Scheda  
08 Giugno 2020


Incostituzionale il divieto assoluto di scambio di oggetti fra detenuti al 41 bis appartenenti al medesimo gruppo di socialità. Una nuova riperimetrazione del regime differenziato


Ilaria Giugni

Corte cost., sent. 5 maggio 2020, (dep. 22 maggio 2020), n. 97, Pres. Cartabia, Red. Zanon


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1. Con il deposito, lo scorso 22 maggio, della sentenza n. 97, la Corte costituzionale è nuovamente intervenuta sulle prescrizioni imposte ai detenuti sottoposti al regime differenziato ex art. 41 bis ord. pen., dichiarando l’illegittimità del comma 2 quater, lettera f), della richiamata disposizione, nella parte in cui stabilisce un divieto assoluto di scambiare oggetti fra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, per contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

La Consulta, infatti, proseguendo sulla strada tracciata in recenti pronunce – i.e. sent. nn. 143 del 2013[1] e 186 del 2018[2] –, ha inteso rimodulare una delle limitazioni imposte ai condannati sottoposti al cd. carcere duro, ravvisando una intollerabile eccedenza del mezzo rispetto allo scopo sotteso alla previsione ex lege di un divieto assoluto di scambio di oggetti e salvaguardando, ad un tempo, la possibilità che l'Amministrazione penitenziaria ripristini talune restrizioni, in relazione a singoli casi, per precise esigenze di sicurezza, eventualmente ravvisate in concreto da parte del magistrato di sorveglianza.

 

2. Ricostruiti i passaggi salienti delle due ordinanze di rimessione della prima sezione penale della Corte di Cassazione riunite (§§ 1, 2 e 2.1. della motivazione), e vagliata rapidamente l'ammissibilità della questione (§ 4)[3], la Corte costituzionale si concentra, in via preliminare, sulla delimitazione del perimetro della disposizione rimessa al proprio scrutinio (§ 5).

Osserva la Corte che la lettera f) del comma 2 quater dell'art. 41 bis ord. pen. – incisa, al pari delle restanti lettere della disposizione, dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, che ne ha sancito l'obbligatorietà stabilendo che il regime differenziato "prevede", e non più "può prevedere", le limitazioni ivi enumerate – stabilisce che siano adottate «tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi».

Tale disposizione mira, dunque, ad assicurare anche ai detenuti sottoposti al regime differenziato dei momenti di socialità inframuraria, limitando al contempo la possibilità che si creino pericolose occasioni per tenere vivi e rinsaldare legami con le organizzazioni criminali di appartenenza, circoscrivendone la fruizione all'interno di gruppi ristretti – i cd. gruppi di socialità, composti da non più di quattro detenuti, abbinati secondo complessi criteri e suscettivi di variazione – e determinandone la durata massima.

Sottoposto al vaglio della Corte è, però, in questo caso, il peculiare divieto di "scambiare oggetti", rimanendone esclusi quello di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e quello di cuocere cibi, già espunto dalla Corte costituzionale per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. con la richiamata sentenza n. 186 del 2018, redatta dal medesimo estensore di quella in commento. Di tale segmento dell'art. 41 bis, comma 2 quater, lett. f), a parere della Corte, è possibile avallare l'interpretazione offerta dal giudice rimettente, ritenendo, cioè, in ossequio alla giurisprudenza di legittimità più recente[4], che il divieto di scambiare oggetti – diversamente da quello di comunicazione, circoscritto dal legislatore expressis verbis ai soli membri di gruppi di socialità differenti – riguardi indistintamente tutti i detenuti sottoposti al regime differenziato, ivi inclusi coloro che siano ammessi a trascorrere insieme, all'interno del medesimo gruppo, alcune ore della giornata.

 

3. Così delimitata ed interpretata la disposizione sottoposta al proprio scrutinio, la Consulta si sofferma, più in generale, sulle ragioni sottese alle limitazioni dell'ordinaria disciplina trattamentale previste all'art. 41 bis ord. pen. e sul delicato bilanciamento con i diritti fondamentali, che deve garantirne la compatibilità con la Costituzione (§ 6).

