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19 Febbraio 2020


La Corte europea ritorna sul principio di "prevedibilità" del diritto penale tra irretroattività, retroattività della lex mitior e prééminence du droit

Corte eur. dir. uomo, Sez. II, sent. 31 dicembre 2019, Parmak e Bakir c. Turchia, ricc. 22429/07 e 25195/07



Per leggere la sentenza, in lingua inglese, clicca qui.

 

1. La sentenza in commento costituisce una nuova e significativa tappa della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’elaborazione di quello che è stato efficacemente definito come principio di prevedibilità del diritto penale, vista la capacità di tale versione del profilo individual-garantistico della legalità di considerare tanto il diritto scritto, quanto il formante giurisprudenziale[1]. Il tema, come noto, è oramai ampiamente battuto nella dottrina e nella giurisprudenza italiana, per quanto tuttora permangano disaccordi con riguardo alla possibilità di accostare, almeno a determinati fini, il c.d. “diritto vivente” a quello di matrice legislativa, i quali si traducono in profonde incertezze in ordine alla “collocazione” del problema della prevedibilità della legge penale da un punto di vista dogmatico, talvolta sintomatiche di veri e propri momenti di tensione nel “dialogo” tra le Corti[2].

In questo contesto, dopo un lungo periodo di self-restraint, da diversi anni si può registrare un tendenziale aumento della frequenza delle pronunce in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, muovendo dall’accoglimento di una nozione ampia del termine “legge” (non a caso tradotto come droit nella versione francese, diritto in quella italiana), rileva una violazione dell’art. 7 Cedu a causa di sviluppi imprevedibili della giurisprudenza con riguardo all’interpretazione di fattispecie incriminatrici o di disposizioni comunque incidenti sull’an e sul quantum della pena applicabile. E, in effetti, vista la natura casistica della giurisprudenza di Strasburgo, l’accrescersi della pronunce (specialmente quando si tratta di condanne degli Stati membri) appare decisivo ai fini di una ricostruzione dei contenuti del giudizio di prevedibilità, sui quali proprio la sentenza in commento, come si vedrà, offre alcuni spunti significativi.

 

2. Per comprendere meglio la portata della pronuncia, conviene ripercorrere in maniera dettagliata la vicenda processuale da cui trae origine e le modifiche della legislazione penale rilevante intervenute nel corso della medesima.

I due ricorrenti venivano arrestati nell’estate del 2002 in quanto indiziati di avere diffuso volantini inneggianti alla causa curda nei quali, tra l’altro, venivano incitate le persone di ogni nazionalità, etnia e religione ad unirsi contro lo “Stato fascista turco”. Il 24 luglio 2003, quindi, essi venivano condannati dalla Security State Court di Izmir come promotori dell’associazione terroristica BPKK/T (partito bolscevico del Kurdistan del nord, il cui logo compariva su alcuni volantini) sulla base del combinato tra la fattispecie associativa prevista dall’art. 7 della legge n. 3713 e la definizione di terrorismo data dall’art. 1 della medesima legge.

In particolare, all’epoca del reato, quest’ultima disposizione definiva il terrorismo come ogni tipo di atto commesso da membri di un’associazione composta da almeno due persone con lo scopo di mutare le caratteristiche costituzionali della Repubblica, il suo sistema politico, giuridico, secolare ed economico, danneggiare l’indivisibilità dello Stato, minare i diritti e le libertà fondamentali ovvero pregiudicare la sicurezza interna o esterna dello Stato, l’ordine pubblico o la salute pubblica mediante pressione, forza e violenza, terrore, intimidazione, oppressione o minaccia. Tale norma definitoria, peraltro, veniva riformata il 15 luglio 2003, ossia qualche giorno prima della pronuncia della condanna, attraverso una valorizzazione della forza e della violenza come requisiti modali autonomi e cumulativi (visto l’utilizzo della congiunzione copulativa “e” in luogo della giustapposizione di termini che caratterizzava la versione previgente) rispetto a quelli della pressione, del terrore, dell’intimidazione, dell’oppressione o della minaccia.

