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03 Febbraio 2022


Attuazione degli obblighi europei in materia di lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti: prima lettura del d.lgs. n. 184 del 2021


1. Nell’ambito dell’intensa attività legislativa che sta caratterizzando il percorso del Governo, ha trovato spazio la riforma delle norme penali in materia di contrasto alle frodi e alle falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti, attuata con d. lgs. 8 novembre 2021, n. 184. Il decreto – adottato in esecuzione della legge di delegazione europea 2020/2021, l. n. 53/2021 – costituisce l’atto di recepimento della direttiva 2019/713/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, che vincola gli Stati membri ad adattare la disciplina interna in materia di mezzi di pagamento diversi dai contanti.

La direttiva europea muove dallo scopo dichiarato di armonizzare la disciplina sanzionatoria in una settore caratterizzato di frequente dal carattere transanzionale dei fatti rilevanti (Considerando 5 e 29), al fine di aumentare la sicurezza, attraverso il contrasto alla criminalità organizzata (Considerando 1), e la fiducia dei cittadini nei mezzi di pagamento dematerializzati (Considerando 2). In quest’ottica, dunque, deve essere letto anche l’atto di recepimento che andiamo ad illustrare, per poi provare a fornire qualche primo spunto interpretativo della novella legislativa.

 

2. Il decreto in esame si compone di sei articoli, di cui gli ultimi tre disciplinano la trasmissione di dati statistici e informazioni alla Commissione europea in relazione alla materia oggetto della Direttiva 2019/713, nonché il coordinamento con gli altri Stati membri, sancendo, peraltro, la clausola di invarianza finanziaria. Più rilevanti appaiono, per il penalista, i primi tre articoli, il cui contenuto deve essere oggetto di una più approfondita esposizione.

La norma centrale, in particolare, è rappresentata dall’art. 2, che da un lato modifica il testo e la rubrica dell’art. 493-ter c.p. e, dall’altro, introduce un nuovo art. 493-quater c.p., creando così un piccolo sistema di reati volti a prevenire e punire le condotte fraudolente relative agli strumenti di pagamento diversi dal denaro contante.

Il reato di indebito utilizzo di carte di credito (art. 493-ter c.p.) ha una storia travagliata fin dalle origini: introdotto con d.l. n. 143 del 1991, nell’ambito di un provvedimento volto a limitare l’uso del contante nelle transazioni, esso puniva originariamente la sola condotta di utilizzo di tali strumenti senza il consenso del titolare; già con la legge di conversione, poi sono state introdotte le ulteriori due fattispecie di contraffazione e di cessione o possesso delle carte falsificate[1]. La norma, rimasta sostanzialmente invariata nel suo contenuto, è quindi transitata nell’art. 55 del d. lgs. n. 231/2007 per poi trovare una collocazione codicistica per effetto del d. lgs. 21/2018, di attuazione della riserva di codice.

La novella legislativa incide sull’art. 493-ter c.p. in quanto ne amplia l’oggetto materiale: come si evince già dalla nuova rubrica, infatti, la nuova fattispecie non è più rivolta solo alla punizione delle condotte aventi ad oggetto “carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o servizi”, ma, più in generale, di quelle riguardanti anche “ogni altro mezzo di pagamento diverso dal contante”. Per la definizione di tale concetto, poi, viene in soccorso l’art. 1 del d. lgs. n. 184/2021; tale norma – che richiama da vicino la definizione contenuta nella direttiva oggetto di recepimento – amplia il concetto includendovi “ogni dispositivo, oggetto o record protetto, materiale o immateriale, o una loro combinazione, diverso dalla moneta a corso legale, che, da solo o unitamente a una procedura o a una serie di procedure, permette al titolare o all’utente di trasferire denaro o valore monetario, anche attraverso mezzi di scambio digitali”.

