Corte cost., sent. 14 aprile 2022, n. 95, Pres. Amato, red. Viganò
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1. Con la pronuncia n. 95 del 2022, la Corte costituzionale ha avuto modo di confermare nuovamente il proprio recente orientamento in base al quale il principio di proporzionalità della sanzione penale[1] – elaborato dalla Corte stessa fin dagli anni Ottanta[2] – deve ritenersi applicabile non solo alle pene in senso stretto, bensì anche a tutte le sanzioni amministrative che, pur essendo formalmente denominate come tali, presentano in realtà un carattere e una finalità intrinsecamente punitivi, in base all’ormai consolidata nozione sostanziale della materia penale elaborata dalla giurisprudenza della Corte EDU e definitivamente recepita anche dalla giurisprudenza costituzionale interna, soprattutto in relazione all’estensione delle garanzie intertemporali della legge penale – principio di irretroattività della legge penale sfavorevole e principio di retroattività di quella più favorevole – all’illecito amministrativo a carattere punitivo[3]. In secondo luogo, la sentenza in esame risulta altresì importante per la conferma del definitivo superamento del meccanismo delle “rime obbligate” quale strumento costantemente utilizzato dalla Consulta – in collegamento, in particolare, con l’argomento del tertium comparationis – per l’individuazione del quantum sanzionatorio da applicare al fine di colmare la lacuna lasciata da quello dichiarato illegittimo per violazione del principio di proporzionalità; l’argomento delle rime obbligate, infatti, è stato, negli ultimi anni, definitivamente soppiantato da un più ampio e generico riferimento alla necessità di stabilire la nuova cornice sanzionatoria ricavandola dal “sistema penale” nel suo complesso, potendo la Corte optare tra le varie soluzioni sanzionatorie presenti nell’ordinamento e che appaiono tutte costituzionalmente adeguate, – inserendosi nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore – a sostituirsi a quella dichiarata illegittima, senza dover necessariamente risultare come l’unica soluzione possibile imposta dall’ordinamento penale e costituzionale[4]. Considerata, quindi, l’importanza della pronuncia, è utile riepilogare la vicenda e le motivazioni adottate dai giudici costituzionali, per poi concludere con un commento riepilogativo.
2. La questione di legittimità costituzionale che ha portato alla sentenza in commento è stata sollevata dal Giudice di Pace di Sondrio e ha riguardato l’illecito amministrativo depenalizzato degli atti contrari alla pubblica decenza, disciplinato dall’art. 726 c.p. e punito con una sanzione amministrativa pecuniaria quantificata tra un minimo di euro 5000 e un massimo di euro 10000. Il Giudice di Pace ha censurato l’art. 726 c.p. – come sostituito dall’art. 2, c. 6, del D. lgs. n. 8 del 2016 – per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui punisce gli atti contrari alla pubblica decenza con una sanzione amministrativa da 5000 a 10000 euro, anziché con una sanzione amministrativa da 51 a 309 euro. Secondo il giudice a quo, infatti, il trattamento sanzionatorio riservato all’illecito amministrativo di atti contrari alla pubblica decenza appare irragionevolmente distinto e sproporzionato rispetto a quello delineato per l’illecito amministrativo di atti osceni colposi previsto dall’art. 527, c. 3, c.p., per il quale è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra 51 e 309 euro, risultando così contrario al principio di eguaglianza. La questione del giudizio a quo riguardava un ricorso presentato avverso un’ordinanza-ingiunzione emessa dalla Prefettura della Provincia di Sondrio nei confronti di un soggetto accusato di aver orinato «in un luogo pubblico all’interno del parcheggio della discoteca […], in prossimità di una delle porte di emergenza, nonostante i bagni riservati al pubblico fossero correttamente funzionanti»[5], condannandolo al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria di 5000 euro per aver commesso atti contrari alla pubblica decenza ex art. 726 del Codice penale. L’eccessività della sanzione amministrativa in questione, rapportata al quantum previsto per la diversa fattispecie di atti osceni colposi, ha quindi condotto il Giudice di Pace di Sondrio a sollevare la questione di legittimità costituzionale in questione, auspicando una sostituzione della cornice edittale stabilita dall’art. 726 c.p. con quella stabilita dall’art. 527, c. 3, c.p., per i casi di atti osceni colposi, assunta quale tertium comparationis.
3. La Corte costituzionale ha ritenuto la questione fondata. Prima di motivare le proprie conclusioni, i giudici costituzionali hanno, però, opportunamente riepilogato il quadro normativo implicato dal caso di specie, del quale occorre dare conto anche al lettore. L’oggetto della questione di legittimità costituzionale in esame, nonché della motivazione della conseguente pronuncia della Consulta, è rappresentato dalla fattispecie di atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 c.p.) in confronto con quella di atti osceni colposi (art. 527, c. 3, c.p.). Entrambe le fattispecie rappresentano oggi degli illeciti amministrativi depenalizzati e la prima punisce «chiunque, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti contrari alla pubblica decenza», mentre l’art. 527 c.p. sanziona «chiunque, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti osceni». Nella sua originaria formulazione codicistica, la fattispecie di atti osceni prevedeva una differenziazione tra le ipotesi dolose e quelle colpose: in particolare, al comma 1 dell’art. 527 c.p. erano puniti gli atti osceni realizzati con dolo – con la reclusione da tre mesi a tre anni – mentre al secondo comma, poi diventato il terzo, puniva i fatti commessi con colpa, con una mera pena pecuniaria (da ultimo fissata nella multa da trecento a tremila lire); dal canto suo, invece, la fattispecie di atti contrari alla pubblica decenza configurava una contravvenzione punita da ultimo con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda da 10 a 206 euro. Considerata l’affinità tra gli atti osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza, nonché la comune indeterminatezza nella descrizione delle rispettive condotte tipiche, la giurisprudenza di legittimità ha col tempo concretizzato il rispettivo significato, cercando anche di distinguere tra loro le due diverse fattispecie. Secondo la Corte di cassazione, la distinzione tra gli atti osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza va individuata essenzialmente nel fatto che i primi offendono in modo intenso e grave il pudore sessuale, mentre i secondi ledono il normale sentimento di costumatezza, generando fastidio e riprovazione[6], senza coinvolgere necessariamente la sfera sessuale, bensì limitandosi ad offendere il generale sentimento collettivo della più elementare costumatezza, pudicizia e decoro, compostezza e riservatezza, che accompagna le attività che si svolgono nell’ambiente sociale[7]. Più in particolare, sia la dottrina maggioritaria sia la giurisprudenza di legittimità si sono orientate verso un criterio misto – sia quantitativo