In data 8 aprile 2004, la Corte di cassazione annullava la sentenza con rinvio alla Corte d’Assise di Izmir (essendo nel frattempo state soppresse le Security State Court) affinché fosse valutata l’incidenza della predetta modifica della legge n. 3713. Tuttavia, il 12 ottobre 2004, nonostante la richiesta assolutoria avanzata dalla pubblica accusa, i ricorrenti venivano condannati anche nel giudizio di rinvio (seppur come membri e non come promotori dell’associazione terroristica), con decisione che veniva nuovamente confermata il 16 marzo 2006 dopo un ulteriore rinvio dovuto ad una riforma del codice di procedura penale. Confrontandosi con la nuova formulazione dell’art. 1 della legge n. 3713, in particolare, la Corte d’Assise rilevava che alla nozione di coercizione potesse essere ricondotta anche quella morale, sulla base di un’interpretazione del concetto di terrorismo volta a privilegiare le finalità perseguite rispetto ai mezzi adottati. Veniva ancora osservato, non senza una certa enfasi, come una diversa soluzione sarebbe incoerente con l’assunto secondo cui “nelle democrazie, alle persone possono essere date tutte le libertà tranne quelle di distruggere la democrazia”, cosicché l’imposizione di idee volte a cambiare la Costituzione ed a sovvertire l’ordinamento mediante violenza farebbe “presumere” la sussistenza del requisito di fattispecie rappresentato dalla coercizione morale.

Nelle more del nuovo giudizio di cassazione, precisamente il 29 giugno 2006, anche la fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 7 della legge n. 3713 veniva riformata attraverso un’analoga valorizzazione del metodo della forza e della violenza in maniera autonoma rispetto agli altri sopra citati e con la previsione di un aumento delle pene (mediante rinvio all’art. 314 del codice penale). Nonostante la richiesta di annullamento della condanna avanzata dalla pubblica accusa, il 25 dicembre 2006 la Corte di cassazione confermava la condanna, escludendo tra l’altro la portata favorevole delle ultime modifiche legislative.

Durante il procedimento, peraltro, a seguito della scarcerazione avvenuta il 21 gennaio 2003, ad entrambi i ricorrenti veniva applicata la misura del divieto di espatrio, la quale produceva i suoi effetti fino al 24 giugno 2009, data in cui la pena veniva eseguita, malgrado il secondo ricorrente ne avesse a più riprese chiesto la revoca in virtù del fatto che aveva sempre vissuto in Germania e non aveva dimora né fonti di reddito in Turchia.

 

3. Dinanzi alla Corte europea, i ricorrenti hanno lamentato anzitutto una violazione del principio di legalità penale sancito dall’art. 7 Cedu dovuta all’interpretazione analogica degli elementi costitutivi della nozione di terrorismo rappresentati dalla forza e dalla violenza. Dal canto suo, il governo turco ha replicato che tale lettura era ragionevolmente prevedibile, anche considerato che i ricorrenti avevano realizzato le condotte quando la nuova definizione di terrorismo – caratterizzata da una valorizzazione dei predetti elementi – non era ancora entrata in vigore.

La Corte – richiamate le note premesse di principio in ordine alla rilevanza del formante giurisprudenziale accanto alla valutazione della chiarezza del diritto scritto nell’ambito del giudizio di prevedibilità delle decisioni in materia penale – rileva che, effettivamente, soltanto con la riforma del 2003 i requisiti della forza e della violenza sono stati indicati in maniera autonoma rispetto agli altri metodi terroristici delineati dall’art. 1 della legge n. 3713. Tuttavia, prosegue la Corte, in virtù del principio di retroattività della lex mitior da tempo ricondotto all’art. 7 Cedu, deve essere respinto l’argomento del governo turco volto a rimarcare l’anteriorità delle condotte commesse dai ricorrenti rispetto all’entrata in vigore della novella legislativa, con la conseguente necessità di soffermarsi sull’interpretazione della versione riformata della norma ad opera delle giurisdizioni turche.