Richiamando taluni recenti arresti – oltre alle richiamate sentenze nn. 143 del 2013 e 186 del 2018, anche la n. 122 del 2017[5], con cui pure si è affermata la legittimità costituzionale del divieto di scambiare libri e riviste con i familiari, stabilito in attuazione delle lettere a) e c) del comma 2 quater dell'art. 41 bis –, la Corte ribadisce che le peculiari modalità attuative del regime differenziato mirano «a contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all’esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno che lo stesso ordinamento penitenziario normalmente favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale» (§ 6). Il regime cd. di carcere duro avrebbe, dunque, lo scopo di evitare che «gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando l’ordinaria disciplina trattamentale, possano continuare (utilizzando particolarmente, in ipotesi, i colloqui con familiari o terze persone) a impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dall’interno del carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa» (§ 6).

La previsione di un regime differenziato, pur giustificata dalla necessità di assicurare che sia reciso ogni legame con il contesto di criminale di provenienza[6], incontra però ben precisi limiti, non potendo tradursi in una compressione assoluta e sproporzionata dei diritti dei detenuti ristretti al 41 bis. Perché le misure limitative previste siano compatibili con il dettato costituzionale, prosegue la Corte, è necessario che rispondano alle richiamate esigenze di ordine e sicurezza, non eccedendo lo scopo; viceversa, finirebbero per tradursi in restrizioni palesemente inidonee o incongrue rispetto alle finalità di law enforcement sottese, «divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale»[7].

 

4. A questo punto, la Corte passa a vagliare rispondenza e congruità della misura restrittiva sottoposta al proprio scrutinio – il divieto di scambiare oggetti (anche) fra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità – rispetto allo scopo di tutelare ordine e sicurezza collettivi, pervenendo ad un esito negativo a seguito della confutazione delle argomentazioni addotte a sostegno di necessità e legittimità della limitazione prevista all'art. 41 bis, comma 2 quater, lett. f) (§§ 7, 7.1. e 7.2.)

 

5. In primis, osserva la Consulta, non può ritenersi che il divieto assoluto di scambio di beni fra detenuti al 41 bis ammessi a fruire insieme delle ore di socialità risponda all'esigenza di evitare che l'oggetto dello scambio acquisisca un valore simbolico e comunicativo, così favorendo la trasmissione di messaggi all'esterno (§ 7.1.).

Una tale giustificazione, pur riconosciuta dalla stessa Corte quale sicuro e legittimo fondamento del divieto di scambiare con l'esterno libri e riviste nella richiamata sentenza n. 122 del 2017, non pare attagliarsi alla restrizione che qui interessa. I detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, infatti, evidenzia la Consulta, sono già autorizzati a trascorrere assieme due ore d'aria al giorno nei cortili di passeggio e alla partecipazione in comune di attività di tipo culturale, ricreativo e sportivo, di talché è ragionevole supporre che eventuali messaggi da recapitare all'esterno, lungi dall'essere affidati ad incerti canali comunicativi tramite i pochi oggetti che sono ammessi a portare con sé, siano veicolati tramite linguaggio verbale e non verbale in tali occasioni. Possibilità, quella di scambiare comunicazioni dirette all'esterno, comunque ridotta al minimo mediante le ordinarie attività di sorveglianza e perquisizione degli spazi comuni e sempre suscettibile di eventuale captazione ambientale disposta dall'autorità giudiziaria in specifici casi.

 

6. D'altra parte, prosegue la Corte, non pare neppure potersi ritenere che detto divieto assolva, se declinato in rapporto ad un medesimo gruppo di socialità, allo scopo d'impedire che taluno degli appartenenti al gruppo possa «acquisire, attraverso lo scambio di oggetti, una posizione di supremazia nel contesto penitenziario, simbolicamente significativa nell’ottica delle organizzazioni criminali e da comunicare, come tale, all’esterno del carcere» (§ 7.2.).

A raggiungere il risultato auspicato, infatti, sottolinea la Consulta, basta «l'applicazione rigorosa ed imparziale delle ordinarie regole del trattamento carcerario», risultando superflua ogni ulteriore restrizione: l'art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 230 del 2000, consente la cessione o lo scambio unicamente di beni di “modico valore”, di talché è esclusa in radice ogni possibilità di utilizzo di beni di rilevante valore quale mezzo di accrescimento del potere all'interno del carcere, come dimostrato dal fatto che, nei giudizi a quibus, i beni individuati quali oggetto di cessione erano rappresentati da generi alimentari – zucchero, caffè et similia – o, comunque, di prima necessità (per l’igiene personale o la pulizia della cella) inviati dall’esterno – e quindi sottoposti alle ulteriori limitazioni ex art. 41 bis, comma 2 quater, lettera c), ord. pen. – o acquistati al cd. sopravvitto.