che qualitativo – per distinguere le condotte che costituiscono atti osceni da quelle che, invece, sono classificabili come atti contrari alla pubblica decenza: in base al criterio qualitativo si ritiene che le condotte offensive della pubblica decenza non riguardano specificatamente la sfera sessuale, ma abbracciano un ambito più ampio, riconducibile al generale concetto di costumatezza, mentre quelle che offendono il pudore coinvolgono più specificatamente tutte le manifestazioni della vita sessuale; dal punto di vista quantitativo – da combinarsi con l’aspetto qualitativo – le condotte ex art. 527 comportano un’offesa generalmente più rilevante e grave al bene giuridico tutelato (cioè il pudore) rispetto a quelle che ledono, più genericamente, la comune pudicizia e costumatezza. Queste considerazioni vengono riprese anche dalla Corte costituzionale che, peraltro, esemplifica brevemente alcune concrete condotte riconducibili all’una o all’altra fattispecie[8]: ad esempio, viene evidenziato come la giurisprudenza di legittimità abbia qualificato come atti contrari alla pubblica decenza l’esporre il corpo nudo in una spiaggia pubblica non riservata ai nudisti, il palpeggiarsi i genitali davanti ad altri soggetti in modo scostumato e scomposto, ma senza alcuna connotazione sessuale o dimostrazione di libido e, soprattutto, l’urinare in luogo pubblico; viceversa, sono state ricomprese all’interno degli atti osceni le condotte consistenti nell’essere sorpresi, completamente nudi, a compiere un atto sessuale all’interno di un’autovettura o, più in generale, gli atti esibizionistici, tra cui la masturbazione in luogo pubblico. In conseguenza di ciò, la Consulta evidenzia come il criterio determinante per distinguere gli atti osceni dagli atti contrari alla pubblica decenza non consiste tanto nella circostanza che l’autore mostri o meno le parti intime del proprio corpo, «quanto nel particolare atteggiamento soggettivo che accompagna la condotta: laddove la nudità sia esibita in modo da non convogliare un messaggio di natura sessuale, essa configurerà – al più – la fattispecie di atti contrari alla pubblica decenza; mentre risulterà integrata la fattispecie di atti osceni quando la condotta dell’agente convogli chiaramente un tale messaggio, senza che – in tal caso – sia neppure necessaria l’esibizione diretta degli organi genitali»[9]. In definitiva, quindi, l’elemento principale per distinguere le due fattispecie in questione, in caso di esibizione di parti del corpo, è insito principalmente nella presenza o meno di una connotazione sessuale: nel primo caso si integra una vera e propria offesa alla sfera sessuale e, di conseguenza, al pudore sessuale mentre, nel secondo caso, viene leso esclusivamente il generale senso sociale di riserbo, costumatezza e decoro.
4. Specificate le differenze tra le fattispecie previste dagli artt. 527 e 726 c.p., la Corte costituzionale sintetizza il quadro normativo coinvolto dal caso di specie, alla luce delle più recenti novità normative. Attualmente le condotte di atti osceni si suddividono in tre fattispecie: vi è, innanzitutto, la fattispecie base di atti osceni dolosi (art. 527, c. 1, c.p.) che viene punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5000 a 30000 euro; vi è, poi, la fattispecie di atti osceni commessi all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori (art. 527, c. 2, c.p.), che continua ad avere una natura formalmente penale, essendo qualificata come delitto, e che viene sanzionata con la reclusione da quattro mesi a quattro anni e sei mesi; infine, vi è la fattispecie di atti osceni colposi (art. 527, c. 3, c.p.), che viene punita come illecito amministrativo mediante la previsione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 51 a 309 euro. All’opposto vi è la fattispecie di atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 c.p.) che, come già ampiamente anticipato, è qualificata come illecito amministrativo ed è sanzionata con una sanzione amministrativa pecuniaria da 5000 a 10000, e che rappresenta l’oggetto delle censure del giudice a quo. Ecco che già da questa panoramica sul quadro normativo caratterizzante il caso di specie, si evince come vi sia una piena equiparazione a livello del relativo trattamento sanzionatorio tra gli atti osceni dolosi e gli atti contrari alla pubblica decenza (puniti indifferentemente a titolo di dolo o di colpa) pur se, come visto in precedenza, le condotte appartenenti alla seconda fattispecie sono generalmente connotate da una gravità minore, nonché da un differente ambito di tutela (più ampio e generico nella fattispecie ex art. 726 c.p., più specifico e rilevante nel caso degli atti osceni dolosi).
5. In ogni caso la Consulta, una volta esposte tali considerazioni – necessariamente preliminari ai fini della propria decisione –, passa ad esaminare nel concreto la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo, che aveva prospettato la violazione del principio di proporzionalità – in relazione all’art. 3 Cost. – da parte della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’art. 726 del Codice penale, soprattutto se posta in relazione con la fattispecie di atti osceni colposi quale tertium comparationis. I giudici costituzionali accolgono la questione riaffermando importanti considerazioni che meritano di essere esposte in questa sede. Innanzitutto, viene ribadito che il principio della proporzionalità delle sanzioni rispetto alla gravità dell’illecito «si applica anche al di fuori dei confini della responsabilità penale, e in particolare alla materia delle sanzioni amministrative a carattere punitivo, rispetto alle quali esso trova il proprio fondamento nell’art. 3 Cost., in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione»[10]. Pertanto, la Corte costituzionale conferma l’estensione del principio di proporzionalità della pena a tutte quelle sanzioni che, pur essendo formalmente qualificate dal legislatore come non penali, abbiano una natura sostanzialmente punitiva, la quale era già stata affermata in passato a partire da due pronunce del 2019[11] e ribadita anche successivamente[12]. Secondo la Consulta, quindi, le sanzioni amministrative qualificabili come punitive – in considerazione dei criteri provenienti in tal senso dalla giurisprudenza della Corte EDU e facenti riferimento, in particolar modo, al carattere afflittivo e alla finalità punitiva dell’illecito e della relativa sanzione – oltre a dover sottostare ai principi intertemporali tipici della legge penale[13], devono anche risultare proporzionate rispetto alla gravità dell’illecito, in quanto condividono con le pene il carattere reattivo rispetto ad un fatto illecito, per la cui commissione l’ordinamento dispone che l’autore subisca una sofferenza in termini di restrizione di un diritto seppur diverso dalla libertà personale (la cui incisione in chiave sanzionatoria è esclusivamente riservata alla pena); in virtù di tale aspetto «anche per le sanzioni amministrative si prospetta, dunque, l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato; evenienza nella quale la compressione del diritto diverrebbe irragionevole e non giustificata»[14].