L’ampliamento dell’oggetto sembra dunque muoversi in due direzioni: da un lato, il fatto di ricomprendere i mezzi di pagamento immateriali consente di sanzionare anche le condotte aventi ad oggetto account di mezzi di pagamento digitali aventi una diffusione sempre più ampia, come Satispay o Paypal, a prescindere dall’esistenza di un documento fisico[2]; dall’altro, lo stesso art. 1 del d. lgs. n. 184/2021, nel definire i “mezzi di scambio digitali”, ricomprende anche la “valuta digitale”, a sua volta individuata come “una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è legata necessariamente a una valuta legalmente istituita e non possiede lo status giuridico di valuta o denaro, ma è accettata da persone fisiche o giuridiche come mezzo di scambio, e che può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente”. Attraverso questa serie di richiami, di fatto, sembrerebbe che le fattispecie di cui all’art. 493-ter c.p. vengano estese a colpire non solo le condotte aventi ad oggetto mezzi di pagamento digitali attraverso cui viene scambiata moneta elettronica avente corso legale, ma anche le c.d. criptovalute, prive di valore legale ma socialmente sempre più accettate come mezzi di pagamento.

 

3. Lo stesso art. 2 del d. lgs. n. 184/2021 introduce anche una nuova fattispecie all’interno del c.p., all’art. 493-quater, rubricato “Detenzione e diffusione di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici diretti a commettere reati riguardanti strumenti di pagamento diversi dai contanti”. Come emerge già dalla rubrica, si tratta di un reato prodromico alla commissione di ulteriori reati concernenti mezzi di pagamento diversi dai contanti; la norma – che rappresenta l’attuazione dell’art. 7 della già citata Dir. 2019/713/UE – incrimina infatti la produzione e varie altre condotte di trasferimento di “apparecchiature, dispositivi o programmi informatici che, per caratteristiche tecnico-costruttive o di progettazione, sono costruiti principalmente per commettere [reati riguardanti gli strumenti di pagamento diversi dai contanti] o sono specificamente adattati al medesimo scopo”. Oltre che dall’oggetto materiale del reato, la destinazione allo scopo di commettere reati relativi ai mezzi di pagamento diversi dal contante emerge anche dal dolo specifico, che si sostanzia nel fine di fare uso di tali strumenti, o di consentire ad altri di farne uso, per la commissione di tali reati.

Il legislatore nazionale, nell’individuare l’oggetto materiale del reato, ha adottato una formulazione differente da quella del legislatore europeo, il quale ha fatto riferimento a “un dispositivo o uno strumento, dati informatici o altri mezzi principalmente progettati o specificamente adattati al fine di commettere” uno dei reati indicati dall’art. 7 della direttiva; la formulazione nazionale, laddove richiede che la destinazione dello strumento al fine emerga dalle “caratteristiche tecnico-costruttive o di progettazione” appare più aderente ad istanze di precisione e determinatezza della fattispecie.

Al contrario, il decreto fa riferimento in modo generico al fine di utilizzare tali strumenti “nella commissione di reati riguardanti strumenti di pagamento diversi dai contanti”, senza individuare le specifiche fattispecie; ciò potrebbe porre problemi nell’individuazione di quali siano quelle cui può essere rivolto lo strumento oggetto di produzione o trasferimento. Se, ad esempio, pare fuor di dubbio che  realizzare un software volto a produrre carte di credito digitali false – condotta che, se commessa, integrerebbe il reato di cui all’art. 493-ter c.p. – è certamente riconducibile alla fattispecie in esame, un software specificamente costruito per realizzare truffe online, in cui il mezzo di pagamento è solo il canale attraverso cui la vittima presta la sua cooperazione al reato, potrebbe presentare maggiori margini di incertezza.