La Consulta non accoglie, sul punto, neppure l'ulteriore rilievo formulato dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo il quale la limitazione prevista alla lettera f) del comma 2 quater dell'art. 41 bis risponderebbe all'esigenza di evitare che una tale posizione di preminenza, all'interno del medesimo gruppo di socialità, sia raggiunta o consolidata attraverso l'imposizione di cessioni di oggetti, comunque contingentati e pertanto essenziali alla vita di ciascun detenuto. Un tale argomento, secondo la Corte, non tiene in debito conto la perdurante attività di monitoraggio cui sono sottoposti i gruppi di socialità, che sono non solo assemblati secondo complessi criteri, ma sempre suscettibili di una variazione nella loro composizione, ove, ad esempio, per quanto qui d'interesse, si osservi «un'anomala frequenza e unidirezionalità degli scambi».

 

7. Come anticipato in apertura, nei passaggi conclusivi della sentenza, la Corte costituzionale si premura di precisare che quanto affermato circa la mancanza di rispondenza e congruità rispetto alle esigenze di ordine e sicurezza va riferito alla previsione ex lege di un divieto assoluto di scambio di oggetti fra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, aprendo nel contempo alla possibilità di limitazioni ed adattamenti calibrati sulle specificità dei singoli casi (§ 8).

Osserva sul punto la Consulta che, se è vero che non esiste un diritto fondamentale del detenuto sottoposto al cd. carcere duro a scambiare oggetti, anche ove le controparti siano membri del medesimo gruppo di socialità cui è assegnato, una tale facoltà fa parte di «quei «piccoli gesti di normalità quotidiana» (ancora sentenza n. 186 del 2018), tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà del detenuto stesso». Pertanto, la misura ex art. 41 bis, comma 2 quater, lettera f), non può fondarsi su di una prognosi di pericolosità del comportamento vietato operata ex ante dal legislatore e non passibile di revisione, pena l'illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3 e 27, co. 3, Cost. e la traduzione in una compressione indebita dei diritti del condannato idonea, per tale via, ad incidere negativamente sull'adesione del detenuto al programma trattamentale.

D'altra parte, tiene a precisare la Corte, le considerazioni svolte circa l'automatismo del divieto di scambi all'interno del medesimo gruppo di socialità non escludono la possibilità che l'Amministrazione penitenziaria introduca una stringente disciplina di tali scambi ovvero misure limitative degli stessi in determinati e peculiari casi, facendo leva non sulla disposizione oggetto del giudizio, ma sulla lett. a) dello stesso comma 2 quater dell'art. 41 bis, che stabilisce che la sospensione delle ordinarie regole trattamentali possa essere accompagnata dalla «adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate».

Le restrizioni eventualmente introdotte, però, dovranno essere fondate su un delicato bilanciamento fra esigenze di sicurezza e diritti fondamentali operato in concreto dall'Amministrazione e saranno sempre sottoponibili al vaglio del magistrato di sorveglianza.

 

8. La Corte costituzionale, dunque, alla luce delle argomentazioni esposte, dichiara illegittimo l’art. 41 bis, comma 2 quater, lettera f), ord. pen. nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità», così eliminando ogni restrizione automatica rispetto alle cessioni all'interno del medesimo gruppo e salvaguardando la possibilità di ricorrere in ogni caso, anche rispetto a questo tipo di scambi, all'adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna ai sensi della lettera a) del comma 2 quater della disposizione censurata (§ 9).

 

9. Valutata in una prospettiva più ampia e “di contesto”, la decisione in commento pare porsi in linea di continuità con la più recente giurisprudenza costituzionale in tema di attuazione del finalismo rieducativo della pena, nonché in sintonia con la tendenza – più generale – della Corte ad abbandonare un atteggiamento di self restraint ove si tratti di assicurare la piena tutela di diritti fondamentali.

Ed infatti, messo da parte lo strumento della sentenza monito, a lungo utilizzato in ambito penale per il timore di invadere gli spazi insindacabili di discrezionalità attribuiti dalla riserva di legge al legislatore, e rivelatosi inefficace anche in materia di trattamento penitenziario – si pensi alla sent. n. 301 del 2012 sul diritto all'affettività e alla sessualità dei detenuti[8], rispetto alla quale si registra una perdurante inerzia del legislatore –, la Corte costituzionale ha intrapreso negli ultimi anni la strada dell’interventismo ‘costruttivo’, cimentandosi in una laboriosa e delicata opera di allineamento della dimensione sanzionatoria del diritto penale latamente inteso ai principi costituzionali, andando ad incidere ripetutamente su norme penitenziarie, cornici di pena e altri automatismi commisurativi presenti nell’ordinamento.