Una volta confermata l’applicabilità del principio di proporzionalità alle sanzioni amministrative punitive – tra cui rientra a pieno titolo quella riguardante il caso di specie[15] – la Corte costituzionale procede a verificare il rispetto di quest’ultimo da parte della cornice edittale prevista dalla disposizione censurata. A tal fine, i giudici costituzionali si focalizzano sul disvalore dell’illecito sanzionato: a tal proposito, in virtù di quanto specificato in precedenza, viene ribadito che la fattispecie di atti contrari alla pubblica decenza riguarda «condotte certamente in grado di ingenerare molestia e fastidio, ma altrettanto indubbiamente di disvalore limitato, risolvendosi – in definitiva – in una espressione di trascuratezza rispetto alle regole di buona educazione»[16]. In virtù del ridotto disvalore caratterizzante gli atti punibili ex art. 726 c.p., la Consulta giunge a ritenere la previsione legislativa di una sanzione minima di 5000 euro e di una massima di 10000 euro per le condotte sanzionate come manifestatamente sproporzionata; tale cornice edittale, infatti, risulta macroscopicamente incoerente – e, quindi, irragionevole e arbitraria – «rispetto ai livelli medi di sanzioni amministrative previste per illeciti amministrativi di simile o maggiore gravità»[17]. In particolare, la Corte si sofferma su due profili peculiari che dimostrano la disparità sanzionatoria discendente dall’art. 726 del Codice penale. Il primo riguarda le sanzioni stabilite per gli illeciti amministrativi previsti in materia di circolazione stradale che, pur esponendo ad un grave pericolo l’incolumità e la vita stesse di altri utenti – comportano cornici sanzionatorie comunque differenti e alquanto ridotte rispetto a quella prevista dall’art. 726 c.p.: a tal proposito, i giudici costituzionali prendono in considerazione la sanzione prevista per chi superi con la propria auto il limite di velocità massima consentita di oltre 60 km/h, la quale è quantificata tra un minimo di 845 e un massimo di 3382 euro (art. 142, c. 9-bis, Codice della Strada), e che risulta, pertanto, ampiamente meno grave rispetto a quella prevista per gli atti contrari alla pubblica decenza. Il secondo profilo riguarda, invece, il limite minimo di 5000 euro previsto dall’art. 726 c.p. che, se posto in confronto con le cornici edittali previste per le fattispecie di atti osceni, appare del tutto eccessivo e sproporzionato: nonostante, infatti, le condotte punite dall’art. 527 c.p. siano generalmente connotate da una gravità maggiore rispetto agli atti contrari alla pubblica decenza, il legislatore ha previsto una medesima cornice sanzionatoria per gli atti osceni dolosi e per gli atti contrari alla pubblica decenza – che, di per sé, sono puniti indifferentemente sia a titolo di dolo sia di colpa; tale equiparazione, tuttavia, risulta del tutto irragionevole, soprattutto se rapportata al differente trattamento sanzionatorio che vigeva quando entrambe le fattispecie erano ancora qualificate come reati[18], in quanto sia la dottrina sia la giurisprudenza hanno sempre individuato «una chiara differenza di disvalore tra atti osceni e atti (meramente) contrari alla pubblica decenza»[19]. L’avvenuta depenalizzazione della fattispecie ex art. 726 c.p. non ha, quindi, comportato alcuna mitigazione del relativo trattamento sanzionatorio ma, al contrario, lo ha irragionevolmente peggiorato, soprattutto se posto in confronto con le condotte sanzionate dall’art. 527, c. 1, del Codice penale; peraltro, fa notare la Corte, tale inasprimento non risulta in alcun modo giustificabile sulla base di un maggiore disvalore acquisito dagli atti contrari alla pubblica decenza rispetto al passato e, di conseguenza, l’equiparazione della relativa cornice edittale con quella prevista per gli atti osceni dolosi risulta assolutamente ingiustificata, anche in considerazione del fatto che questi ultimi comprendono, ancora ai giorni nostri, condotte «connotate da gravità tutt’altro che trascurabile, come in particolare gli atti esibizionistici, i quali sono spesso percepiti dalla persona che ne sia involontariamente spettatrice come atti aggressivi, idonei a ingenerare il comprensibile timore di successivi atti di natura violenta»[20]. Riassumendo, quindi, la sanzione prevista dall’art. 726 c.p. risulta sproporzionata ed irragionevole, dal momento che non solo è connotata da un quantum eccessivo rispetto alla gravità dei fatti sanzionati – anche in considerazione delle cornici edittali previste per fattispecie connotate da un più grave disvalore – ma determina anche una irragionevole parità di trattamento tra gli atti contrari alla pubblica decenza e gli atti osceni dolosi che, al contrario, puniscono condotte assolutamente diverse sul piano della gravità oggettiva.
6. Certificata, così, l’illegittimità della cornice edittale prevista dall’art. 726 c.p., la Corte passa ad interrogarsi su come sia possibile coprire il vuoto di tutela comunque discendente dalla dichiarazione di illegittimità della disposizione censurata. A tal riguardo viene ribadita un'altra importante considerazione, dal momento che viene nuovamente confermato il definitivo superamento del canone delle “rime obbligate” e dell’argomento del tertium comparationis: la Corte sottolinea come la propria giurisprudenza sia ormai stabilmente consolidata nel ritenere che non può essere d’ostacolo alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma sanzionatoria contrastante con il principio di proporzionalità, l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate”, che la Consulta stessa può “prendere in prestito” al fine di colmare il vuoto sanzionatorio discendente dal proprio intervento ablativo; a tal fine, infatti, appare «sufficiente la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore»[21]. Una volta affermato ciò, i giudici costituzionali ritengono – concordando in ciò con il giudice rimettente – che la soluzione costituzionalmente adeguata sia, in questo caso, rappresentata dall’estensione alla fattispecie ex art. 726 c.p. della medesima cornice edittale prevista dall’art. 527, c. 3, c.p. per le ipotesi di atti osceni colposi, che è quantificata in un minimo di 51 euro e in un massimo di 309 euro. A sostegno di tale conclusione, i giudici costituzionali evidenziano come le condotte sussumibili all’interno della fattispecie indicata dall’art. 527, c. 3, c.p. sono caratterizzate da una offensività non di molto distante da quella caratterizzante l’illecito di atti contrari alla pubblica decenza; tale affermazione viene giustificata dalla considerazione che, seppure gli atti osceni colposi implichino il necessario coinvolgimento della sfera sessuale da parte del soggetto agente – che resta, invece, assente negli atti contrari alla pubblica decenza – la natura meramente colposa esclude in radice quella dimensione aggressiva posseduta dalle ipotesi dolose che, di conseguenza, potranno tutt’al più ingenerare nello spettatore «un senso di fastidio e di molestia sostanzialmente analogo a quello provocato dalla generalità degli atti inurbani e scostumati riconducibili, appunto, alla fattispecie di atti contrari alla pubblica decenza»[22].