Una possibile via d’uscita dall’incertezza interpretativa potrebbe ricavarsi dalla norma di cui all’art. 3 del decreto in esame: come si vedrà tra breve, tale norma inserisce i reati in materia di mezzi di pagamento diversi dai contanti tra i reati presupposto della responsabilità degli enti ex d. lgs. n. 231/2001, ma individua la fattispecie in modo più preciso di quanto non faccia il nuovo art. 493-quater. Al c. 2 del nuovo art. 25-octies.1, d. lgs. n. 231/2001, si fa riferimento, infatti, a “ogni altro delitto contro la fede pubblica, contro il patrimonio o che comunque offende il patrimonio previsto dal codice penale, quando ha ad oggetto strumenti di pagamento diversi dai contanti”. Si potrebbe, dunque, leggere in modo coordinato le due disposizioni e ritenere che i reati “riguardanti strumenti di pagamento diversi dai contanti” di cui all’art. 493-quater c.p. siano i medesimi indicati dall’art. 25-octies.1, c. 2, d. lgs. n. 231/2001; dunque, solo reati contro la fede pubblica, contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, previsti dal codice penale e che abbiano “ad oggetto” strumenti di pagamento diversi dai contanti.

Un’ulteriore questione interpretativa che la norma potrebbe porre riguarda la corretta individuazione della condotta penalmente rilevante: il testo della norma, infatti, fa riferimento a colui che “produce, importa, esporta, vende, trasporta, distribuisce, mette a disposizione o in qualsiasi modo procura a sé o ad altri” gli oggetti o i software finalizzati alla commissione di reati in materia di mezzi di pagamento; non è menzionato, invece, il mero possesso di tali beni materiali o immateriali, che invece sembrerebbe essere oggetto della norma alla luce della rubrica. Il fatto di punire il mero “procurare a sé” l’oggetto materiale del reato, poi, non parrebbe sufficiente a consentire la punizione del mero possesso, sulla base dell’assunto per cui “chi detiene qualcosa se lo deve essere in qualche modo procurato”: è necessario, infatti, che la condotta sia colorata dal “fine di farne uso o di consentirne ad altri l’uso nella commissione di reati”, fine che deve sussistere al momento in cui il soggetto si è procurato il bene in questione, posto che quella – e solo quella – è la condotta considerata dalla norma[3].

 

4. Il decreto, con norma non imposta dalla direttiva, introduce poi anche un secondo comma all’art. 493-quater c.p., in cui si prevede la confisca “delle apparecchiature, dei dispositivi o dei programmi informatici” nonché quella “del profitto o del prodotto del reato”, anche per equivalente. La norma ricalca pedissequamente il disposto dell’art. 493-ter, c. 2, c.p., ma non prevede la clausola di salvaguardia contenuta in tale ultima norma in base a cui la confisca del profitto o del prodotto del reato non può essere disposta quando questi “appartengano a persona estranea al reato”. Questa disparità di disciplina non pare giustificata: se, infatti, è evidente che il nuovo reato è in grado di produrre un profitto in capo all’autore – si pensi, per esempio, alla cessione dietro corrispettivo del software specificamente designato per forzare il sistema di pagamento di una banca online, e disporre bonifici dai conti correnti – non è chiaro perché tale profitto debba essere confiscabile anche laddove si trovi in capo al terzo estraneo al reato mentre il profitto derivante dall’effettivo utilizzo di tale software non lo sia.

 

5. Oltre alla modifica all’art. 493-ter e all’introduzione dell’art. 493-quater nel codice, il decreto in esame contiene altre norme di interesse per il penalista: innanzitutto, l’art. 640-ter c.p., al secondo comma, è emendato con l’inserimento di un’ulteriore ipotesi aggravante, che ricorre quando il fatto “produce un trasferimento di denaro, di valore monetario o di valuta virtuale”. Tale aggravante determina l’equiparazione della pena tra la frode informatica e l’indebito utilizzo e la falsificazione di mezzi di pagamento, equiparazione che pare ragionevole se si considera che la giurisprudenza riconduce alla fattispecie di cui all’art. 493-ter l’indebito utilizzo di carta di credito per effettuare pagamenti o prelievi di denaro contante, mentre riconduce all’art. 640-ter la non meno grave ipotesi di utilizzo indebito dei codici della medesima carta per effettuare operazioni online[4].

