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06 Febbraio 2020


Il caso (Cappato) è chiuso, ma la questione (agevolazione al suicidio) resta aperta

Le motivazioni della sentenza di assoluzione della Corte di Assise di Milano e la perdurante inerzia del legislatore



 

1. Con il deposito, lo scorso 30 gennaio, delle motivazioni della sentenza di assoluzione, pronunciata dalla Corte di Assise di Milano all’esito dell’udienza dello scorso 23 dicembre 2019, si chiude definitivamente la vicenda processuale relativa all’imputazione di agevolazione al suicidio nei confronti di Marco Cappato e, in termini più ampi, il caso relativo alla morte di Fabiano Antoniani, con il relativo corredo di discussioni, dibattiti e riflessioni giuridiche e non poche polemiche e speculazioni, soprattutto mediatiche.

Resta evidentemente ancora aperta la questione più generale, legata alle prospettive di formalizzazione, sul piano normativo, dei margini di liceità di talune condotte di agevolazione al suicidio, a partire da quelle peculiari condizioni messe in evidenza dalla Corte costituzionale, dapprima nell’ordinanza n. 207 del 2018[1] e quindi nella sentenza n. 242 del 2019. In quest’ultima pronuncia, come si ricorderà, è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 580 c.p. “per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi dianzi indicati –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”[2] .

 

2. La sentenza della Corte di Assise di Milano muove, in via preliminare, da una duplice prospettiva.

Da un lato, ripercorre la trama del processo, sospeso all’udienza del 14 febbraio 2018, allorquando i giudici milanesi avevano ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. tanto con riferimento al suo perimetro applicativo quanto con riguardo al trattamento sanzionatorio (pag. 2). Più precisamente, la tenuta della fattispecie era stata posta in discussione: a) nella parte in cui “incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1 e 117 Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea Diritti dell’Uomo”; b) laddove “prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 Cost..

Dall’altro, compendia i passaggi salienti dell’ordinanza n. 207 del 2018 e della sentenza n. 242 del 2019, con particolare riferimento:

a) alla selezione delle condizioni di liceità dell’aiuto al suicidio, legate a quella “circoscritta area di non conformità costituzionale” della fattispecie nel caso in cui ad essere agevolata sia “l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi”, di una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli (pagg. 2 – 3);

b) all’individuazione delle modalità di accertamento del ricorrere di tali condizioni, ancorate – in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore – ai presupposti normativi della legge n. 219 del 2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), la cui verifica è affidata, per i casi futuri, all’intervento di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale e dei comitati etici territorialmente competenti (pag. 3);

c) al peculiare regime individuato dalla Corte costituzionale per il caso per cui si procede, ancorato a fatti pregressi (realizzati cioè prima del 27 novembre 2019, data di pubblicazione della sentenza n. 242 sulla Gazzetta Ufficiale), rispetto ai quali – richiamando proprio quest’ultima sentenza – la non punibilità viene subordinata ”al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee, comunque sia, a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti”, con la necessità di un accertamento, in concreto, da parte del giudice i) che “le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita la prestazione dell’aiuto – patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli – abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico”; ii) che “la volontà dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni”; iii) che “il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua” (pag. 3).

 

3. Alla luce di queste premesse, e dopo avere ripreso ampi stralci dell’ordinanza di rimessione per ribadire l’insussistenza della condotta di induzione al suicidio, non avendo in alcun modo Marco Cappato “inciso sul processo deliberativo di Fabiano Antoniani” (pagg. 4 – 8), i giudici milanesi si soffermano sul profilo dell’agevolazione, onde accertare se la condotta di Cappato – che, si riconosce, “nel dare attuazione alla volontà di Fabiano Antoniani, ha reso possibile il realizzarsi del suicidio” – “integri la violazione del precetto normativo”, così come ridelineato dopo l’intervento della Corte costituzionale.

Sul punto, vengono ancora una volta valorizzate le risultanze processuali già acquisite nella fase dibattimentale, vale a dire le testimonianze della madre, della fidanzata e di altre persone che avevano assistito Antoniani dopo l’incidente e le certificazioni mediche, confermate e illustrate dai sanitari che le avevano redatte (pagg. 8 - 10).

La prognosi cui si perviene, all’esito di una circostanziata disamina delle condizioni oggettive e soggettive richieste (pagg. 11 - 15), è coerente con quanto fatto trasparire dalla Corte costituzionale.