I giudici di Strasburgo, quindi, si interrogano sulla prevedibilità della soluzione ermeneutica che ha fondato la condanna dei ricorrenti alla luce della continuità con la precedente giurisprudenza o, comunque, della coerenza con la sostanza del reato (essence of the offence). Con riguardo al primo aspetto, viene sottolineato come il governo turco non sia stato in grado di indicare alcun precedente in cui un’associazione è stata ritenuta terroristica sulla base di dichiarazioni scritte, ad eccezione di un procedimento (il c.d. caso “sledgehammer”) al quale, tuttavia, aveva fatto seguito l’accoglimento di un ricorso individuale alla Corte costituzionale per violazione dei principi del giusto processo (§ 66). Quanto alla sostanza del reato, invece, si evidenzia come la riforma del 2003 abbia inteso effettivamente valorizzare i requisiti della forza e della violenza nella definizione di terrorismo, inquadrandoli come elementi autonomi e centrali nella descrizione del fenomeno non soltanto con riguardo ai fini, ma anche in relazione ai mezzi adottati (§ 68).

A questo punto, la Corte osserva da un lato che i ricorrenti sono stati condannati essenzialmente per essersi riuniti e per avere detenuto e diffuso dei volantini e, dall’altro, che era pacifico che il BPKK/T non avesse mai posto in essere atti di violenza per raggiungere i propri scopi, tanto che non esistevano neanche precedenti giurisprudenziali in cui tale organizzazione era stata qualificata come terroristica (§ 70). Certamente, osserva la Corte, quest’ultima circostanza non rappresentava una condizione necessaria ai fini della condanna dei ricorrenti ma è anche vero che, nell’ambito di tale valutazione, le giurisdizioni turche avevano sempre svolto un esame approfondito sugli scopi dell’associazione, sull’esistenza di un piano di azione e sulla manifestazione di tale piano in atti di violenza o minaccia credibile di ricorrere alla forza (§ 71). Nel caso in esame, invece, il carattere terroristico dell’associazione è stato riconosciuto soltanto sulla base del manifesto rinvenuto in possesso di un coaccusato durante le indagini e dell’informativa del Security Directorate che indicava la rivoluzione armata come fine ultimo, senza tuttavia che fosse rinvenuto un qualsiasi piano d’azione (action plan) o fosse stato compiuto un atto preparatorio concreto per conseguire l’obiettivo proclamato. È chiaro allora, secondo la Corte, che i ricorrenti sono stati condannati essenzialmente per le loro idee politiche e che, per quanto la definizione di terrorismo sia tema complesso e dibattuto, l’assimilazione del concetto di “coercizione morale” a quelli della forza e della violenza ha configurato un’interpretazione estensiva imprevedibile tanto alla luce della precedente giurisprudenza, quanto in relazione alla sostanza del reato.

Per quanto non saranno oggetto di approfondimento, conviene riportare in questa sede anche le ulteriori statuizioni contenute nella pronuncia. Con riguardo alla violazione dell’art. 10 Cedu lamentata dai ricorrenti sempre in ragione dell’assenza di una base legale prevedibile alla restrizione della loro libertà di espressione, la Corte ritiene la questione “assorbita” nella dichiarazione di violazione dell’art. 7 Cedu. Rispetto al secondo ricorrente, poi, viene dichiarata la violazione dell’art. 8 Cedu in ragione della prolungata sottoposizione alla misura del divieto di espatrio. A fronte della giustificazione addotta dal governo resistente secondo cui la misura era volta a prevenire la fuga dell’imputato, arrestato proprio mentre stata lasciando la Turchia, la Corte replica osservando che, come affermato in diverse precedenti pronunce, rispetto alle persone non residenti nello Stato tale restrizione richiede una giustificazione particolarmente solida in termini di proporzione, mentre le giurisdizioni turche, rispetto alle sette richieste di revoca della misura avanzate dal ricorrente, non hanno mai esplicitato nel merito le ragioni del rigetto. Di conseguenza, la misura è stata di fatto mantenuta in maniera automatica e, pertanto, non conforme al requisito della “necessità in una società democratica” stabilito dall’art. 8 Cedu.

 

* * *

 

4. Come si è già accennato, la sentenza in commento si iscrive nella progressiva elaborazione del principio di prevedibilità del diritto penale da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Prima di soffermarsi sulle indicazioni offerte dai giudici di Strasburgo con riguardo ai contenuti di tale garanzia, sembra opportuno evidenziare che nella pronuncia esso viene in rilievo in un due accezioni non del tutto sovrapponibili.