Valorizzando la funzione di risocializzazione del reo[9], ritenuta non sacrificabile «sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena»[10] ed ineliminabile tanto nella fase della comminatoria edittale quanto in quelle della irrogazione e della esecuzione[11], la Consulta è intervenuta ad eliminare gli automatismi legislativi che sbarravano la strada alla concessione di benefici e misure alternative – sent. nn. 239 del 2014, 76 del 2017,  74 del 2016 e, soprattutto, n. 149 del 2018, con la quale per la prima volta una dichiarazione di illegittimità costituzionale ha investito frontalmente una forma di ergastolo[12]e rendevano irrimediabile l'accesso al carcere in fase cautelare[13]. Sulla stessa scia, la Corte ha aperto la strada al sindacato sulla intrinseca irragionevolezza della pena – sent. nn. 236 del 2016, 222 del 2018 e 40 del 2019 –, ricavandosi un nuovo prezioso spazio di manovra a partire da «precisi punti di riferimento», «soluzioni già esistenti», ancorché non costituzionalmente obbligate. Da ultimo, ha dato un ulteriore colpo di maglio al divieto di bilanciamento della recidiva, restituendo, con la sentenza n. 73 del 2020[14], alla valutazione discrezionale del giudice anche la comparazione con la diminuente soggettiva della seminfermità mentale, come fatto in precedenza rispetto ad altre circostanze attenuanti oggettive legate alla particolare tenuità del fatto (sent. nn. 105 del 2014, 106 del 2014, 74 del 2016 e 205 del 2017).

La sentenza in commento, in definitiva, attraverso l'espunzione di un ulteriore automatismo incompatibile con le esigenze di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, pare inserirsi nel solco dei precedenti citati riaffermando la centralità della funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. e dell’idea-scopo della prevenzione-integratrice, escludendo che un divieto assoluto stabilito ex lege possa impedire ai detenuti al cd. carcere duro di condividere alcuni gesti di normalità quotidiana ove non necessario a salvaguardare beni giuridici di pari rango. Ancora una volta, dunque, la Consulta sembra abbandonare le cautele del passato per dare piena attuazione alla Costituzione, pur non rinunciando, nelle battute conclusive, alla prudenza e lasciando impregiudicata la possibilità che la limitazione dichiarata incostituzionale perché automatica trovi giustificazione in specifiche e peculiari esigenze di sicurezza.

 

[1] Corte cost. 17 giugno 2013 (dep. 20 giugno 2013), n. 143, Pres. Gallo, Rel. Frigo, con nota di V. Manes, V. Napoleoni, Incostituzionali le restrizioni ai colloqui difensivi dei detenuti in regime di "carcere duro": nuovi tracciati della Corte in tema di bilanciamento dei diritti fondamentali, in Dir. pen. cont.Riv. trim., n. 4/2013, p. 336 ss.  

[2] Corte cost. 26 settembre 2018, (dep. 12 ottobre 2018), n. 186, Pres. Lattanzi, Red. Zanon, con nota di G. Alberti, Per la Corte costituzionale è illegittimo il divieto di cottura dei cibi imposto ai detenuti al 41-bis, in Dir. pen. cont., 26 ottobre 2018.  

[3] Sul punto, in linea con un recente trend della Corte, si osserva che «il giudice a quo solleva le ricordate questioni di legittimità costituzionale dopo aver individuato, sulla base di un’univoca interpretazione testuale, il significato normativo della disposizione censurata, e dopo aver precisato che una diversa lettura è impedita proprio dal suo tenore letterale.

Al lume della giurisprudenza costituzionale, va preliminarmente sottolineato che questo iter argomentativo, percorso in entrambe le ordinanze, è corretto e consente l’accesso al merito. Infatti, questa Corte afferma in modo ormai costante che, laddove il rimettente abbia considerato la possibilità di un’interpretazione idonea a eliminare il dubbio di legittimità costituzionale, e l’abbia motivatamente scartata, la valutazione sulla correttezza dell’opzione ermeneutica prescelta riguarda non già l’ammissibilità della questione sollevata, bensì il merito di essa» (§ 4).

