto sanzionatorio (al rialzo) rispetto all’ipotesi di cui al comma 1, avente ad oggetto la materiale sostituzione del neonato.

Né, infine, la coerenza sanzionatoria potrebbe essere recuperata sostenendo che, a differenza della fattispecie base, strutturata come reato a consumazione anticipata, le ipotesi aggravate di cui al comma 3 presuppongano l’effettivo ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato (di tal ché il surplus di disvalore discenderebbe dall’effettiva lesione del bene giuridico): trattasi – osserva la Corte – di argomento errato, avanzato dalla difesa erariale sulla base di un’isolata pronuncia di legittimità, senza tuttavia avvedersi che quest’ultima era stata successivamente sconfessata delle Sezioni Unite della Cassazione (attraverso la già richiamata sent. n. 40982 del 2018), le quali, a sostegno della natura a consumazione anticipata anche delle ipotesi di cui al comma 3, avevano fatto leva sull’inequivoco tenore letterale della disposizione, in parte qua formulata in maniera identica al comma 1.

 

5. L’ultima parte della motivazione sviluppa considerazioni che la Corte porta a corroborazione di quanto fin qui osservato (nn. 4.5). Si tratta di argomenti che rappresentano due facce della stessa medaglia, attenendo da un lato ai “tipi criminologici” suscettibili di essere attratti dall’ampia fattispecie di favoreggiamento degli ingressi irregolari, e dall’altro lato alla corrispondente posizione assunta dagli stranieri irregolari coinvolti.

 

5.1. Cominciando dal primo aspetto, la sentenza evidenzia come la disciplina italiana, nel suo complesso, distingua in maniera univoca il trattamento sanzionatorio riservato a due classi di condotte: “da un lato, l’aiuto all’ingresso illegale nel territorio dello Stato compiuto in favore di singoli stranieri, per finalità in senso lato altruistiche; e dall’altro, l’attività posta in essere a scopo di lucro da gruppi criminali organizzati nei confronti di un numero più o meno ampio di migranti destinati a essere trasportati illegalmente nel territorio dello Stato”. In particolare, il complesso sistema di circostanze aggravanti che segna il passaggio dal trattamento sanzionatorio dell’ipotesi base (comma 1), a quello, notevolmente più severo, dei commi 3, 3-bis e 3-ter, “riflette l’evidente distinzione, sul piano criminologico, tra due fenomeni radicalmente diversi”.

A tale riguardo, la sentenza richiama quando già affermato nella sent. n. 311 del 2011, dove, a sostegno dell’illegittimità costituzionale della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere prevista per tutte le ipotesi di favoreggiamento, aveva avuto modo di osservare come detta presunzione finisse per applicarsi indistintamente a situazioni assai eterogenee, che spaziano “dal fatto ascrivibile ad un sodalizio internazionale, rigidamente strutturato e dotato di ingenti mezzi, che specula abitualmente sulle condizioni di bisogno dei migranti, senza farsi scrupolo di esporli a pericolo di vita; all’illecito commesso una tantum da singoli individui o gruppi di individui, che agiscono per le più varie motivazioni, anche semplicemente solidaristiche in rapporto ai loro particolari legami con i migranti agevolati, essendo il fine di profitto previsto dalla legge come mera circostanza aggravante”.

Concludendo sul punto, la sentenza in commento osserva che i già richiamati strumenti sovranazionali in materia di contrasto al traffico di migranti, di cui l’art. 12 t.u. imm. costituisce attuazione sul piano interno, valorizzano puntualmente tale distinzione di fondo, ora sul piano dell’an dell’obbligo di incriminazione (così il Protocollo di Palermo, che impone agli Stati l’adozione di sanzioni penali per il solo favoreggiamento commesso a scopo di lucro), ora sul piano della species sanzionatoria (così il Facilitators Package, che riserva l’obbligo di adottare severe sanzioni privative della libertà soltanto per le condotte riconducibili al traffico internazionali di migranti). 