Un primo inquadramento, infatti, trae origine dall’argomento del governo resistente volto ad escludere un difetto di prevedibilità della condanna poiché la valorizzazione del requisito della forza e della violenza nella definizione del concetto di terrorismo era stata stabilita in epoca successiva alla commissione dei reati contestati ai ricorrenti. Infatti, se è condivisibile (e quasi scontato) il rilievo della Corte secondo cui tale circostanza non è decisiva poiché, in ogni caso, da tempo all’art. 7 Cedu è stato ricondotto anche il principio della lex mitior[3], si deve sottolineare che, in quest’ottica, il tema della prevedibilità risulta riferito essenzialmente al diritto vigente al momento della decisione, anziché al momento della condotta. In altri termini, censurando la soluzione interpretativa adottata dalle giurisdizioni interne poiché volta di fatto a sterilizzare la portata favorevole della modifica legislativa del 2003, la Corte ha valorizzato non tanto il diritto dei ricorrenti a non ricevere un trattamento sanzionatorio deteriore rispetto a quello previsto al momento del reato, bensì la loro aspettativa al riconoscimento della (prevedibile) incidenza favorevole della disciplina sopravvenuta.

In quest’ottica, allora, non rileva tanto la funzione della legge di orientamento delle scelte dell’individuo, nella prospettiva di tutela della sua libertà di autodeterminazione, quanto semmai il canone generale della prééminence du droit, ossia della necessaria aderenza della decisione del caso concreto al “diritto oggettivo” che, anche in virtù del collegamento con il principio di uguaglianza e con il diritto di difesa, è alla base dello Stato di diritto (Rule of law)[4]. Proprio quest’ultimo significato del principio di prevedibilità, in effetti, è quello che caratterizza la giurisprudenza relativa alle varie disposizioni della Convenzione e dei Protocolli addizionali che, nello stabilire le condizioni di legittimità delle restrizioni all’esercizio di vari diritti fondamentali, indipendentemente dalla natura delle medesime, richiedono che esse abbiano una base legale[5]. Non a caso, era proprio in virtù di tale requisito che, in effetti, già prima della celebre sentenza Scoppola era emersa un’embrionale affermazione della rilevanza convenzionale del principio della lex mitior[6].

Ciò detto, si deve anche rilevare che, in altri passaggi della motivazione, la Corte europea fa invece un riferimento più diretto al problema della prevedibilità – o della riconoscibilità, per usare un termine maggiormente diffuso nella dottrina interna – delle conseguenze penali al momento del reato. Tale aspetto emerge, in particolare, quando la Corte osserva che, anche prima della riforma dell’art. 1 della legge n. 3713, le giurisdizioni turche avevano sempre ritenuto necessaria l’individuazione di specifici atti di violenza – realizzati o almeno contemplati in un “piano d’azione” – ai fini della qualificazione di un’associazione come terroristica. Da tali osservazioni si desume che secondo la Corte, anche laddove la legislazione fosse rimasta invariata tra il momento consumativo del reato e quello della condanna, quest’ultima decisione avrebbe rappresentato uno sviluppo imprevedibile della giurisprudenza nazionale e, quindi, determinato una violazione dell’art. 7 Cedu nel suo contenuto più “tradizionale”.

 

5. In entrambe le descritte prospettive in cui può essere inquadrato il principio di prevedibilità, d’altra parte, la valutazione della Corte europea in ordine ai contenuti di tale garanzia si attesta su criteri del tutto analoghi. Si deve ricordare, infatti, che l’accoglimento di una nozione ampia del termine “legge”, ossia comprensiva del diritto giurisprudenziale, con un conseguente spostamento del fuoco del giudizio sui parametri di accessibility e di foreseeability, ha preso forma proprio con riguardo al requisito della base legale stabilito dalle disposizioni “non penalistiche” della Convenzione, prima di essere trasposta sul terreno dell’art. 7 Cedu[7].

