Corte cost., sent. 20 dicembre 2019, n. 284, Pres. Carosi, Red. Viganò
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Diamo sintetica ed immediata notizia, in attesa di eventuale commento critico, d’una sentenza della Corte costituzionale in materia di oltraggio a pubblico ufficiale, ed in particolare con riguardo agli attuali valori edittali di pena, giudicati troppo elevati dal rimettente. Le questioni sono state giudicate infondate.
Nell’occasione la Corte, pur dando nuova conferma del superamento della dottrina della marcata discrezionalità legislativa in materia di trattamento sanzionatorio (quale causa di inammissibilità delle relative questioni di legittimità costituzionale), ha osservato tra l’altro come censure in punto di proporzionalità siano concepibili molto più facilmente per i minimi che per i valori massimi della forbice edittale, «essendo normalmente possibile per il giudice utilizzare i propri poteri discrezionali ex art. 133 cod. pen. per commisurare – all’interno della cornice edittale – una pena inferiore, proporzionata al disvalore del fatto concreto».
1. La norma censurata.
Si trattava dell’art. 341-bis cod. pen. (oltraggio a pubblico ufficiale), introdotto dall’art. 1, comma 8, della legge 15 luglio 2009, n. 94, dopo che la tradizionale figura criminosa, delineata all’art. 341 cod. pen., era stata abrogata dalla legge 25 giugno 1999, n. 205.
Il primo comma della disposizione in vigore stabilisce: «Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l'onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d'ufficio ed a causa o nell'esercizio delle sue funzioni è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni». Subito va aggiunto, per altro, che nella versione applicabile alla persona processata nel giudizio a quo la norma incriminatrice non prevedeva minimo edittale, restando quindi determinata la pena minima in quindici giorni di reclusione ai sensi dell’art. 23 cod. pen. Solo successivamente ai fatti, e segnatamente con il decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53 (convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2019, n. 77), il valore in questione è stato elevato fino alla soglia vigente, cioè appunto la reclusione per sei mesi.
2. I parametri costituzionali e le censure.
L’illegittimità della norma censurata dipenderebbe anzitutto, secondo il rimettente, dalla violazione dell’art. 3 Cost., secondo una piana applicazione del principio di uguaglianza formale, che varrebbe tra l’altro ad indicare il valore edittale “sostitutivo” utile ad evitare la sperequazione.
Sostiene in particolare il giudice a quo che il trattamento dell’oltraggio a pubblico ufficiale non potrebbe essere più severo di quello riservato al delitto di «oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario», di cui all’art. 342 cod. pen.: fattispecie, quest’ultima, assunta a tertium comparationis, e punita con la sola pena pecuniaria (la multa da 1.000 a 5.000 euro). Entrambi i reati sarebbero infatti lesivi dell’onore e del prestigio di soggetti che rivestono la qualifica di pubblici ufficiali, e tutelerebbero interessi «sostanzialmente identici», dovendo l’offesa essere rivolta, nel caso della norma censurata, contro un singolo pubblico ufficiale, e contro «due o più pubblici ufficiali che operano in sinergia tra di loro» nel caso dell’art. 342 cod. pen., valendo poi per entrambe le fattispecie la condizione che l’offesa venga proferita in presenza dei soggetti passivi del reato.
Inoltre, la prevista pena massima di tre anni di reclusione si porrebbe in contrasto anche con il principio di proporzionalità, sancito dall’art. 27, terzo comma, Cost., da leggersi anche nella prospettiva segnata dall’art. 49, paragrafo 3, della Carta di Nizza, oltre che dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Le denunciate violazioni, come accennato, sarebbero riparabili, in sostanza, attraverso la dichiarazione di illegittimità dell’art. 341 cod. pen. nella parte in cui non prevede, per il reato di cui al primo comma, la pena della multa da 1.000 a 5.000 euro.
3. La risposta della Corte.
Come già si è anticipato, il dispositivo della sentenza è nel senso della infondatezza delle questioni sollevate.
La Corte non nega affatto che l’evoluzione della disciplina in materia di oltraggio sia stata tutt’altro che lineare, anche sul piano della comparazione tra l’art. 341 (figura originaria) e l’art. 342 cod. pen., che sanziona l’offesa ad un intero Corpo afferente l’esercizio del potere pubblico. È ben noto il giudizio di sproporzione per eccesso del trattamento sanzionatorio che condusse alla sentenza della Corte costituzionale n. 341 del 1994, per effetto della quale la sanzione minima restò fissata in quindici giorni di reclusione. Quella sentenza, rilevantissima per molti aspetti, esercitò sicura influenza sulle decisioni legislative che, in seguito, condussero addirittura all’abrogazione dell’art. 341, ed anche ad una riduzione del valore edittale minimo stabilito nell’art. 342 cod. pen., significativamente sceso a quindici giorni di reclusione.