 

5.2. Il secondo aspetto, come anticipato, riguarda i riflessi che la distinzione testé illustrata determina sul soggetto straniero trasportato. Conviene anche qui riportare le cristalline parole della Corte: “Rispetto al favoreggiamento ‘individuale’, o ‘altruistico’, abbracciato nella legge italiana dall’art. 12, comma 1, t.u. immigrazione, lo straniero il cui ingresso illecito viene facilitato compare quale soggetto nella sostanza ‘beneficiario’ della condotta illecita, i suoi interessi restando comunque estranei al fuoco della tutela apprestata dalla disposizione, tutta incentrata sul bene giuridico dell’ordinata gestione dei flussi migratori. Rispetto invece a svariate ipotesi aggravate previste dai commi 3, 3-bis e 3-ter, lo straniero assurge indubitabilmente a titolare degli altri beni giuridici di volta in volta tutelati, costituendo anzitutto la ‘vittima’ della condotta criminosa: esposta ora a pericolo per la propria vita o incolumità, ora a trattamenti inumani e degradanti, ora al rischio di essere avviata alla prostituzione o sfruttata in attività lavorative, e comunque – nel caso ordinario in cui la condotta sia compiuta con finalità di profitto – costretta a sborsare ingenti somme di denaro in cambio dell’aiuto a varcare le frontiere”.

 

5.3. Dalle due distinzioni appena riportate (quella relativa ai soggetti agenti e quella relativa ai migranti) la Corte trae coerenti conclusioni sul piano della questione sottoposta alla sua attenzione. A differenza delle altre ipotesi aggravate di cui ai commi 3, 3-bis e 3-ter, le circostanze aggravanti censurate fotografano condotte che non sono in alcun modo in grado di riflettere situazioni nelle quali siano coinvolte organizzazioni dedite al traffico internazionale di migranti e/o nelle quali gli stranieri coinvolti siano vittime della condotta criminosa, con conseguente manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di assoggettare le prime al medesimo, e particolarmente severo, trattamento sanzionatorio previsto per le seconde. Quanto appena affermato, chiosa la Corte con una brevissima incursione sul piano del fatto, è emblematicamente esemplificato nel caso oggetto del procedimento a quo, che, come visto, riguarda una donna imputata di avere accompagnato in Italia la figlia e la nipote, entrambe minorenni. Né coglie nel segno, precisa ancora la Corte, l’argomento dell’Avvocatura dello Stato secondo cui il documento falso o illecitamente ottenuto deriva, secondo l’id quod plerumque accidit, proprio dalle organizzazioni criminali, ben potendo accadere che l’autore dell’illecito si sia rivolto occasionalmente alle stesse, senza tuttavia farne parte.

 

6. L’evidenziata sproporzione sanzionatoria non può essere superata – osserva infine la Corte (n. 4.6.) –  valorizzando la possibilità che l’aggravante sia neutralizzata da circostanze attenuanti: sia perché la ricorrenza di queste ultime è soltanto eventuale, e a fortiori è eventuale il giudizio di prevalenza delle stesse sulle aggravanti; sia perché la funzione delle circostanze, incluse quelle generiche, è di adeguare la misura della pena al disvalore del fatto concreto, non certo di correggere la sproporzione dei minimi edittali comminati dal legislatore.

 

* * *

 

7. La pronuncia presenta molteplici aspetti di interesse, senz’altro meritevoli di più ampio e meditato approfondimento. In questa sede, a prima lettura, ci si limiterà a portare l’attenzione del lettore su due profili: il primo attiene al giudizio costituzionale di proporzionalità sulla dosimetria sanzionatoria, e punta a mettere in evidenza il modello di sindacato utilizzato dalla Corte in questa occasione, anche allo scopo di rintracciare gli elementi “valoriali” ad esso sottesi; il secondo è invece rivolto alle ricadute pratiche della pronuncia su vicende diverse da quella oggetto del giudizio a quo, con particolare riferimento ai riflessi che la declaratoria di incostituzionalità dell’aggravante di cui all’art. 12, comma 3 lett. d) potrà dispiegare sulle condanne passate in giudicato e tuttora in fase di esecuzione.

 

8. La sentenza in commento si colloca coerentemente all’interno di un filone della giurisprudenza costituzionale che, mediante la valorizzazione del principio di uguaglianza-ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena, ormai da diversi anni recupera margini di sindacato sull’esercizio della discrezionalità legislativa in punto di dosimetria sanzionatoria. Non è certamente questa la sede per richiamare, nemmeno per sommi capi, tale ricca e complessa evoluzione[6]. Pare utile, piuttosto, osservare più da vicino il tessuto argomentativo della pronuncia in esame onde rintracciare gli schemi valutativi ai quali i giudici delle leggi hanno attinto.