In proposito, come si è accennato, la sentenza in commento offre spunti interessanti ai fini di una possibile ricostruzione sistematica degli elementi di cui il giudizio di prevedibilità si compone e della relazione tra i medesimi. In particolare, si va delineando nella giurisprudenza di Strasburgo uno schema decisorio che ruota intorno a due poli: l’analisi del diritto vivente e la considerazione della “sostanza del reato” (essence of the offence). Il primo aspetto, in effetti, è quello più conosciuto e rappresenta l’immediata conseguenza, come detto, dell’adesione ad una nozione ampia di legge dettata dal riconoscimento della rilevanza della mediazione giurisprudenziale nella concreta manifestazione della norma penale[8]. La seconda valutazione percorre invece binari maggiormente familiari alla tradizione ermeneutica continentale, emergendo una certa attenzione tanto alla littera legis[9], quanto ad argomenti storici e sistematici (§ 68), nonché un rinvio al tema della ratio legis – o, volendo, del “tipo di illecito” – come parametro discretivo tra interpretazioni consentite ed interpretazione vietate[10], non senza rischi connessi ad un’eccessiva esposizione a logiche di “giustizia sostanziale”[11].

D’altra parte, proprio nella pronuncia in esame sembra essere confermata una certa preferenza dei giudici di Strasburgo per la valutazione della coerenza di una soluzione interpretativa con la giurisprudenza interna tanto che, come detto, dopo avere segnalato la natura favorevole della riforma, la Corte si cura di evidenziare come la condanna dei ricorrenti sarebbe stata imprevedibile anche alla luce dei precedenti che si erano formati in relazione alla previgente normativa. L’individuazione di profili di discontinuità o di contraddittorietà nella giurisprudenza nazionale, infatti, conferisce certamente maggiore legittimazione al sindacato dei giudici di Strasburgo, in linea con la premessa – ribadita costantemente – secondo cui la Corte non può sostituirsi alle giurisdizioni domestiche nell’interpretazione della legge (il che potrebbe accadere, invece, valorizzando eccessivamente il tema della sostanza del reato) e non è suo compito valutare eventuali errori di fatto o di diritto delle medesime, a meno che non si traducano in una violazione delle garanzie convenzionali (come, per l’appunto, quella della prevedibilità della decisione alla luce dei precedenti).

Leggendo la pronuncia in commento, infine, viene da chiedersi quanto possano incidere nell’economia del giudizio della Corte, in maniera più o meno consapevole o dichiarata, fattori quali la peculiare dimensione “politica” della questione affrontata[12] – come il rischio di utilizzo strumentale della nozione di terrorismo da parte dei poteri pubblici per reprimere manifestazioni di dissenso (problema cui la Corte fa cenno ai §§ 74 e 77), specialmente nel particolare contesto turco – ovvero, addirittura, considerazioni sul “merito” dei fatti in causa[13].

 

[1] Cfr. soprattutto F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in Aa. Vv., La crisi della legalità. Il «sistema vivente» delle fonti penali, Napoli, 2016, il quale riprende argomenti che, nella dottrina italiana, sono stati approfonditi soprattutto da A. Cadoppi, Il valore del precedente nel diritto penale, Torino, 1999, passim (di recente, sul punto, v. anche M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Questione giustizia, n. 4, 2018). Sulle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo appartenenti a questo filone, tra cui la nota sentenza Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, cfr. A. Bernardi, Articolo 7 – Nessuna pena senza legge, in S. Bartole-B. Conforti-G. Raimondi, a cura di, Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, 260 ss.; V. Zagrebelsky, La Convenzione europea dei diritti dell'uomo e il principio di legalità nella materia penale, in V. Manes-V. Zagrebelsky, a cura di, La Convenzione europea dei diritti dell'uomo nell'ordinamento penale italiano, Milano, 2011, 74 ss.; V. Manes, Commento all'art. 7, § 1, Cedu, in S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky, a cura di, Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, Padova, 2012, 278 ss.; M. Lanzi, Error iuris e sistema penale, Torino, 2018, 139 ss.; A. Santangelo, Ai confini tra common law e civil law: la prevedibilità del divieto nella giurisprudenza di Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, 332 ss.).