Sulla recente inversione di tendenza della Corte costituzionale circa il ruolo dell'interpretazione conforme si rinvia a F. Palazzo, L'illegittimità costituzionale della legge penale e le frontiere della democrazia, in Leg. pen., 2020, p. 8 ss.; V. Manes, V. Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Torino, 2019, p. 103 ss.  

[4] Così Corte di Cassazione, sezione prima penale, 8 febbraio 2017, n. 5977. In tale pronuncia, richiamata dallo stesso collegio rimettente, si osserva che «tenendo conto del significato e della connessione delle parole e dei segni grafici utilizzati, nonché del senso logico del testo», deve ritenersi, «soprattutto in considerazione dell’inserimento del segno di interpunzione della virgola fra le parole “socialità” e “scambiare”, (...) che, nel periodo sintattico in esame, le varie proposizioni riferite a comportamenti dei detenuti, in ordine ai quali va perseguita la “assoluta impossibilità” di realizzazione, siano costituiti, per un verso, dalla comunicazione fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e, per altro verso, dallo scambio di oggetti e dalla cottura di cibi». Diversamente, infatti, «la disposizione avrebbe contemplato “la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, e di cuocere cibi”». Pertanto, il perseguimento della “assoluta impossibilità” deve ritenersi «riferito alle comunicazioni fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, con l’ovvia conseguenza che non è richiesto di impedire in modo così radicale le comunicazioni fra i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità»; mentre «la necessità di assicurare la “assoluta impossibilità” dello scambio di oggetti riguarda tutti gli scambi fra detenuti, e non è limitata ai soli scambi fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

[5] Corte cost., sent. 8 febbraio 2017 (dep. 26 maggio 2017), n. 122, Pres. Grossi, Red. Modugno, con nota di A. Della Bella, Per la Consulta è legittimo il divieto imposto ai detenuti in 41-bis di scambiare libri e riviste con i familiari, n Dir. pen. cont., 16 giugno 2017.  

[6] Sulle origini storiche del regime differenziato e della carcerazione speciale, invece, si rinvia a C.G. De Vito, Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia, Roma-Bari, 2009, pp. 92 ss. e 128 ss.

[7] Qui la Corte costituzionale richiama un passaggio del § 5 della sentenza n. 351 del 1996 (Corte cost., sent. 18 ottobre 1996, n. 351, Pres. Ferri, Red. Onida), con la quale pure aveva dichiarato infondati i dubbi di legittimità costituzionale del cd. carcere duro in relazione agli artt. 13, co. 2, 3, co. 1, 27, co. 3 e 113, co. 1 e 3, Cost.

[8] Corte cost., 19 dicembre 2012, n. 301, Pres. Quaranta, Rel. Frigo, con nota di T. Grieco, La Corte costituzionale sul diritto dei detenuti all'affettività ed alla sessualità, in Dir. pen. cont., 17 gennaio 2013.

[9] Sulla funzione rieducativa della pena, ex multis, S. Moccia, Diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, passim; L. Monaco, Prospettive dell'idea dello "scopo" nella teoria della pena, Napoli, 1984, passim; E. Dolcini, Il principio della rieducazione del condannato: ieri, oggi, domani, in Riv. it. dir. pen. proc., 2018, p. 1667 ss.

[10] Così C. Cost., sent. 21 giugno 2018 (dep. 11 luglio 2018), n. 149, Pres. Lattanzi, Est. Viganò, § 7, con nota di A. Pugiotto, Il "blocco di costituzionalità" nel sindacato della pena in fase esecutiva (nota all'inequivocabile sentenza n. 149/2018), in Osservatorio AIC, 19 novembre 2018.

[11] Corte cost., nn. 313/1990, 129/2008 e, più recentemente, 179/2017.

[13] Amplius V. Manes, Lo "sciame di precedenti" della Corte costituzionale sulle presunzioni in materia cautelare: una "dottrina" sulla libertà personale nel segno del "minimo sacrificio necessario", in Dir. pen. proc., 2014, pp. 457-468.

[14] Corte cost., 24 aprile 2020, n. 73, Pres. Cartabia, Red. Viganò, con nota di G. Leo, La Consulta ristabilisce la piena discrezionalità del giudice per la comparazione tra recidiva e diminuente della seminfermità mentale, in questa Rivista, 24 aprile 2020.