Altra innovazione di rilievo è contenuta, infine, nell’art. 3 del d. lgs. n. 184/2021, che reca Modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e introduce i reati in materia di mezzi di pagamento diversi tra i contanti tra i presupposti per la responsabilità delle persone giuridiche. La norma, in particolare, inserisce un art. 25-octies.1 nel d. lgs. n. 231/2001, che configura tre diversi livelli di responsabilità dell’ente, a seconda di quale sia il reato presupposto: la forma più grave, prevista dal c. 1, lett. a), riguarda l’ipotesi di cui all’art. 493-ter; la seconda fattispecie, di cui al c. 2, lett. b), accomuna i reati di cui all’art. 493-quater e 640-ter c.p., nella versione aggravata sopra esposta; l’ipotesi meno grave, residuale, invece, riguarda la già citata fattispecie di “ogni altro delitto contro la fede pubblica, contro il patrimonio o che comunque offende il patrimonio previsto dal codice penale, quando ha ad oggetto strumenti di pagamento diversi dai contanti”.

Sul versante sanzionatorio, significativo appare il fatto che la sanzione pecuniaria da 300 a 800 quote prevista per il caso di indebito utilizzo e falsificazione di mezzi di pagamento sia equivalente a quella prevista per l’illecito dell’ente derivante dalla commissione del reato di falsità in monete di cui all’art. 453 c.p.; i reati-base sono, infatti, puniti con sanzioni assai differenti, ma l’equiparazione della responsabilità dell’ente è chiaro indice del fatto che il legislatore valuta come egualmente gravi la falsificazione di monete e la contraffazione di strumenti di pagamento differenti, almeno quando operate all’interno di organizzazioni complesse.

Il c. 3 del nuovo art. 25-octies.1, poi, dispone l’applicazione delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9, c. 2, d. lgs. 231/2001 all’ente che si renda responsabile di un illecito amministrativo derivante dalla commissione di un reato in materia di mezzi di pagamento diversi dai contanti; tale norma attua l’esplicita indicazione contenuta nell’art. 11 della direttiva, in base al quale alle persone giuridiche debbono essere imposte, oltre alle sanzioni pecuniarie, anche varie forme di sanzioni interdittive.

 

***

 

6. La novella legislativa sopra riassunta presenta, dunque, rilevanti aspetti di novità ed interesse per il penalista, e l’opera del legislatore si presta ad essere apprezzata, in particolare, per l’attenzione con cui si sono cercati di definire i concetti assunti ad elementi costitutivi delle varie fattispecie.

Una prima – evidente – considerazione sulla novella legislativa riguarda il suo regime intertemporale. Tanto la modifica all’art. 493-ter quanto l’introduzione del 493-quater rappresentano, infatti, ampliamenti dell’area della punibilità: la modifica al reato di cui all’art. 493-ter nel senso dell’estensione della rimproverabilità penale a condotte aventi ad oggetto mezzi di pagamento immateriali, prima non considerate dalla norma; l’introduzione dell’art. 493-quater, invece, nel senso di includere nell’area di responsabilità penale condotte prima non oggetto di pena. Ne deriva la non applicabilità retroattiva delle norme in questione, così come di quella relativa alla responsabilità delle persone giuridiche per i reati in materia di mezzi di pagamento.

 

7. Un diverso aspetto concerne, poi, i rapporti tra le nuove fattispecie e eventuali reati con esse concorrenti. Di soluzione più semplice pare essere la questione rispetto al nuovo art. 493-quater: la norma, infatti, si apre con una clausola di sussidiarietà espressa che ne esclude l’applicazione ogni volta che il fatto integri un più grave reato. La principale ipotesi di concorso formale di norme sembra essere quella che deriva dall’integrazione tanto della fattispecie prodromica quanto di quella di indebito utilizzo e falsificazione di strumenti di pagamento, ma nulla esclude che il concorso apparente si verifichi con reati differenti, come, ad esempio, la truffa.