E dunque: da una parte, “Marco Cappato ha aiutato Fabiano Antoniani a morire, come da lui scelto, solo dopo avere accertato che la sua decisione fosse stata autonoma e consapevole, che la sua patologia fosse grave e irreversibile e che gli fossero state prospettate correttamente le possibili alternative con modalità idonee e offrire garanzie sostanzialmente equivalenti a quelle cui la Corte costituzionale ha subordinato l’esclusione dell’illiceità della condotta” (pag. 10); dall’altra, i tre “requisiti procedimentali necessari perché i giudici di merito possano ritenere la condotta contestata come rientrante nell’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio”, così come indicati nella sentenza n. 242 del 2019, “sono stati verificati nel corso dell’istruttoria” (pag. 15).

In coerenza, si conclude che “ricorrendo le quattro condizioni imposte dalla Corte costituzionale per escludere la punibilità della condotta di aiuto al suicidio prevista dall’art. 580 c.p. e avendo la Corte di Assise accertato che i tre requisiti ‘procedimentali’ furono rispettati nella vicenda qui giudicata, anche la contestazione di agevolazione al suicidio non è punibile, rientrando in quella ‘circoscritta area di non conformità costituzionale’ della norma impugnata individuata dalla Corte costituzionale e non integrando pertanto la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 580 c.p. per come delimitata dalla citata pronuncia” (pagg. 15 - 16).

 

4. A questo punto, “pur non ritenendo di svolgere sul punto una trattazione teorica che esulerebbe dai limiti della sentenza”, l’attenzione dei giudici si sofferma sulla formula assolutoria da adottare (pag. 16).

L’interesse trae spunto dalla constatazione di come la Corte costituzionale non abbia invero definito “in modo esplicito se l’area di non punibilità necessaria per escludere una sanzione penale per le condotte di aiuto al suicidio che presentano i requisiti più volte richiamati, debba intendersi come riduzione dell’ambito oggettivo della fattispecie incriminatrice, riducendone la portata, ovvero se le circostanze definite nei quattro requisiti configurino una scriminante”.

In buona sostanza, ci si chiede se l’intervento della Corte abbia inciso sulla tipicità della fattispecie incriminatrice, riducendo la portata oggettiva dell’art. 580 c.p., ovvero sulla sua antigiuridicità, elisa qualora risultino rispettate le procedure di garanzia individuate al ricorrere delle peculiari condizioni, soggettive e oggettive, di chi richiede assistenza al suicidio.

La Corte di Assise ritiene che la sentenza n. 242 abbia ridotto “sotto il profilo oggettivo la fattispecie, escludendo che configuri reato la condotta di agevolazione al suicidio che presenti le caratteristiche descritte”, individuando un “meccanismo di riduzione dell’area di sanzionabilità penale che non opera come scriminante ma incide sulla struttura oggettiva della fattispecie” (pag. 16).

Senonché, si legge a sorpresa subito dopo, “il discorso sugli effetti dell’intervento della Corte interessa più gli studiosi del diritto penale che pubblici ministeri, avvocati e giudici, perché l’affermazione di non punibilità è elemento che incide in ogni caso sul piano oggettivo anche con riguardo alle cause di giustificazione (ritenute dalla dottrina elementi negativi della fattispecie nel suo profilo oggettivo)”. Tanto ciò sarebbe vero, si prosegue, che “secondo l’orientamento tripartito della fattispecie penale, la formula assolutoria da adottare anche in presenza di una scriminante è di insussistenza del fatto”. Di conseguenza, si chiosa, “Marco Cappato va assolto con riferimento ad entrambe le condotte in addebito perché il fatto non sussiste” (pag. 17).

 

* * *

 

5. Come si è accennato in apertura, la sentenza chiude – con un esito assolutorio che appariva scontato – la vicenda processuale di Marco Cappato, lasciando tuttavia sul tappeto numerose e non agevoli questioni, a partire dall’esatto inquadramento dell’intervento della Corte costituzionale sino alle immutate esigenze di un intervento del legislatore diretto a dettagliare il perimetro di liceità dell’assistenza al suicidio. I due profili, a dire il vero, si intrecciano e l’esigenza di un chiarimento definitivo è plasticamente dimostrata proprio dalla lettura di alcuni passi del provvedimento appena esaminato.