 

8.1. Nel complesso, la sentenza in esame pare correre essenzialmente lungo i binari dello schema classico di sindacato sulla proporzionalità della pena, quello cioè basato sulla comparazione delle scelte sanzionatorie effettuate dal legislatore, alla ricerca di eventuali aporie del sistema (proporzionalità c.d. ordinale)[7]. La Corte, infatti, dopo avere individuato nell’interesse all’ordinata gestione dei flussi migratori il denominatore comune a tutte le fattispecie sanzionate dall’art. 12 t.u. imm., conduce un serrato confronto tra le diverse circostanze aggravanti speciali, evidenziando come quelle censurate non siano in grado, a differenza delle altre, di selezionare autentici scenari di traffico organizzato di migranti, con conseguente manifesta irragionevolezza del drastico aumento sanzionatorio ad esse ricollegato dal legislatore. Analoghe considerazioni possono svolgersi rispetto alla parte immediatamente successiva della motivazione, ossia là dove la Corte, concentrandosi sull’ipotesi di utilizzo di documenti contraffatti, ne evidenzia la distonia, sul piano sanzionatorio, rispetto al sistema dei reati contro la fede pubblica.

Anche l’espresso richiamo alla sentenza sull’alterazione di stato civile (n. 236 del 2016), che notoriamente costituisce uno dei più significativi precedenti in materia di sindacato c.d. intrinseco di proporzionalità (proporzionalità c.d. cardinale), viene in questa sede circoscritto ai passaggi in cui la Corte aveva evidenziato, in chiave eminentemente comparativa (ancorché interna alla norma incriminatrice), l’inidoneità dell’offesa alla fede pubblica a giustificare il rilevante scarto sanzionatorio (al rialzo) tra il primo e il secondo comma dell’art. 567 c.p.; mentre sono omessi i passaggi in cui la Corte aveva ritenuto intrinsecamente eccessiva la previsione della pena minima di cinque anni di reclusione in relazione alla classe di condotte di minore disvalore suscettibili di essere attratte dalla fattispecie di cui al comma 2: quelle, cioè, in cui “l’obiettivo dell’agente – sia pur perseguito, in un’ottica scorretta, mediante la commissione di un falso – sia effettivamente quello di attribuire un legame famigliare al neonato, che altrimenti ne resterebbe privo” (Considerato in diritto, n. 4.2.).

 

8.2. Le similitudini tra il citato passaggio dalla sentenza n. 236 del 2016 e la questione sottesa alla sentenza in commento – similitudini sulle quali uno degli amici curiae aveva del resto molto insistito – sono troppo forti per ritenere che la Corte non le abbia prese in considerazione. Nondimeno, pur non negandole, il collegio ha ritenuto di non valorizzarle nel proprio iter argomentativo. Una delle possibili ragioni di questa scelta potrebbe essere rinvenuta nella difficoltà di attribuire, con altrettanta univocità, carattere di meritevolezza all’obiettivo perseguito dall’agente attraverso la condotta illecita: altro, insomma, sarebbe attribuire un legame famigliare al neonato che ne è privo, risultato sulla cui lodevolezza nessuno potrebbe ragionevolmente obiettare; altro sarebbe favorire l’ingresso nel Paese di uno straniero privo di regolari documenti, ancorché minorenne. Orbene, fermo restando che quest’ultima affermazione potrebbe essere rimessa in discussione, quanto meno nell’ambito di selezionate categorie di situazioni (si pensi al malfunzionamento dei corridoi umanitari, che di fatto obbliga la maggior parte dei richiedenti asilo a rivolgersi ai trafficanti per compiere almeno alcuni segmenti del proprio percorso verso la salvezza); resta comunque la sensazione che l’applicazione di una pena pari a cinque anni di reclusione, entità che tra l’altro esclude l’applicabilità dei meccanismi sospensivi e di probation messi a disposizione dell’ordinamento, risulti (rectius, ormai, risultasse) manifestamente sproporzionata nei confronti di quelle categorie di condotte che – si badi – la stessa Corte costituzionale colloca sul più basso gradino della scala di gravità delle condotte tipiche, valorizzando sia la componente altruistica che le sorregge, sia il beneficio portato ai soggetti aiutati.