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7. Come anticipato, questa sentenza si colloca all’interno del filone della giurisprudenza costituzionale riguardante il principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio, e conferma due importanti acquisizioni riguardanti quest’ultimo, affermate dalla Consulta negli ultimi anni.
7.1 Innanzitutto, il primo punto rilevante della pronuncia in commento è relativo al principio di proporzionalità in sé considerato e, in particolare, riguarda le modalità di attuazione di quest’ultimo da parte della Corte costituzionale, laddove decida di dichiarare l’illegittimità di una determinata norma sanzionatoria in quanto giudicata sproporzionata. A tal proposito, la Consulta ha avuto modo di confermare il superamento della dottrina delle “rime obbligate”[23], che aveva caratterizzato per lungo tempo il proprio scrutinio di costituzionalità in materia di proporzionalità delle sanzioni penali. Infatti, laddove una determinata sanzione venga dichiarata illegittima in quanto giudicata sproporzionata, essa viene direttamente caducata e, laddove non venga prontamente sostituita, viene a crearsi un vuoto di tutela determinato dalla perdita della riposta sanzionatoria relativa ad un determinato illecito (formalmente penale o sostanzialmente punitivo): a fronte di tale problematica la Corte costituzionale, preoccupata di trovare una soluzione che risultasse compatibile con il principio di stretta legalità che caratterizza il diritto penale e che le permettesse di evitare l’adozione di scelte – in una materia alquanto delicata quale è quella sanzionatoria – a carattere assolutamente discrezionale, ha per lungo tempo aderito alla tesi delle “rime obbligate”, in base alla quale i giudici costituzionali possono dichiarare l’illegittimità di una determinata norma sanzionatoria per violazione del principio di proporzionalità solamente nel caso in cui sia riscontrabile una sanzione che sia idonea a sostituirsi a quest’ultima in quanto prevista per fatti connotati da un disvalore analogo a quello punito con la pena dichiarata illegittima e che, in virtù di ciò, rappresenta l’unica soluzione adottabile – che appare, quindi, implicitamente imposta dall’ordinamento – nonché rispettosa del principio di legalità penale, dal momento che la sua applicazione estensiva ad un’altra fattispecie non si configura in alcun modo come una scelta discrezionale da parte della Consulta. Tutto ciò ha condotto al costante utilizzo[24] dell’argomento del tertium comparationis, in base al quale la Corte procede ad individuare – al fine di svolgere il giudizio di proporzionalità di una determinata sanzione – una norma all’interno dell’ordinamento penale che punisca fatti connotati da un disvalore e da caratteri simili rispetto a quelli sanzionati dalla disposizione censurata così che, da un lato, possa fungere da metro di paragone per verificare la ragionevolezza o meno del trattamento sanzionatorio accusato di sproporzionalità e, dall’altro lato, consenta, in caso di violazione del principio di proporzionalità, di mutuare direttamente dalla fattispecie sanzionatoria usata come metro di paragone il nuovo quantum sanzionatorio da applicare in sostituzione di quello illegittimo.
A partire da una pronuncia del 2016[25], tuttavia, la Consulta ha abbandonato il necessario riferimento al tertium comparationis, andando a dichiarare costituzionalmente illegittime sanzioni penali e amministrative punitive[26] irragionevolmente sproporzionate di per sé, in rapporto alla gravità dell’illecito e al relativo trattamento sanzionatorio complessivamente considerato, senza dover necessariamente porre in essere una comparazione con norme sanzionatorie previste per fattispecie simili[27]; al tempo stesso, ha anche superato il costante riferimento all’argomento delle “rime obbligate”. Tale mutamento è stato essenzialmente giustificato dalla necessità della Corte costituzionale stessa di non limitare eccessivamente la propria possibilità di intervento in relazione ai casi in cui entri in gioco la (possibile) violazione di principi e diritti fondamentali quali, in particolare, la tutela della libertà personale e la finalità rieducativa della pena: pertanto, la Consulta ha espressamente sostenuto che, al fine di poter intervenire su norme sanzionatorie violative del principio di proporzionalità, non è necessaria la presenza di un’unica soluzione costituzionalmente vincolata, che si sostituisca a quella illegittima dal momento che, altrimenti, rimarrebbero in vigore fattispecie incriminatrici che appaiono in contrasto con la Costituzione, lasciando prive di protezione le istanze di tutela effettiva dei principi e dei diritti fondamentali, che vengono di volta in volta incisi dalle scelte sanzionatorie effettuate dal legislatore[28]. Quindi, in virtù del superamento delle rime obbligate, la Corte ha affermato la possibilità di individuare autonomamente la cornice edittale da sostituire a quella dichiarata illegittima, potendola ricavare non in base all’unica soluzione possibile imposta dall’ordinamento – individuata attraverso il confronto con una fattispecie simile quale tertium comparationis –, bensì in base ad un apprezzamento della Consulta stessa che esamini le varie e plurime soluzioni già presenti nell’ordinamento e individui quella che tra di esse appare essere la più conforme e la più adeguata ai principi costituzionali, lasciando pur sempre la possibilità al legislatore di intervenire successivamente alla pronuncia, secondo la propria discrezionalità, per adottare un nuovo trattamento sanzionatorio. Oggi, dunque, come ha confermato la pronuncia in esame, la Corte costituzionale è libera di poter individuare la fattispecie sanzionatoria da sostituire a quella considerata illegittima costituzionalmente, in quanto violativa del principio di proporzionalità, mediante un confronto con l’intero sistema sanzionatorio – penale o amministrativo-punitivo – e potendo optare tra una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la volontà espressa dal legislatore, senza doversi ritenere necessariamente condizionata ad un’unica scelta, considerata come imposta dal sistema e individuata attraverso lo strumento del tertium comparationis. Tali conclusioni possono certamente condividersi, dal momento che hanno l’importante funzione di rendere maggiormente ampio, pregnante e, quindi, effettivo, lo scrutinio da parte della Consulta del rispetto del principio di proporzionalità da parte di tutte le misure sanzionatorie, vuoi (formalmente) penali, vuoi (sostanzialmente) punitive; in tal modo, viene sicuramente rafforzata questa importante garanzia costituzionale che trova il suo costante fondamento normativo nell’art. 3 Cost. in combinato disposto con il principio rieducativo della pena (art. 27, c. 3 Cost.), in relazione alle sanzioni penali, oppure, con riguardo alle sanzioni amministrative punitive, con i singoli diritti costituzionalmente rilevanti, che vengono di volta in volta compressi dall’illecito amministrativo. Occorre comunque notare che, nel caso di specie oggetto della pronuncia, la Corte ha individuato il trattamento sanzionatorio da applicare in sostituzione di quello illegittimo previsto dall’art. 726 c.p., in quello previsto per la fattispecie degli atti osceni colposi, la quale è connotata da un disvalore simile a quella censurata, giungendo così ad un risultato del tutto simile a quello che si sarebbe ottenuto mediante il classico riferimento all’argomento del tertium comparationis – come d’altronde esplicitamente prospettato dal giudice rimettente.