La presenza della clausola di sussidiarietà, peraltro, non esclude il concorso con altri reati: se si considera che una tipica ipotesi di reato volta all’ottenimento di informazioni personali relative ai mezzi di pagamento diversi dai contanti è data dal phishing, e che tale vicenda passa sovente attraverso la generazione di comunicazioni false in cui il phisher si finge un rappresentante dell’istituto che ha emesso il mezzo di pagamento, è ben possibile che il nuovo reato di cui all’art. 493-quater concorra con la fattispecie di sostituzione di persona di cui al successivo art. 494 c.p., in quanto quest’ultima integra un reato meno grave e, dunque, non assorbente[5].

 

8. Per quanto riguarda il rapporto tra l’indebito utilizzo e la falsificazione di mezzi di pagamento e altri reati potenzialmente concorrenti, la situazione sembra essere più complessa e può essere in questa sede solamente accennata[6]: i problemi derivanti dalla novella, in particolare, si pongono soprattutto rispetto al rapporto tra la nuova fattispecie e i reati informatici di cui agli artt. 615-ter ss. c.p Un’ipotesi, ad esempio, potrebbe essere quella di accesso abusivo all’home banking di un soggetto, al fine di effettuare pagamenti dal suo conto corrente; tale condotta sembra integrare, a prima vista, tanto l’indebito utilizzo di mezzi di pagamento quanto il reato di accesso abusivo a sistema informatico o telematico di cui all’art. 615-ter c.p.: tuttavia, si potrebbe forse ritenere che la natura plurioffensiva del reato di cui all’art. 493-ter c.p. sia idonea ad assorbire l’intero disvalore del fatto, in base ad un criterio di sussidiarietà. Peraltro, appare difficilmente ipotizzabile la concreta possibilità di commettere un utilizzo indebito di un mezzo di pagamento immateriale senza che vi sia altresì l’accesso abusivo a tale sistema; pertanto, anche un criterio di consunzione fondato sull’id quod plerumque accidit potrebbe portare a ritenere il reato di cui all’art. 615-ter c.p. assorbito nel nuovo reato di cui all’art. 493-ter c.p.[7]

Ancora più complessi sono poi rapporti tra l’art. 493-ter c.p. e la frode informatica di cui all’art. 640-ter c.p., soprattutto alla luce della nuova aggravante di cui al c. 2, in base a cui la pena è la reclusione da uno a cinque anni se la condotta “produce un trasferimento di denaro, di valore monetario o di valuta virtuale”; risulta infatti difficile ipotizzare un caso di indebito utilizzo di mezzo di pagamento immateriale (si pensi, ancora una volta, all’accesso abusivo all’home banking della vittima per disporre bonifici a proprio vantaggio) che non configuri al contempo anche un intervento senza diritto su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico e, dunque, una frode informatica[8]. Peraltro, non sembra neanche ragionevole ritenere che i due reati siano sempre e necessariamente concorrenti, pena una irragionevole ed ingiustificata duplicazione sanzionatoria; tuttavia, non è neanche agevole individuare una norma prevalente. Non opera, certamente, un criterio di specialità, stante le rilevanti differenze strutturali tra le due fattispecie: basti pensare al fatto che l’art. 493-ter c.p. punisce l’indebito utilizzo di mezzi di pagamento sia materiali che immateriali, mentre l’art. 640-ter c.p. concerne tutti i sistemi informatici, siano o meno mezzi di pagamento. Non è facile neanche individuare, però, un reato prevalente in base ad un criterio sostanziale: basti porre mente al fatto che le due fattispecie – se si considera l’ipotesi di truffa informatica aggravata di nuova introduzione – sono punite con la stessa cornice di pena detentiva.