Peraltro, anche laddove la Corte avesse arricchito il proprio sindacato con valutazioni attinenti alla sproporzione intrinseca delle pene, nulla sarebbe cambiato sul piano pratico, posto che l’exitus decisionale, come ampiamente visto, è stato nel senso della censura delle aggravanti. Ci si potrebbe tuttavia chiedere se l’assenza di sindacato intrinseco di proporzionalità renda in qualche modo la sentenza meno significativa sul piano assiologico, i principi in essa racchiusi essendo in ultima analisi riconducibili ad un “crudo” giudizio di coerenza interna. La risposta, a parere di chi scrive, è negativa: l’assunto in base al quale il sindacato fondato sul tertium comparationis risponde un imperativo di sola razionalità e non anche di giustizia sostanziale, pur essendo a prima vista plausibile (e verosimilmente anche la ragione della maggiore facilità con la quale tale schema di giudizio si è radicato nella giurisprudenza costituzionale), risulta, ad un più attento esame, destituito di fondamento[8].

Come autorevolmente osserva Francesco Palazzo, “l’individuazione del tertium comparationis presuppone sempre necessariamente un’operazione valutativa della fattispecie impugnata, poiché solo alla stregua di un determinato parametro valutativo gli elementi differenziali propri di quella fattispecie possono apparire tali da imporre ad esempio un diverso trattamento rispetto al tertium comparationis. La comparazione certamente agevola il giudizio in virtù proprio del carattere analogico dei processi valutativi. Ma in fondo i giudizi valutativi che si effettuano dopo l'individuazione del tertium sono sostanzialmente identici a quelli che si effettuano prima per l'individuazione stessa della fattispecie di riferimento[9]. Detto altrimenti, il sindacato di proporzionalità classico, quello endo-normativo fondato sul tertium comparationis, è a ben vedere molto meno “neutrale” e “avalutativo” di quanto si è propensi a credere. Il passaggio del saggio di Palazzo costituisce, a parere di chi scrive, una formidabile lente attraverso cui osservare la sentenza in commento. Invero, il “parametro valutativo” che illumina gli elementi differenziali tra le circostanze aggravanti censurate e il resto della disposizione, spalancando le porte al giudizio di manifesta irragionevolezza insito nell’identico trattamento di situazioni radicalmente diverse, è precipuamente rappresentato dalla fondamentale distinzione tre le coppie concettuali “trafficanti a scopo di lucro / migranti-vittime” e “aiutanti mossi da finalità altruistiche / migranti-beneficiari”. Si tratta di una distinzione derivante da una corretta indagine sui nuclei di disvalore sottesi alle eterogenee condotte oggetto di incriminazione; un’indagine che la Corte riesce a sviluppare, senza travalicare i confini del merito legislativo[10], grazie ad un serrato confronto con il dato normativo positivo, anche di rango sovranazionale (Protocollo di Palermo e Facilitators’ Package), dal quale attinge le coordinate essenziali per riconoscere quanto finora, almeno a livello giurisprudenziale, era rimasto sotto traccia: ossia che l’incriminazione a tutto campo dell’agevolazione di ingressi irregolari riflette una finalità iper-protettiva delle frontiere, secondo la logica del “cast the widest possible net”; una logica che presta il fianco, sul piano politico-criminale, a diverse critiche di carattere utilitaristico, prima ancora che assiologico; ma che diviene passibile di censura costituzionale quando – come nel caso di specie – è accompagnata dall’equiparazione, sul piano sanzionatorio, di situazioni radicalmente eterogenee sul piano dell’offesa.

Così facendo, pur mantenendosi nei ranghi di un sindacato classico di proporzionalità, la Corte riesce a ripristinare una gerarchia coerente degli interessi in gioco, smarrita dal legislatore in anni di frenetiche modifiche dell’art. 12 t.u. imm. Il messaggio che se ne ricava appare forte e chiaro: ferma restando la meritevolezza del bene giuridico dell’ordinata gestione dei flussi migratori, e fermo altresì restando che praticamente ogni condotta agevolatrice di ingressi irregolari è in grado di arrecarvi un pregiudizio, il legislatore non può non soppesare con cautela gli anni di carcere che commina per le molteplici situazioni suscettibili di essere attratte in una così estesa area di rilevanza penale, e nel farlo non può non tenere conto del carattere solidaristico e altruistico di una fetta di tali condotte

 

9. Come anticipato, l’esito della vicenda esaminata porta anche ad interrogarsi in merito alla rilevanza che la pronuncia di incostituzionalità potrà avere per i fatti che siano già stati decisi con sentenza di condanna passata in giudicato e rispetto ai quali la pena detentiva sia in corso di esecuzione.