7.2 Il secondo punto rilevante e centrale di questa sentenza è rappresentato dal fatto che può ormai affermarsi con certezza che il principio di proporzionalità della sanzione penale si applica anche a tutte le sanzioni punitive, indipendentemente dalla qualificazione formale ad esse fornita dal legislatore. Questa estensione dell’ambito di applicazione del principio in questione appare particolarmente importante per due motivi. Innanzitutto, essa amplia lo statuto garantistico applicabile a tutte le sanzioni amministrative aventi un carattere punitivo, confermando ulteriormente la piena ricezione all’interno dell’ordinamento italiano della nozione sostanziale di materia penale, elaborata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo; in aggiunta all’estensione dei principi intertemporali tipici della legge penale oltre l’ambito del diritto penale formale, può ormai definitivamente considerarsi come appartenente al patrimonio garantistico del diritto punitivo anche il principio di proporzionalità[29]. Tale estensione “orizzontale”[30] della proporzionalità appare peraltro coerente non solo con l’ordinamento convenzionale, bensì anche con quello dell’Unione Europea, dal momento che l’art. 49, c. 3, CDFUE enuncia espressamente tale canone garantistico come uno dei principi fondamentali del diritto europeo, comportandone una rilevanza non solo nella prospettiva sovranazionale, bensì anche in quella interna, quale necessario criterio orientativo dell’interpretazione delle altre garanzie costituzionali presenti nell’intero ambito dell’ordinamento giuridico italiano[31]. In conseguenza di tutto ciò, risulta ancora di più valida l’importante considerazione generale della Corte costituzionale – ormai stabilmente presente nella propria giurisprudenza e ricavata da quanto costantemente affermato dalla Corte EDU – secondo la quale «tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto»[32]: l’estensione del principio di proporzionalità alle sanzioni amministrative punitive, infatti, conferma la necessità di ripensare e rimodulare l’intero apparato delle garanzie ad esse applicabili per renderlo corrispondente – nei limiti delle differenze comunque presenti tra la sanzione propriamente penale e quella amministrativo-punitiva – a quello previsto per gli illeciti formalmente penali, e caratterizzato da un più elevato standard di tutela per l’individuo.
Ovviamente, il fondamento costituzionale del principio in questione non può essere rintracciato, in riferimento alle sanzioni amministrative, nel principio del necessario finalismo rieducativo della pena ex art. 27, c. 3, Cost., dal momento che esso è esclusivamente proprio della sanzione penale (in particolar modo quella carceraria); tuttavia, risulta importante sottolineare come la Corte abbia affermato che esso, nel campo amministrativo-punitivo, trae comunque la propria giustificazione dall’art. 3 Cost. in combinato disposto con i diritti di volta in volta compressi dalla singola sanzione amministrativa che viene presa in considerazione – e riguardanti, ad esempio, la sfera patrimoniale individuale (art. 23 Cost.) o la libertà di iniziativa economica (art. 42 Cost.) –, dal momento che le misure sanzionatorie punitive condividono con la pena il carattere reattivo rispetto ad un fatto considerato illecito, nonché l’aspetto dell’inflizione di una sofferenza all’autore di quest’ultimo – configurata in termini di restrizione di un diritto e direttamente giustificata da una finalità non meramente preventiva o riparatoria, bensì anche o esclusivamente punitiva – e, per tali motivi, prospettano anch’esse l’esigenza che non venga mai irragionevolmente meno il rapporto di congruità tra la sanzione e il relativo illecito.
7.3 Infine, meritano di essere evidenziate ancora due considerazioni conclusive sulla pronuncia in esame. Innanzitutto, pur non costituendo l’oggetto del petitum, la Corte non si sofferma sul considerare la cronica problematicità della fattispecie sanzionatoria censurata – presente fin dalla sua genesi penalistica –, inerente alla evidente indeterminatezza che caratterizza la nozione di pubblica decenza e che, d’altronde, affligge anche la fattispecie di atti osceni (art. 527 c.p.), su cui i giudici costituzionali si sono a lungo soffermati nella motivazione. Nel corso di quest’ultima, la Consulta ha compiutamente ricostruito la giurisprudenza formatasi nel corso degli anni circa la differenziazione tra gli “atti contrari alla pubblica decenza” e gli “atti osceni”, giungendo a conclusioni che, seppure condivisibili, sembrano ampiamente ignorare il fatto che ancora oggi risulta difficile delineare con certezza cosa possa rientrare all’interno della nozione di “osceno” – nonché, ex ante, se sia legittimo incriminare condotte poste a tutela di beni giuridici (quali il buon costume, il pudore o la pubblica decenza), la cui esatta definizione è sempre apparsa contrastata in dottrina, anche se, a seguito dell’avvenuta depenalizzazione di gran parte delle singole fattispecie, tale problematica è oggi passata in parte in secondo piano – e di “contrario alla pubblica decenza”; infatti, anche se la fattispecie censurata presenta una natura (formalmente) amministrativa, occorre però sottolineare che la Corte costituzionale ha riconosciuto l’estensione dell’ambito applicativo dei principi di prevedibilità, di conoscibilità e di determinatezza del precetto – oltre che, come detto, di irretroattività sfavorevole e di retroattività favorevole, nonché di proporzionalità – anche in relazione alle sanzioni amministrative[33]. La Corte, non investita della questione, non si è interrogata sull’effettivo rispetto del principio di determinatezza da parte delle fattispecie sanzionatorie implicate dal caso di specie, che rimane tutt’ora dubbia[34], come dimostrano le difficoltà emerse nel delineare una effettiva distinzione tra gli atti osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza, che si sono costantemente manifestate fin dalla dottrina e dalla giurisprudenza più risalenti, e che sono state riassuntivamente affrontate e risolte dalla Consulta nella motivazione della pronuncia in questione.