Come si vede, il legislatore manifestava evidentemente la tendenza a considerare l’oltraggio singolo meno grave di quello recato ad un Corpo politico, amministrativo e giudiziario, tendenza che la stessa Corte costituzionale non mancò di giustificare con la sentenza n. 313 del 1995: la seconda fattispecie non poteva «affatto ricondursi, sul piano della lesività, ad una mera ipotesi di oltraggio “plurimo”, giacché […] è la specifica qualità dell’organo e delle attribuzioni che esso esprime a rappresentare la connotazione tipizzante e, dunque, un valore da tutelare adeguatamente anche sotto il profilo dell’onore e del prestigio, per i naturali riverberi negativi che l’offesa può in sé determinare sul corretto e sereno svolgimento delle funzioni che il corpo o il collegio è chiamato a esercitare».
Insomma, le doglianze del rimettente, che vede oggi un oltraggio singolo punito molto più severamente della fattispecie comparata, rimasta inalterata nei suoi requisiti strutturali, non sembrano certo del tutto infondate.
Ma la Corte ha deciso diversamente, sulla base in sostanza dei mutamenti strutturali che oggi segnano la previsione dell’oltraggio a pubblico ufficiale. Numerosi sono infatti gli elementi aggiuntivi rispetto alla configurazione originaria, e si è ritenuto, in sostanza, che valgano a delineare un fatto maggiormente lesivo dei beni tutelati.
L’offesa deve attingere l’onore e il prestigio del pubblico ufficiale, la condotta va tenuta in luogo pubblico o aperto al pubblico ed alla presenza di più persone, «mentre» il pubblico ufficiale compie un atto del suo ufficio, escludendosi dunque la rilevanza del fatto a titolo di oltraggio allorché l’offesa sia profferita in un diverso contesto spaziale e temporale.
La necessaria contestualità tra condotta oltraggiosa e atto dell’ufficio, in particolare, è giudicata dalla Corte quale espressione d’un rischio aggiuntivo di offesa, relativo alla concreta attuazione dello specifico compito attuato dal pubblico ufficiale, e dunque al regolare esercizio della pubblica funzione svolta.
Si vedrà se il novum può giustificare il ripristino d’un trattamento minimo già considerato illegittimo (questione non rilevante nella specie), ma certo la gerarchia tra oltraggio “singolo” ed oltraggio a Corpo del potere pubblico, secondo la Corte, ne esce sconvolta. Per l’integrazione della seconda fattispecie l’intralcio all’esercizio della funzione è solo sfumato ed eventuale, posto che l’art. 342 si «limita a richiedere che l’espressione offensiva sia profferita “al cospetto” del corpo, della sua rappresentanza o del collegio, ovvero addirittura mediante comunicazione offensiva “a distanza” diretta ai destinatari, senza esigere alcun nesso con il compimento di uno specifico atto dell’ufficio da parte dell’istituzione offesa».
Insomma, il trattamento sanzionatorio differenziale non è irragionevole.
D’altra parte è infondata, secondo la Consulta, anche la questione concernente la proporzionalità “intrinseca” della pena. Rimane stabilito ancora una volta che tale proporzionalità – ferma restando l’ampia discrezionalità di cui il legislatore gode nella determinazione delle cornici edittali – può essere direttamente sindacata quando la pena comminata risulti manifestamente eccessiva rispetto al fatto sanzionato, ricercando poi nel sistema punti di riferimento già esistenti per ricostruire in via interinale un nuovo quadro sanzionatorio.
Nella specie per altro, sul piano formale, il rimettente ha contestato il valore massimo edittale, rispetto al quale – in sé considerato – il giudice dispone di numerosi strumenti utili ad una riduzione, tale da consentire l’adeguamento della pena alle caratteristiche del caso concreto, contrariamente a quanto accade per il minimo o per meccanismi volti a neutralizzare proprio la discrezionalità giudiziale in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio. La questione avrebbe potuto dunque essere definita nel senso della inammissibilità, nella completa assenza di spiegazioni circa l’impossibilità nel caso concreto di applicare una pena comunque inferiore.
Ad ogni modo la Corte ha voluto intendere la censura come riferita al «complessivo quadro edittale previsto dalla disposizione in esame, e dunque anche del minimo legale di quindici giorni di reclusione». Ciò spiega il giudizio di infondatezza, poiché l’auspicata diminuzione della pena comminata fino al valore massimo della multa per 5.000 euro non troverebbe giustificazione, avendo la Corte già stabilito un differenziale tra la gravità della fattispecie censurata e quella della figura assunta quale tertium comparationis, con prevalenza della prima.