Se nella prima parte, infatti, ci si è condivisibilmente spesi nell’opera di declinazione nel caso concreto del dictum della Corte costituzionale – sottoponendo alla prova delle risultanze dibattimentali la verifica della sussistenza delle condizioni e delle modalità idonee a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti a quelle delineate nella sentenza n. 242 del 2019 –, nelle conclusioni, allorquando ci si è soffermati sulla scelta della formula assolutoria, si è riproposta, in tutta la sua problematicità, la querelle sulla più idonea chiave di lettura dell’intervento dei giudici costituzionali sull’art. 580 c.p.

Come ormai è acquisito, questi ultimi non si sono accontentati di una declaratoria ‘secca’ di incostituzionalità, che avrebbe lasciato sguarniti di tutela i soggetti ritenuti più deboli e vulnerabili, ma, dinanzi alla prospettiva di una scelta ‘minimale’, in nome della quale limitarsi a garantire l’accertabilità in concreto delle quattro condizioni del paziente sulla base di quanto previsto nella legge n. 219 del 2017, si sono spinti ‘oltre’, ampliando la portata della procedura di cui alla legge ‘di comparazione’ con il riferimento al ruolo del servizio sanitario nazionale e dei comitati etici.

L’alternativa, prospettata da chi scrive già in sede di prima lettura, è tra qualificare la sentenza n. 242 come ablativa parziale, ove a prevalere è l’individuazione delle situazioni da sottrarre alla sfera applicativa dell’art. 580 c.p., pur se accompagnata dall’aggiunta di ulteriori requisiti, destinati a ridurre le criticità ravvisate nell’ordinanza, ovvero quale additiva di regola (o di meccanismo), connotata dall’introduzione di una causa di non punibilità o di una scriminante (c.d. procedurale), collegata al rispetto di determinate condizioni.

La Corte di Assise, come si è visto, ha optato, in maniera piuttosto sbrigativa, per la prima ipotesi, ravvisando una riduzione del profilo oggettivo della fattispecie e ha dunque assolto Cappato perché il fatto non sussiste, ritenendo in sostanza la sua condotta atipica, per la (ravvisata) presenza di un diritto a farlo.

In tutt’altra prospettiva, a ben vedere, pare invece essersi mossa la Corte costituzionale, la quale, interessandosi delle ricadute pratiche della declaratoria nell’ambito del giudizio a quo (oltre che dei fatti commessi anteriormente alla pubblicazione) ed esplicitando una disciplina ad hoc per le ipotesi pregresse (così da consentire anche rispetto ad esse la non punibilità), fa più volte riferimento a vere e proprie condizioni procedurali (sottolineando la necessità di “verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio”), che lasciano trasparire la preferenza per una soluzione in termini di scriminante (procedurale, per l’appunto)[3].

In assenza di una parola definitiva, ciò che in ogni caso appare incontestabile è che, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte di Assise, lo sforzo di addivenire a un esatto inquadramento della soluzione prescelta dai giudici costituzionali non è privo di risvolti pratici e la questione non interessa unicamente gli studiosi del diritto penale ma anche, inevitabilmente, pubblici ministeri, giudici e avvocati: non può sfuggire, infatti, come solo spostandosi sul versante dell’esclusione della tipicità si potrà addivenire a un proscioglimento “perché il fatto non sussiste” e come, di contro, optando per una soluzione in termini di scriminante (accedendo a una teoria tripartita o quadripartita del reato), la formula assolutoria di cui all’art. 530 c.p.p. non potrà non essere “il fatto non costituisce reato”, difettando, a fronte della configurabilità del fatto tipico, l’elemento dell’antigiuridicità. E ancora, unicamente abbracciando una concezione bipartita del reato (e non già tripartita, come si legge nelle ultime battute della pronuncia della Corte di Assise), per la quale la causa di giustificazione rappresenta un elemento negativo del fatto, il giudice potrà invocare la più ampia formula perché “il fatto non sussiste[4].

 

6. Proprio queste incertezze, si diceva, confermano, nonostante l’apprezzabile ed equilibrato bilanciamento di interessi e beni contrapposti (autodeterminazione individuale da una parte e protezione della vita dall’altra) compiuto dalla Corte nelle due pronunce, l’indifferibilità di un intervento del legislatore, chiamato a portare a compimento, nell’esercizio della sua discrezionalità, il percorso aperto dai giudici. In tale contesto, oltre a garantire un effettivo potenziamento del sistema di cure palliative, non si potrà non affrontare il tema dei casi analoghi ma dissimili rispetto a quelli chirurgicamente sottratti dalla Corte costituzionale alla punibilità ex art. 580 c.p.; fra questi, ci si interroga proprio in questi giorni se possa rientrare anche l’ipotesi di chi – come Davide Trentini (la cui udienza, calendarizzata per il 5 febbraio, è stata rinviata al prossimo 18 marzo) – versi in condizioni di malattia grave e irreversibile (sovrapponibili a quelle di Antoniani), ma non sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale (come il respiratore artificiale).