La seconda e ultima considerazione che merita di essere sviluppata è, invece, relativa al fatto che l’estensione del principio di proporzionalità alle sanzioni amministrative dimostra come i fenomeni di depenalizzazione non sempre determinano l’introduzione di trattamenti sanzionatori più favorevoli per il reo: come emerge chiaramente da questa pronuncia, infatti, la cornice edittale censurata dalla Consulta – e prevista per la fattispecie ex art. 726 c.p. – è risultata non solo ampiamente sproporzionata rispetto alla gravità dell’illecito sanzionato, ma anche in concreto più gravosa per l’individuo rispetto alle precedenti sanzioni penali, in quanto caratterizzata da un quantum sanzionatorio che, seppure di natura esclusivamente pecuniaria, è apparso connotato da una elevata afflittività. Questi aspetti confermano le osservazioni ormai stabilmente presenti all’interno delle argomentazioni della giurisprudenza costituzionale e relative al , non sempre più favorevole per l’individuo, dell’illecito amministrativo depenalizzato e delle rispettive sanzioni: come affermato dalla Corte se, in generale, è ammissibile una presunzione di maggior favore del trattamento sanzionatorio amministrativo rispetto alle previgenti sanzioni penali, in ogni caso essa non può che considerarsi relativa (e mai assoluta), in quanto deve sempre essere ammessa la possibilità di dimostrare, caso per caso, che il nuovo illecito amministrativo depenalizzato risulti connotato da un apparato sanzionatorio in concreto più gravoso di quello previgente; infatti, non può mai essere ignorato l’impatto che la sanzione amministrativa può avere sui diritti fondamentali della persona, dal momento che essa, pur non potendo mai incidere, a differenza della sanzione penale, sulla libertà personale del trasgressore, e pur essendo caratterizzata da una carica di stigmatizzazione ridotta, è comunque in grado di assumere in concreto una elevatissima carica afflittiva[35]. Un esempio di ciò è rappresentato dall’introduzione dell’illecito amministrativo depenalizzato di abuso e comunicazione illecita di informazioni privilegiate (art. 187-bis T.u.f.), per il quale il legislatore ha previsto la sanzione amministrativa pecuniaria stabilita tra un minimo di ventimila euro ed un massimo di cinque milioni di euro (che, peraltro, fino al 2018 era invece individuato in quindici milioni di euro), in unione con l’applicazione della confisca per equivalente, mentre la previgente disciplina penalistica stabiliva la reclusione fino a due anni e la multa fino ad un massimo di seicento milioni di lire (circa trecentomila euro) e non prevedeva la confisca per equivalente, bensì solo quella diretta; in questo caso, il nuovo trattamento sanzionatorio amministrativo è risultato, secondo la Consulta, in concreto più deteriore di quello penalistico previgente, ed è stato pertanto sottoposto al principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole[36]. Proprio la raggiunta consapevolezza circa il fatto che le sanzioni amministrative introdotte a seguito di interventi di depenalizzazione possono risultare in concreto più sfavorevoli rispetto al previgente trattamento sanzionatorio di natura penale – con una valutazione circa il maggiore o il minor favore della nuova disciplina, che risulta di esclusiva competenza della Corte costituzionale che, a tal fine, svolge un sindacato che si rivolge al complessivo trattamento sanzionatorio inerente ad una determinato illecito[37] – ha, quindi, condotto all’estensione, agli illeciti amministrativi depenalizzati, del principio di irretroattività prima e di quello di retroattività favorevole dopo[38], e, da ultimo, anche quello di proporzionalità della pena, come ribadito proprio dalla pronuncia in commento.
All’esito di queste considerazioni circa il carattere non sempre più favorevole delle sanzioni amministrative depenalizzate rispetto a quelle precedenti di natura penale – che ha giustificato, in unione con l’adozione di una nozione allargata e sostanziale di materia penale, l’estensione dei principi garantistici propri della sanzione penale al campo delle sanzioni amministrative – e alla luce di quanto emerso dalla pronuncia in commento, dalla quale appare chiaro come la nuova disciplina amministrativa inerente alla fattispecie ex art. 726 c.p. presenti una cornice sanzionatoria in concreto più gravosa rispetto a quella che caratterizzava la precedente sanzione penale, si può allora ribadire che non sempre depenalizzazione equivale a mitigazione[39] e, in virtù di ciò, non si può che salutare con favore il generale processo di progressiva estensione delle garanzie tipicamente penalistiche all’intera area del diritto punitivo.
[1] Per un’ampia e approfondita trattazione del principio di proporzionalità della pena si rimanda alla recente monografia di Viganò (peraltro giudice costituzionale estensore della pronuncia in commento), La proporzionalità della pena. Profili di diritto penale e costituzionale, Torino, 2021.
[2] La prima pronuncia in cui compare esplicitamente l’idea di una proporzione della pena, in riferimento al principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., è la n. 50 del 1980; cfr. C. cost., 14 aprile 1980, n. 50.
[3] Sulla nozione di materia penale e sul tema delle sanzioni amministrative sostanzialmente punitive si vedano le due monografie a carattere generale di Mazzacuva F., Le pene nascoste: topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico, Torino, 2017 e di Masera, La nozione costituzionale di materia penale, Torino, 2018.
[4] La sentenza che ha rappresentato il punto di svolta in relazione a questo argomento è C. cost., 5 dicembre 2018, n. 222.
[5] C. cost., 14 aprile 2022, n. 95, ritenuto in fatto, § 1.1
[6] Cass., sez. III, 5 dicembre - 4 febbraio 2014, n. 5478.
[7] Bassi, Art. 726, in Codice penale commentato, Tomo IV, a cura di Dolcini, Gatta, pp. 388-389.
[8] C. cost., 14 aprile 2022, n. 95, considerato in diritto, § 3.1
[9] ibidem
[10] ivi, considerato in diritto § 4.1
[11] C. cost., 17 aprile 2019, n. 88; C. cost., 10 maggio 2019, n. 112. In particolare, in quest’ultima pronuncia, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del T.u.f. nella parte in cui prevede, in relazione agli illeciti amministrativi stabiliti dagli artt. 187-bis – 187-ter.1 T.u.f., l’applicazione della sanzione della confisca amministrativa – diretta e per equivalente – estesa non solo al profitto acquisito attraverso l’illecito, bensì anche al prodotto e ai beni utilizzati per commetterlo; la Corte, infatti, ha ritenuto che la previsione di una confisca obbligatoria, anche per equivalente, dell’intero prodotto degli illeciti in questione rappresenti una vera e propria sanzione animata da finalità punitive che, in unione con gli elevati quantum pecuniari previsti dai singoli illeciti amministrativi in questione, conduce all’applicazione di risultati sanzionatori manifestatamente sproporzionati, risultando così apertamente in contrasto con il principio di proporzionalità, il quale trova applicazione in relazione a tutte le sanzioni aventi una connotazione punitiva.