[2] Se, infatti, il problema della “imprevedibilità” delle applicazioni del diritto penale è stato tradizionalmente tematizzato sul piano della colpevolezza (ossia come error iuris scusabile), soprattutto per le difficoltà nel porre sullo stesso piano l’ipotesi del mutamento giurisprudenziale a quella della successione di leggi, si può infatti notare che, di recente, la dottrina mostra aperture sempre più importanti ad una sua considerazione già sul piano dell’esistenza di una base legale, senza per questo rinnegare il valore della riserva di legge o disconoscere i limiti dell’ermeneutica penalistica (oltre alle già citate considerazioni di A. Cadoppi, Il valore del precedente, cit., 321 ss., cfr. M. Donini, Europeismo giudiziario, Milano, 2011, 114 s.; A. Di Martino, Una legalità per due? Riserva di legge, legalità CEDU e giudice-fonte, in Criminalia, 2014, 107 ss.; R. Bartoli, Lettera, precedente, scopo. Tre paradigmi interpretativi a confronto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1796 ss.; V. Manes, Common law-isation del diritto penale? Trasformazioni del nullum crimen e sfide prossime future, in Cass. pen., 2017, 974 s.; D. Perrone, Nullum crimen sine iure, Torino, 2019, 369 ss.). La giurisprudenza interna, dal canto suo, anche sulla scorta della posizione della Consulta (v. in particolare C. cost. sent. n. 230/2012), pare tuttora ancorata ad un inquadramento del tema in ottica “soggettiva”, così negando la possibilità di “generalizzare” quanto affermato dalla Corte europea nella già citata sentenza Contrada, conclusione che peraltro sembra in qualche modo dettata da un sostanziale disaccordo con il merito della decisione dei giudici di Strasburgo (in chiave critica, infatti, cfr. M. Donini, Il caso Contrada, cit., 361 ss., N. Recchia, La Corte di cassazione alle prese con gli effetti nel nostro ordinamento della decisione Contrada della Corte EDU, in Giur. it., 2017, 1206 ss.). Sul punto, è stata peraltro pubblicata l’informazione provvisoria di una pronuncia delle Sezioni Unite (ud. 24 ottobre 2019) da cui si desume che il Massimo Collegio, sempre al fine di negare la possibilità di generalizzare il dictum della sentenza Contrada, avrebbe evidenziato come la sentenza Contrada non sia una sentenza-pilota, né espressione di diritto consolidato (argomenti che parrebbero fragili ma la cui tenuta, naturalmente, non potrà che essere valutata quando saranno pubblicate le motivazioni).

[3] Tale affermazione risale, come noto, alla celebre sentenza Corte EDU, GC, 17.9.2009, Scoppola c. Italia, in cui la Corte europea accoglieva un’interpretazione evolutiva dell’art. 7 Cedu in ragione dell’ampio riconoscimento del principio della lex mitior riscontrato nei vari ordinamenti europei. A quest’ultimo proposito, in effetti, si deve ricordare che, come evidenziato nella pronuncia in commento, le stesse giurisdizioni turche avevano ritenuto imprescindibile un confronto con la portata della novella legislativa maggiormente restrittiva.

[4] Sulla diversità di tali accezioni della legalità – e della prevedibilità del diritto – sia consentito il rinvio a F. Mazzacuva, Le pene nascoste, Torino, 205 ss. e 255 ss..

[5] Si pensi, ad esempio, alla recente sentenza Corte EDU, GC, 23.2.2017, De Tommaso c. Italia, § 116 ss., in cui la Corte europea ha affermato come anche in materia di misure di prevenzione, per quanto esse non abbiano natura “penale” e, di conseguenza, non si applichi il divieto di retroattività di cui all’art. 7 Cedu, emerga comunque una generale esigenza di prevedibilità delle decisioni. A tale garanzia, peraltro, fa espresso riferimento anche la Consulta nella sent. n. 24/2019, senza per questo affermare una piena estensione del principio di irretroattività a tale settore della legislazione.

[6] Posto che, come detto, ai fini dell’accertamento della sussistenza di una base legale ai sensi degli artt. 8, 9, 10 e 11 della Convenzione viene in rilievo il diritto vigente al momento della decisione, proprio su questo piano la Corte aveva attribuito rilevanza alla lex mitior sopravvenuta: v. in questo senso, la sentenza Corte EDU, 8 luglio 1999, Baskaya e Oçkuoglu c. Turchia, in cui infatti il giudizio sulla legittimità convenzionale della condanna inflitta ai ricorrenti percorreva itinerari differenti a seconda del parametro convenzionale di riferimento, dato che ad una dichiarazione di non violazione dell’art. 7 Cedu faceva riscontro un’affermazione di violazione dell’art. 10 Cedu (tale aspetto era osservato da A. Esposito, Il diritto penale “flessibile”, Torino, 2008, 335).