Immaginando allora, con buona dose di (eccessivo?) ottimismo, una ripresa del cammino parlamentare sul tema, non si potrà che muovere dal contributo offerto dalla Corte costituzionale, a partire dalle stesse condizioni in presenza delle quali è divenuta lecita l’assistenza al suicidio. Così come non si potrà non prendere in esame – pur potendosene limare talune incongruenze – il ruolo di verifica del servizio sanitario nazionale e quello, consultivo, di un organo collegiale terzo (non necessariamente coincidente con i comitati etici territorialmente competenti scelti dalla Corte), quantomeno come base di partenza per individuare analoghe, seppur diverse, garanzie.

Sul fronte penalistico, si dovrà allora tornare a riflettere sulla ‘soluzione tecnica’ da prediligere per concretizzare l’esigenza di adeguamento costituzionale: esclusione della tipicità (come ritenuto dalla Corte di Assise di Milano) ovvero, come pare preferibile, scriminante procedurale? Nel primo caso, intervenendo direttamente sull’articolo 580 c.p.; nel secondo, coerentemente col percorso argomentativo seguito dalla Corte, operando nel corpo della legge n. 219 del 2017 (in particolare sull’art. 2): ciò che è certo è che, in entrambi i casi, occorrerà meglio tipizzare condizioni e presupposti di liceità e individuare adeguati rimedi per scongiurare eccessi di burocratizzazione che possano spersonalizzare e ridurre a mere formalità le procedure da seguire per legittimare agevolazioni al suicidio.

 

 

[1] Nell’ambito dell’amplissima bibliografia sviluppatasi sull’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale, appare in questa sede sufficiente rinviare, per una panoramica esaustiva della varietà di posizioni espresse sul versante costituzionalistico e penalistico, ai contributi apparsi nel volume collettaneo Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, a cura di F.S. Marini e C. Cupelli, Napoli, 2019, e all’accurata ricostruzione, tanto dell’ordinanza quanto dell’intera questione, compiuta da G. Leo, Nuove strade per l'affermazione della legalità costituzionale in materia penale: la Consulta ed il rinvio della decisione sulla fattispecie di aiuto al suicidio, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2019, p. 241 ss.

[2] La sentenza n. 242 del 2019 è stata tempestivamente pubblicata, il giorno stesso del deposito, in questa Rivista, 22 novembre 2019; per un primo commento, si rinvia a C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere e la Core costituzionale risponde a se stessa. La sentenza n. 242 del 2019 e il caso Cappato, ivi, 4 dicembre 2019.

[3] Per un inquadramento sistematico del concetto di giustificazione procedurale, con appropriati riferimenti al vuoto di tutela nella formulazione attuale dell’art. 580 c.p., si rinvia, per tutti, all’ampio lavoro di A. Sessa, Le giustificazioni procedurali nella teoria del reato. Profili dommatici e di politica criminale, Napoli, 2018. Significativamente, in precedenza, M. Donini, Antigiuridicità e giustificazione oggi. Una “nuova” dogmatica, o solo una critica, per il diritto penale moderno?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 1646 ss. e M. Romano, Cause di giustificazioni procedurali? Interruzione della gravidanza e norme penali, tra esclusioni del tipo e cause di giustificazione, ivi, 2007, 1269 ss.; con specifico riferimento al caso Cappato e al percorso delineato dall’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale, cfr. altresì M. Donini, Il caso Fabo/Cappato fra diritto di non curarsi, diritto a trattamenti terminali e diritto di morire, cit., p. 128 ss.; A. Sessa, Fondamento e limiti del divieto di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.): un nuovo statuto penale delle scriminanti nell’ordinanza della Consulta n. 207/2018, ivi, p. 343 ss.

[4] Sul rilievo delle formule di proscioglimento, e sulla loro configurazione attuale anche in rapporto alle opzioni della dogmatica penalistica, cfr., per tutti, M. Daniele, voce Proscioglimento (diritto processuale penale), in Enc. dir., Annali, vol. II, Milano, 2008, p. 894 ss.; F. Morelli, Le formule di proscioglimento. Radici storiche e funzioni attuali, Torino, 2014, passim e spec. 175 ss.