[12] C. cost., 23 settembre 2021, n. 185. Per un commento di tale pronuncia si veda Tomasi, Nuove prospettive per il sindacato costituzionale sulla proporzionalità del trattamento sanzionatorio, in questa Rivista, 4 ottobre 2021, nonché Casavecchia, Sanzioni amministrative fisse e rime obbligate. Nota a Corte costituzionale, sentenza n. 185 del 2021, in Osservatorio costituzionale, fasc. 6/2021, p. 496 ss.
[13] Per l’estensione del principio di irretroattività si veda C. cost., 5 dicembre 2018, n. 223; in relazione al principio di retroattività della lex mitior, invece, si veda C. cost., 21 marzo 2019, n. 63.
[14] C. cost., 14 aprile 2022, n. 95, considerato in diritto, § 4.1
[15] A tal proposito la Corte non motiva il carattere punitivo della sanzione in esame considerandolo implicito; in ogni caso esso risulta evidente, sia in considerazione della finalità punitiva della sanzione sia della sua gravità e del fatto di discendere da condotte che, in origine, costituivano un illecito formalmente penale.
[16] C. cost., 14 aprile 2022, n. 95, considerato in diritto, § 4.2
[17] ivi, considerato in diritto §4.3.1
[18] Gli atti osceni dolosi erano puniti con la reclusione da tre mesi a tre anni, mentre l’art. 726 c.p. costituiva una contravvenzione sanzionata con l’arresto da cinque giorni a un mese o, in alternativa, con un’ammenda quantificata, da ultimo, da 10 a 206 euro.
[19] ivi, considerato in diritto §4.3.2
[20] ibidem
[21] ivi, considerato in diritto § 5.
[22] ibidem
[23] Per un approfondimento si rinvia a Viganò, La proporzionalità, cit., pp. 282-290.
[24] Si veda, ad esempio, C. cost., 23 marzo 2012, n. 68, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 del Codice penale nella parte in cui, nel punire il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, non prevede che la pena da esso comminata possa essere ridotta in virtù dell’attenuante del fatto di lieve entità che, invece, è espressamente stabilita in relazione ad una fattispecie avente un carattere affine ed omogeneo, cioè il sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289-bis), assunta quale tertium comparationis. Per un esempio, invece, di un caso in cui non è stata rivenuta la violazione del principio di proporzionalità prospettata dal giudice rimettente, in quanto le fattispecie poste a confronto con quella censurata non hanno rappresentato dei validi termini di paragone idonei a fungere quali tertia comparationis, si veda C. cost., 22 maggio 2009, n. 161.
[25] C. cost., 10 novembre 2016, n. 236. Su tale pronuncia si veda Dolcini, Pene edittali, principio di proporzione, funzione rieducativa della pena: la Corte costituzionale ridetermina la pena per l’alterazione di stato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, p. 1956 ss., nonché Viganò, Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2/2017, p. 61 ss. Peraltro, occorre specificare che le tracce di questo “cambiamento di rotta” dell’orientamento della Consulta erano già disseminate in alcune precedenti pronunce, in cui l’argomento del tertium comparationis era stato assunto non più come criterio di verifica della possibilità di accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione a pene potenzialmente sproporzionate, bensì esclusivamente come metodo di individuazione del quantum sanzionatorio da sostituire alla pena dichiarata illegittima. I giudici costituzionale hanno, invece, incominciato a far riferimento alla “ragionevolezza intrinseca” della previsione sanzionatoria quale parametro di controllo del rispetto del principio di proporzionalità da parte di quest’ultima – in unione, ma solo più in senso complementare, con il confronto rispetto a pene previste per fatti simili, tali da fungere quali tertia comparationis; a tal proposito si veda C. cost., 22 luglio 1994, n. 341, con la quale la Consulta aveva dichiarato l’incostituzionalità del minimo edittale di sei mesi di reclusione previsto per il delitto di oltraggio (art. 341, c. 1, c.p.), utilizzando un impianto argomentativo composito che faceva principalmente riferimento alla razionalità della norma sanzionatoria rispetto agli scopi di tutela da essa perseguiti – anche utilizzando uno sguardo comparatistico – e, solo come argomento conclusivo, veniva utilizzato il ricorso al tertium comparationis, prendendo in quel caso come riferimento il delitto di ingiuria (art. 594 c.p.).
[26] C. cost., 10 maggio 2019, n. 112. Per un commento di tale pronuncia si veda Acquaroli, La confisca e il controllo di proporzionalità: una buona notizia dalla Corte costituzionale, in Dir. pen. proc., 2/2020, p. 197 ss.
[27] Peraltro, occorre evidenziare che le argomentazioni della Consulta in ordine al giudizio sulla proporzionalità di una determinata sanzione hanno assunto un carattere sempre più eterogeneo e composito che unisce, da un lato, l’argomento inerente al confronto tra la fattispecie censurata e quelle connotate da un disvalore e da elementi simili (che fungono da tertia comparationis) e, dall’altro, quello che fa riferimento ad uno scrutinio di ragionevolezza della previsione sanzionatoria più ampio, basato sul raffronto di quest’ultima con il complessivo sistema sanzionatorio, al fine di individuare eventuali indici di una sua intrinseca irragionevolezza in rapporto all’intero apparato delle fattispecie incriminatrici. Ciò, ad esempio, si riscontra anche in una sentenza di poco precedente a quella in commento, con la quale la Corte è giunta a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’aggravante prevista, in relazione al delitto di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, dall’art. 12, c. 3, lett. d), del Testo unico sull’immigrazione per violazione del principio di proporzionalità della pena. Cfr. C. cost., 10 marzo 2022, n. 63; per un commento di tale pronuncia si veda Zirulia, La Corte costituzionale sul favoreggiamento dell’immigrazione irregolare: illegittima l’aggravante che parifica il trattamento sanzionatorio dei trafficanti a quello di coloro che prestano un aiuto per finalità solidaristiche, in questa Rivista, 23 marzo 2022.
[28] Ciò è stato esplicitamente affermato in C. cost., 5 dicembre 2018, n. 222, considerato in diritto § 8.1
[29] Sul processo di estensione delle garanzie penalistiche alle sanzioni amministrative si veda Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 1775 ss.
[30] La definizione è di Viganò, La proporzionalità, cit., p. 294.
[31] ivi, p. 297. Inoltre, si segnala una recente pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione Europea che ha affermato come il criterio di proporzionalità della sanzione penale, enunciato dall’art. 49, c. 3, CDFUE, sia dotato di effetto diretto nell’ordinamento degli Stati membri, potendo così condurre alla disapplicazione delle discipline legislative nazionali che risultano con esso contrastanti. Per l’esame di tale importante sentenza si rimanda a Viganò, La proporzionalità della pena tra diritto costituzionale italiano e diritto dell’Unione europea: sull’effetto diretto dell’art. 49, paragrafo 3, della Carta alla luce di una recentissima sentenza della Corte di giustizia, in questa Rivista, 26 aprile 2022.
