Corte cost., sent. 20 dicembre 2019, n. 279, Pres. Carosi, Red. Viganò
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Diamo sintetica ed immediata notizia, in attesa di un eventuale commento critico, riguardo ad una sentenza della Corte costituzionale riconducibile alla categoria del cosiddetto rigetto con monito, e dunque particolarmente significativa nonostante il dispositivo di infondatezza che la caratterizza.
La materia è quella della esecuzione delle pene pecuniarie, il cui ruolo la Corte ha inteso chiaramente rivitalizzare, anche nella prospettiva della loro conversione in misure parzialmente limitative della libertà, così restituendo effettività alle sanzioni in discorso e portando un nuovo equilibrio nel complessivo sistema delle pene. Per raggiungere lo scopo, la Consulta è giunta per così dire a “mutare il verso” della questione sollevata dal rimettente, il quale in realtà pareva intenzionato ad ostacolare la procedura di conversione, in base a preoccupazioni concernenti il diritto di difesa e, più radicalmente, la stessa compatibilità costituzionale della conversione di pene pecuniarie non riscosse.
1. La norma censurata.
Si trattava del comma 3 dell’art. 238-bis del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle spese di giustizia), il quale dispone «Ai medesimi fini di cui al comma 2, l'ufficio investe, altresì, il pubblico ministero se, decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell'agente della riscossione e in mancanza della comunicazione di cui al comma 2, non risulti esperita alcuna attività esecutiva ovvero se gli esiti di quella esperita siano indicativi dell'impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa». Il comma 2 dello stesso articolo prevede: «L'ufficio investe il pubblico ministero perché attivi la conversione presso il magistrato di sorveglianza competente, entro venti giorni dalla ricezione della prima comunicazione da parte dell'agente della riscossione, relativa all'infruttuoso esperimento del primo pignoramento su tutti i beni». In sostanza – al fine di evitare che l’inerzia dell’agente della riscossione possa paralizzare il procedimento di conversione – la norma censurata equipara l’omissione (o la palese inutilità) della procedura esecutiva all’esito negativo della procedura medesima, sia pur delineando un termine di ventiquattro mesi per la maturazione del meccanismo alternativo.
2. I parametri costituzionali e le censure.
Proprio la parificazione di cui si è detto costituiva l’oggetto della critica del rimettente, il quale considerava la norma censurata illegittima «nella parte in cui, ai fini dell’attivazione della procedura di conversione delle pene pecuniarie dinanzi al magistrato di sorveglianza, parifica all’ipotesi della comunicazione di esperimento infruttuoso della procedura esecutiva l’ipotesi di mancato esperimento della procedura esecutiva decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell’agente della riscossione» (questa la sintesi compiuta dalla stessa Consulta).
Una siffatta disciplina violerebbe l’art. 3 Cost., provocando l’instaurazione automatica della procedura di conversione anche nei confronti di condannati potenzialmente solvibili, e però rimasti ignari della procedura esecutiva in corso, data la possibilità di notifiche corrette me non efficaci sul piano della comunicazione effettiva in favore dell’interessato: dunque, una illecita parificazione di trattamento rispetto a debitori consapevoli della procedura.
Il condannato non informato vedrebbe violato anche il proprio diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), restando privo della possibilità di interloquire sul provvedimento di conversione prima di averne notizia.
Infine, l’applicazione di una misura privativa della libertà nelle condizioni date implicherebbe lesione dell’art. 27, terzo comma, Cost., per la violazione dei principi di proporzionalità e della finalizzazione rieducativa della pena.
3. La risposta della Corte.
Come già si è anticipato, il dispositivo della sentenza è nel senso della infondatezza delle questioni sollevate.
In sintesi, la Corte ha rilevato che l’avvio della procedura è preceduto dalla notifica dell’invito al pagamento della pena pecuniaria, notifica la cui disciplina esclude la possibilità di considerare positiva la comunicazione nel caso di irreperibilità “assoluta” del condannato, e per il resto prevede adempimenti tali da rendere altamente probabile la conoscenza dell’intimazione. Cade dunque la premessa della pretesa sperequazione, perché anche il condannato non assoggettato all’esperimento delle procedure esecutive è persona consapevole della propria omissione e delle possibili sue conseguenze. Importante: il previo esperimento della riscossione forzata non è dunque presupposto necessario di legittimazione della conversione, non nell’ottica dell’uguaglianza tra i cittadini (art. 3 Cost.).
D’altra parte le chances del condannato non sono esaurite per l’applicazione della norma censurata. Prima di disporre la conversione, il magistrato di sorveglianza dovrà accertarne la «effettiva insolvibilità», anche attraverso «le opportune indagini nel luogo del domicilio o della residenza, ovvero dove si abbia ragione di ritenere che lo stesso possieda altri beni o cespiti di reddito», da effettuarsi se necessario sollecitando la cooperazione degli «organi finanziari». Se all’esito il condannato risulta solvibile, anche e soltanto in prospettiva, la riconversione non viene disposta (e si determina l’alternativa tra riscossione forzata e rateizzazione dei versamenti).
Per le stesse ragioni è infondata la censura riferita all’art. 24 Cost. (con contestuale evocazione degli artt. 47 e 48 della Carta di Nizza, priva per altro di giustificazione a proposito della pertinenza della questione al diritto dell’Unione): la procedura non riguarda persona inconsapevole, e comunque è seguita da una nuova procedura garantita, prima che il provvedimento pregiudizievole venga adottato.
L’argomento infine del difetto di proporzionalità (art. 27, terzo comma Cost.) mira a contestare in radice lo “scambio” tra pagamento della pena pecuniaria e quote di libertà personale, “scambio” che invece la Consulta ha più volte considerato compatibile con la Costituzione, purché sussistano determinate cautele legislative (da ultimo, sentenza n. 108 del 1987).
4. Il monito.
Si è già accennato. Più che elementi ulteriori di complicazione, i quali di fatto sarebbero derivati dall’accoglimento delle questioni, il sistema richiede semplificazione, come già la Corte aveva detto con la citata sentenza n. 108, cui invece riforme stratificate hanno fatto seguire, appunto, una moltiplicazione degli adempimenti.
E lo scopo del monito pare chiaro, per quanto sinteticamente espresso: «Tale situazione, oggetto di diagnosi risalenti in dottrina, fa sì che la pena pecuniaria non riesca a costituire in Italia un’alternativa credibile rispetto alle pene privative della libertà, come accade invece in molti altri ordinamenti».