Sul punto è agevole constatare – richiamando i principi enucleati dalle Sezioni Unite Gatto[11] in materia di dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio – che per tali giudizi si apre la possibilità di esperire un incidente di esecuzione volto alla rideterminazione della pena al netto dell’aggravante caducata. A tal fine il giudice dell’esecuzione sarà chiamato a svolgere tanto un’operazione a contenuto predeterminato, ossia la riconduzione del fatto all’alveo, assai più favorevole, dell’art. 12, comma 1 t.u. imm. (la cui pena detentiva va da uno a cinque anni); quanto una serie di operazioni a carattere valutativo, in funzione delle quali gode – sulla base del summenzionato diritto vivente – di autonomi poteri di accertamento e apprezzamento, rappresentate in primis dalla ri-commisurazione della pena all’interno della nuova cornice edittale, e successivamente dall’eventuale applicazione, ricorrendone i presupposti, della sospensione condizionale della pena o di strumenti lato sensu alternativi al carcere.

Effetti favorevoli potranno prodursi anche nei contesti di concorso tra circostanze. In caso di concorso tra l’aggravante dichiarata illegittima ed eventuali circostanze attenuanti, laddove queste ultime fossero state originariamente giudicate equivalenti o addirittura soccombenti, il venire meno dell’aggravante ne determinerà la riviviscenza, con conseguente diritto alla rideterminazione della pena, anche qui nel quadro del comma 1.

Laddove, invece, al condannato fossero state applicate anche una o più ulteriori circostanze di cui al comma 3, il venire meno di quella dichiarata illegittima non comporterà un mutamento di cornice edittale, ma potrà comunque incidere favorevolmente sulla rideterminazione del quantum sanzionatorio tra i cinque e quindici anni di reclusione. Ancora, laddove fosse stata applicata soltanto una ulteriore circostanza rispetto a quella illegittima, il venire meno di quest’ultima si rifletterà sull’inapplicabilità della circostanza aggravante ad effetto comune di cui al comma 3-bis, che per l’appunto scatta in presenza di due o più delle circostanze di cui al comma 3.

Si noti, infine, che anche in assenza di istanze di parte, la rideterminazione della pena dovrà essere richiesta al giudice dell’esecuzione dal pubblico ministero, nell'ambito delle sue funzioni istituzionali di vigilanza sulla “osservanza delle leggi” (artt. 655, 656 e 666 c.p.p.) e dello specifico compito di promozione dell'esecuzione penale “nei casi stabiliti dalla legge” (art. 73, comma 1, ord. giud.)[12].

 

 

[2] Si tratta della direttiva 2002/90/CE, volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, e della decisione quadro 2002/946/GAI, relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del medesimo fenomeno.

[3] Sono due, in particolare, gli interventi presentati e ammessi con decreto presidenziale del 22 dicembre 2021: quello dell’Accademia di Diritto e Migrazioni, ora pubblicato sul sito del network; quello congiuntamente firmato da European Council on Refugees and Exiles (ECRE), International Commission of Jurists (ICJ) e Advice on Individual Rights in Europe (AIRE).

[4] V. supra, nota n. 2.

[5] Cass. pen., sez. un., 21 giugno 2018, n. 40982, Mizanur, CED 273937, in Dir. pen. proc., 2019, 484, con nota di F. Basile.

[6] Sul punto, per un’ampia ricostruzione ragionata e altresì ricca di spunti critici, v. V. Manes, V. Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Giappichelli, pp. 357 ss.; 365 ss.

[7] Per la distinzione tra proporzionalità ordinale e cardinale, v. F. Viganò, La proporzionalità della pena. Profili di diritto penale e costituzionale, Giappichelli, 2021, pp. 160 ss., 260 ss.

[8] Sul punto, amplius, F. Viganò, op. cit, p. 263.

[9] F. Palazzo, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, pp. 350 ss.

[10] Sui delicati rapporti tra sindacato di legittimità-proporzionalità della pena e area riservata al legislatore, v. ex multis, D. Pulitanò, La misura delle pene, fra discrezionalità politica e vincoli costituzionali, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 2/2017, pp. 48 ss.

[11] Cass. pen., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, Gatto, CED 260697.

[12] In questo senso le Sezioni Unite citate alla nota precedente.