[32] C. cost., 4 giugno 2010, n. 196, considerato in diritto, § 3.1.5
[33] A tal proposito si veda C. cost., 7 giugno 2018, n. 121, nella quale la Consulta ha affermato, con esplicito riferimento alle sanzioni amministrative, che «il principio di legalità, prevedibilità e accessibilità della condotta sanzionabile e della sanzione aventi carattere punitivo-afflittivo, qualunque sia il nomen ad essa attribuito dall’ordinamento […] non può, ormai, non considerarsi patrimonio derivato non soltanto dai principi costituzionali, ma anche da quelli del diritto convenzionale e sovranazionale europeo, in base ai quali è illegittimo sanzionare comportamenti posti in essere da soggetti che non siano stati messi in condizione di "conoscere”, in tutte le sue dimensioni tipizzate, la illiceità della condotta omissiva o commissiva concretamente realizzata» (ivi, considerato in diritto § 15.3). Nello stesso senso, C. cost. 29 maggio 2019, n. 134.
[34] Sulle problematiche generate dalla tutela penalistica del buon costume e dalla conseguente repressione dell’osceno, si segnala la classica monografia di Fiandaca, Problematica dell’osceno e tutela del buon costume, Padova, 1984. Peraltro, secondo l’Autore – che, tuttavia, si concentra sulla nozione di osceno e solo marginalmente su quella di atti contrari alla pubblica decenza – le fattispecie che fanno riferimento a concetti assolutamente generali come quelli di “atto osceno” o di “buon costume”, si pongono necessariamente in contrasto con il principio di determinatezza, dal momento che fanno riferimento a nozioni che di per sé rimandano, per la loro concretizzazione, a valori etico-sociali propri di una determinata collettività, che possono fungere da parametro certo e determinato, al fine dell’individuazione delle condotte sanzionate, solo se quest’ultima sia particolarmente omogenea al proprio interno e produca, di conseguenza, una scala unitaria di valori; invece, nelle società ampiamente pluraliste ed eterogenee – come quelle democratiche contemporanee – che non risultano caratterizzate né da un’ideologia né da concezioni etico-sociali dominanti, diventa impossibile riscontrare comportamenti o atteggiamenti sociali univoci ed uniformi che legittimano un’obiettiva posizione assiologica tale da giustificarne la relativa incriminazione in quanto contrari al buon costume o corrispondenti al senso di osceno; cfr. ivi, pp. 84-93.
[35] Tali conclusioni sono state raggiunte da C. cost., 5 dicembre 2018, n. 223.
[36] ivi, considerato in diritto, §§ 6.3-6.4
[37] Non sono mancate, a tal proposito, delle critiche da parte della dottrina riguardanti, in particolare, l’eccessiva indeterminatezza ed incertezza applicativa che caratterizzerebbe il criterio del riferimento al complessivo trattamento sanzionatorio inerente ad una determinata fattispecie di illecito depenalizzato, al fine di individuare il carattere più o meno favorevole per il reo di quest’ultimo rispetto alla precedente disciplina penalistica; a tal proposito si veda: Consulich, La materia penale: totem o tabù? Il caso della retroattività in mitius della sanzione amministrativa, in Dir. pen. proc., 4/2019, pp. 472-473; Tigano, Successione di leggi penali ed amministrative punitive, disposizioni transitorie e condizioni di compatibilità con il principio di irretroattività, in Arch. pen., 3/2019, p. 39 ss.; Nardocci, Retroattività sfavorevole e sanzione amministrative: esiste ancora un’autonomia per le garanzie costituzionali in materia penale?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, pp. 612-613. Peraltro, anche Francesco Viganò, giudice estensore della sentenza n. 223 del 2018, con la quale si è esplicitamente affermata la necessità di valutare sempre il carattere di maggiore o minore sfavore dell’illecito amministrativo depenalizzato, facendo riferimento al complessivo trattamento sanzionatorio ad esso inerente, aveva prospettato, prima di essere nominato giudice costituzionale, dei dubbi sull’opportunità di un tale giudizio incentrato sul raffronto dell’intero apparato sanzionatorio amministrativo rispetto a quello penale; tali rilievi critici erano stati sollevati in occasione di un commento ad una pronuncia della Corte costituzionale non di molto antecedente alla n. 223 del 2018, con la quale erano state rigettate le stesse questioni di illegittimità costituzionale, che sono state poi accolte da quest’ultima, a causa della mancata verifica da parte del giudice rimettente circa il carattere maggiormente sfavorevole dell’illecito amministrativo depenalizzato in questione (cfr. C. cost., 7 aprile 2017, n. 68); a tal proposito si veda Viganò, Un’altra deludente pronuncia della Corte costituzionale in materia di legalità e sanzioni amministrative ‘punitive’, in Dir. pen. cont., fasc. 4/2017, p. 269 ss. Viganò, peraltro, ha successivamente “difeso” il cambiamento operato dalla Corte costituzionale attraverso la pronuncia da lui redatta, sostenendo come l’incertezza applicativa che deriverebbe dal riferimento al complessivo trattamento sanzionatorio inerente all’illecito amministrativo oggetto di scrutinio, viene in realtà meno, dal momento che la valutazione del maggior o minor favore di quest’ultimo è demandata in via esclusiva alla Corte costituzionale – che rappresenta l’unico organo in grado di sindacare le scelte discrezionali del legislatore – e non può mai essere rimessa ai giudici comuni che, invece, devono necessariamente sollevare una questione di legittimità costituzionale, facendo così venir meno le eventuali oscillazioni applicative della prassi giudiziaria sul carattere più o meno favorevole della nuova disciplina sanzionatoria depenalizzata; cfr. Viganò, Garanzie penalistiche, cit., p. 1796.
[38] C. cost., 21 marzo 2019, n. 63. Per un commento di tale pronuncia si veda Scoletta, Retroattività favorevole e sanzioni amministrative punitive: la svolta, finalmente, della Corte costituzionale, in Dir. pen. cont., 2 aprile 2019.
[39] Tale espressione è presa in prestito da Gatta, Non sempre ‘depenalizzazione’ equivale a ‘mitigazione’. La Corte costituzionale sull’irretroattività delle sanzioni amministrative ‘punitive’ più sfavorevole di quelle penali (a proposito della confisca per equivalente per l’insider trading secondario), in Dir. pen. cont., 13 dicembre 2018.