L’unica soluzione ragionevole ci sembra dunque essere quella di ritenere applicabile l’art. 493-ter c.p. a tutte le ipotesi di utilizzo illegittimo di mezzi di pagamento immateriali, e di considerare come residuale l’art. 640-ter c.p., nell’ipotesi aggravata di nuova introduzione: tale soluzione avrebbe il pregio di considerare unitariamente tutti i reati commessi mediante “mezzi di pagamento”, siano essi materiali o immateriali, e di lasciare nell’ambito di applicazione della frode informatica le condotte che, pur producendo un trasferimento di denaro, non sono commesse attraverso “strumenti di pagamento diversi dai contanti”. Questa soluzione, basata sulla logica del ne bis in idem sostanziale, ci sembra conforme anche alla ratio della riforma, in quanto il reato di cui all’art. 493-ter c.p. è punito – nella fattispecie base – con una pena pari a quella che opera per l’ipotesi aggravata di truffa informatica; ne deriva, di conseguenza, la maggiore severità della prima fattispecie, stante la non operatività del meccanismo del bilanciamento.

 

9. Quanto, invece, alle questioni relative all’interpretazione dei singoli reati, un effetto certamente positivo deriverà dall’introduzione delle definizioni contenute nell’art. 1 del d. lgs. n. 184/2021, che contribuiranno a risolvere alcuni dei problemi sorti nella vigenza del testo precedente. Peraltro, al riguardo, trattandosi di definizioni piuttosto articolate, la scelta di non inserirle nel codice penale sembra rispondere all’esigenza di non appesantire quest’ultimo in modo eccessivo; tuttavia, l’inserimento all’interno del codice, trattandosi di norme valide “agli effetti della legge penale” avrebbe forse consentito di dare una maggiore visibilità alle stesse, nonché di tenere unito il micro-sistema dei reati in materia di mezzi di pagamento[9].

Per la verità, una maggiore chiarezza legislativa si sarebbe potuta ottenere eliminando del tutto dal testo dell’art. 493-ter c.p. i riferimenti a “carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi”, per lasciare il solo riferimento a “ogni strumento di pagamento diverso dai contanti”. La definizione di tale ultimo concetto fornita dal testo legislativo in esame, infatti, sembrerebbero a prima vista ricomprendere tutti gli strumenti enunciati expressis verbis dall’art. 493-ter c.p.

Se si analizza con più attenzione la norma, però, ci si accorge che qualche contrasto potrebbe sorgere: ad esempio, in passato la giurisprudenza ha ritenuto riconducibile al concetto di “altro documento analogo” a carta di credito o di pagamento anche le c.d. smart card utilizzabili presso il solo esercizio commerciale che le rilascia[10]. La definizione di cui all’art. 1 del d. lgs. n. 184/2021, invece, sembrerebbe escludere tali strumenti dal concetto di “mezzo di scambio digitale”, che a sua volta è connesso a quello di “strumento di pagamento diverso dai contanti”[11]. Si tratta, evidentemente, di discrepanze marginali, ma che certamente non contribuiscono a portare chiarezza in un settore – quale quello dei mezzi di pagamento diversi dai contanti – ove le esigenze di definizioni precise e univoche sembra essere particolarmente sentita; peraltro, se si dovesse optare per la ricostruzione della norma nella sua nuova formulazione nel senso per cui il concetto di “strumenti di pagamento diversi dai contanti” sia in rapporto di genere a specie con quelli di “carte di credito o di pagamento” e altri documenti analoghi, si potrebbe anche giungere alla conclusione per cui il secondo concetto andrebbe riletto alla luce del primo, in senso restrittivo.

 

10. Un ultimo aspetto su cui ci sembra opportuno porre l’attenzione, infine, riguarda il delicato tema delle criptovalute e della tutela da accordare a tali forme di risparmio. La definizione di “valuta virtuale”, di cui all’art. 1, lett. d) del decreto in esame, infatti, sembra fare riferimento proprio a tale tipo di fenomeno monetario; dato che le lettere precedenti della medesima norma ricomprendono le valute virtuali nell’ambito dei “mezzi di scambio digitali”, che, a loro volta, costituiscono “strumenti di pagamento diversi dai contanti”, bisogna ritenere che i reati di cui agli artt. 493-ter e 493-quater c.p. possano essere commessi anche con riguardo a portafogli di valute non ufficiali. L’inclusione rappresenta certamente un dato positivo, alla luce della mole crescente di investimenti in valute virtuali effettuati in Italia negli ultimi anni[12]; tuttavia, qualche aspetto problematico sembra porsi.