[7] Cfr. il leading case Corte EDU, 26 aprile 1979, Sunday Times c. Regno Unito, § 49, la cui celebre argomentazione circa la prevedibilità della “legge”, nozione cui ricondurre anche il diritto giurisprudenziale, era richiamata per la prima volta in relazione all’art. 7 Cedu nella sentenza Corte EDU, 25 marzo 1993, Kokkinakis c. Grecia.

[8] Su questo tema, per brevità, conviene rinviare alla dottrina già citata supra, note 1 e 2.

[9] Aspetto che talvolta risulta determinante, come ad esempio nella recente sentenza Corte EDU, 24 gennaio 2017, Koprivnkikar c. Slovenia, § 54 ss.

[10] Cfr. la nota riflessione di W. Hassemer, Tatbestand und Typus – Untersuchungen zur strafrechtlichen Hermeneutik, Köln-Berlin-Bonn-München, 1968, trad., Fattispecie e tipo. Indagini sull'ermeneutica penalistica, a cura di G. Carlizzi, Napoli, 2007, passim, le cui conclusioni richiamano la ricostruzione dei presupposti e limiti dell’interpretazione analogica di A. Kaufmann, Analogie und "Natur der Sache", Karlsruhe, 1965, trad., Analogia e “natura della cosa”, Napoli, 2003, 64 ss., e appaiono riprese da M. Vogliotti, Dove passa il confine?, Torino, 2011, 61 ss.

[11] Cfr. ad esempio le note pronunce Corte EDU, 22 novembre 1995, S.W. c. Regno Unito, § 43, e Corte EDU, 22 novembre 1995, C.R. c. Regno Unito, §§ 41 ss., in cui la prima disapplicazione dichiarata del principio di common law enunciato da Sir Matthew Hale nel 1736 secondo cui la violenza coniugale sarebbe stata “scriminata” dal consenso prestato nel contratto di matrimonio veniva ritenuta ragionevolmente prevedibile poiché «l’interpretazione giurisprudenziale operava un’evoluzione manifesta, coerente con la sostanza stessa del reato, del diritto penale che tendeva a far rilevare penalmente le condotte di violenza sessuale» e poiché «il carattere per natura umiliante della violenza sessuale è così manifesto che non si potrebbe ritenere la soluzione accolta dalla Court of Appeal dalla Chambre of lords (…) come contraria all’art. 7 della Convenzione. L’abbandono dell’idea inaccettabile che un marito non possa essere perseguito per la violenza ai danni della moglie era conforme non solo ad una nozione civile del matrimonio ma anche e soprattutto agli obiettivi fondamentali della Convenzione la cui sostanza stessa è il rispetto della dignità e della libertà» (argomentazione tanto celebre quanto oggetto di critiche da parte di vari settori della dottrina: tra i tanti, cfr. le considerazioni di S. Van Drooghenbroeck, Interprétation jurisprudentielle et non-retroactivité de la loi pénale, in Revue trimestrielle des doits de l’homme, 1996, 473 ss.).

[12] Il pensiero corre, ad esempio, alla violazione dell’art. 7 Cedu rilevata nella recente sentenza Corte EDU, 7 ottobre 2017, Navalnyye c. Russia, in Dir. pen. cont., 16 gennaio 2018, con nota di S. Bernardi, Una nuova pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di imprevedibilità della condanna penale: il caso Navalnyye c. Russia.

[13] Nella descrizione dei fatti da cui ha tratto origine il ricorso (§§ 11 e 12), in effetti, la Corte non manca di segnalare come tra le principali prove a carico dei ricorrenti vi fossero le dichiarazioni accusatorie di una persona sospettata di fare parte dell’associazione terroristica, la quale in seguito le aveva ritrattate sostenendo che le fossero state estorte mediante tortura, e come in una delle informative della polizia fosse valorizzato il silenzio degli imputati in sede di interrogatorio come elemento a carico dei medesimi (in quanto “atteggiamento tipico di coloro coinvolti in associazioni illecite”).