Innanzitutto, su un piano di politica criminale, viene da chiedersi se la tutela accordata dai reati di cui agli artt. 493-ter e 493-quater c.p. sia di qualche reale utilità rispetto alle criptovalute; i rischi maggiori connessi a tali strumenti di investimento e pagamento, infatti, sembrano connessi all’instabilità delle stesse, soprattutto nella fase iniziale della loro diffusione nonché rispetto a quelle con volumi di traffico più limitati[13]. Il rischio, dunque, sembra più essere quello di subire truffe o manovre speculative fraudolente da parte di chi crea la valuta virtuale o la controlla nelle sue fasi iniziali, piuttosto che quello di subire l’accesso abusivo al portafoglio virtuale.

Su un piano di tecnica normativa, poi, la definizione fornita dall’art. 1, lett. d) del decreto in commento non convince appieno. Tale definizione si basa su un duplice elemento: da un lato, infatti, vi è il requisito negativo della non ufficialità della moneta (“rappresentazione di valore che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è legata necessariamente a una valuta legalmente istituita e non possiede lo status giuridico di valuta o denaro”) mentre, dall’altro lato, l’elemento positivo è fondato sulla diffusione della valuta e sulle sue caratteristiche (“ma è accettata da persone fisiche o giuridiche come mezzo di scambio, e […] può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente”). Se le caratteristiche tecniche dello strumento sembrano suscettibili di accertamento processuale, il fatto che una rappresentazione di valore digitale sia o meno accettata da persone fisiche o giuridiche come mezzo di scambio presenta profili di incertezza assai maggiori: l’assenza di un riconoscimento ufficiale, infatti, rende assai difficile valutare quale sia il grado di riconoscimento sociale o di diffusione necessario per poter qualificare un determinato strumento digitale come “valuta virtuale”.

In questo senso, peraltro, una fonte di ulteriore complessità potrebbe essere data dal Considerando 10 della direttiva 2019/713/UE, di cui il decreto in esame rappresenta attuazione: in esso, infatti, si afferma che “la presente direttiva dovrebbe coprire le monete virtuali soltanto nella misura in cui possono essere comunemente utilizzate per effettuare pagamenti”. Se, quindi, da un lato si vuole evitare che i reati di nuovo conio siano funzionali a tutelare le criptovalute come strumento speculativo e di investimento, dall’altro non è chiaro come differenziare le diverse funzioni di tali strumenti, né quando la funzione speculativa e di investimento – che connota in modo esclusivo la fase iniziale di vita delle criptovalute – può considerarsi recessiva rispetto a quella di pagamento, per cui il singolo conio digitale può considerarsi “valuta virtuale” ai sensi dell’art. 1 del d. lgs. n. 184/2021.

 

 

 

[1] È appena il caso di osservare che, secondo l’interpretazione più diffusa, la norma si configura come mista cumulativa, nel senso che ogni fattispecie integra un autonomo titolo di reato, idoneo a concorrere con gli altri; si veda in tal senso R. Bertolesi, Sub art. 493-ter, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, V ed., Milano, Wolters Kluwer, 2021, §6.

[2] Da notare, peraltro, che la causa di non punibilità di cui all’art. 649 c.p. non è applicabile al reato di indebito utilizzo di mezzi di pagamento (in tal senso, R. Bertolesi, Sub art. 493-ter, cit., §2); pertanto, il famigliare che utilizzi abusivamente, ad esempio, l’account Satispay del proprio congiunto non potrà beneficiare della causa di non punibilità in questione.

[3] Si veda al riguardo G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, X ed., Milano, Giuffrè, pp. 377, 380 e  392. Posto che, nei reati a dolo specifico, l’oggetto del dolo abbraccia anche il risultato ulteriore cui la condotta deve essere rivolta, e che tanto la rappresentazione quanto la volizione della condotta rilevano nel momento in cui questa ha inizio, è necessario che anche la rappresentazione del risultato ulteriore oggetto di dolo specifico sussista al momento in cui la condotta è posta in essere, a nulla rilevando l’insorgere successivo.

[4] C. Pecorella, Sub art. 640-ter, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, V ed., Milano, Wolters Kluwer, 2021, §35.

[5] La giurisprudenza della Cassazione, infatti, ritiene che il reato di sostituzione di persona sia assorbito nell’indebito utilizzo di carta di credito – in base alla clausola di sussidiarietà contenuta nell’art. 494 c.p. – solo quando la sostituzione di persona e il diverso reato siano integrati dalla medesima condotta; in questo senso, da ultimo, C. Cass., sez. II, 22/09/2021, n.39276, in De Jure. La condotta di cui al nuovo art. 493-quater, però, non sembra poter coincidere con quella di sostituzione di persona, posto che quest’ultima rappresenterebbe, al più, lo stadio successivo di utilizzo del software oggetto di produzione o detenzione.

[6] Per approfondimenti al riguardo, rispetto ai rapporti tra la fattispecie precedente la riforma e altre ipotesi delittuose, si rinvia ancora una volta a R. Bertolesi, Sub art. 493-ter, cit., §12 ss.

[7] Sui criteri di sussidiarietà e consunzione come fondamento di ipotesi di concorso apparente di norme, si veda G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, cit., pp. 564 ss.

[8] In tal senso, si veda nuovamente C. Pecorella, Sub art. 640-ter, cit., §20-21.

[9] D’altra parte, definizioni di concetti normativi non sono affatto sconosciute alla disciplina codicistica, anche nell’ambito stesso dei reati contro la fede pubblica; si pensi all’art. 458, c. 2, c.p., che fornisce la definizione di “carte di pubblico credito” o all’art. 459, c. 2, in materia di “valori di bollo”.

[10] R. Bertolesi, Sub art. 493-ter, cit., §7.

[11] Il d. lgs. n. 184/2021, infatti, nel definire i “mezzi di scambio digitali” (art. 1, lett. c)), fa rinvio all’art. 1, c. 2, lett. h-ter) del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, il quale, a sua volta, esclude dal concetto di “moneta elettronica” il valore monetario memorizzato sugli strumenti di cui all’art. 2, c. 2, lett. m) del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11. Quest’ultimo menziona alcuni strumenti di pagamento limitati, perché 1) utilizzabili solo nell’esercizio commerciale emittente o all’interno di una rete contenuta di prestatori di servizi contrattualmente vincolati all’emittente; 2) utilizzabili solo per una ristretta gamma di beni o servizi; 3) regolamentati da un’autorità pubblica per l’acquisto di specifici beni o servizi da fornitori che abbiano un accordo con l’autorità pubblica (si pensi, per esempio, alle carte per ottenere gli sconti sulla benzina diffuse nei territori lombardi confinanti con la Svizzera). Dunque, il numero 1) dell’art. 2, c. 2, lett. m) del d. lgs. n. 11/2010 esclude dal concetto di “moneta elettronica” – da cui dipende quello di “mezzo di scambio digiale” – le c.d. smart card emesse da un esercente ed utilizzabili solo presso di esso e altri esercizi affiliati o connessi.

[12] Secondo dati riportati da ilSole24Ore, negli ultimi due anni il volume delle cryptocurrencies in circolazione nel mondo sarebbe aumentato del 2500%; l’articolo è consultabile a questo link.

[13] Per approfondimenti sul tema delle criptovalute rispetto al diritto penale, si veda G.P. Accinni, Cybersecurity e criptovalute. Profili di rilevanza penale dopo la Quinta direttiva, in questa Rivista, 15 maggio 2020.