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20 Marzo 2023


Carcere e 41 bis: tra poteri del Ministro della Giustizia e opportunità di affermare la riserva di giurisdizione. Note a margine del caso Cospito e di una recente decisione della Cassazione

Cass. Sez. I, sent. 20 aprile 2022 (dep. 7 febbraio 2023) n. 5363, Pres. Tardio, rel. Cairo



*Il presente contributo è destinato al fascicolo n. 3/2023 di Sistema penale.

 

1. La vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica, come periodicamente accade, l’istituto, assai controverso, del regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis o.p.

Sono tante le domande che tale caso ha suscitato e che sono state e tutt’ora sono oggetto di discussione tanto nel dibattito pubblico, quanto tra gli studiosi: dai più radicali interrogativi sulla persistente utilità del regime detentivo speciale in un contesto criminologicamente molto diverso da quello dei primi anni ’90, nei quali l’istituto era nato; alle considerazioni di chi, senza mettere in dubbio la perdurante sussistenza delle esigenze di prevenzione speciale che ne sono alla base, si interroga sull’opportunità di restringere l’ambito di operatività di tale regime detentivo ai soli esponenti di vertice di organizzazioni criminali strutturate come quelle mafiose o terroristiche; ai dubbi sulla reale necessità di impiegare un regime così fortemente limitativo di diritti per perseguire il fine, che si riconosce come legittimo, di interrompere il flusso di comunicazioni tra il detenuto e l’associazione criminale all’esterno[1].

Accanto alle riflessioni sul 41 bis, il caso di Alfredo Cospito solleva anche quesiti delicati e complessi relativi alla compatibilità con lo stato detentivo di un detenuto che si è ridotto in uno stato di grave infermità per effetto dello sciopero della fame ed ancora interrogativi sul dovere, o quanto meno sulla possibilità, per lo Stato di praticare l’alimentazione forzata, quale trattamento salvavita, nei confronti di un detenuto che abbia scelto di lasciarsi morire[2].

 

2. Rimanendo sul terreno del regime detentivo speciale, c’è un aspetto che è rimasto in secondo piano, ma che merita a mio avviso di essere approfondito e la cui rilevanza è stata messa in evidenza proprio dalla vicenda in esame. Il tema – su cui ho già avuto modo di sviluppare alcune riflessioni in un lavoro monografico (Il ‘carcere duro’ tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Giuffrè, 2016) – è quello della opportunità, ma prima ancora della legittimità, della disciplina legislativa del 41 bis, nella parte in cui individua nel Ministro della Giustizia l’organo competente ad emettere, prorogare ed eventualmente revocare il regime detentivo speciale. Sotto questo profilo, la vicenda in esame ha consentito di toccare con mano che, laddove si sia in presenza di una vicenda esposta mediaticamente e politicamente sensibile, l’attribuzione al Ministro della giustizia della competenza in materia crea il rischio molto concreto che le decisioni, in questo caso la revoca del regime del ‘carcere duro’, siano influenzate da considerazioni che esulano dalla valutazione giuridica relativa alla sussistenza dei presupposti applicativi (in particolare della capacità del detenuto di orientare le condotte criminali dei sodali all’esterno). Nel caso di specie, è parso infatti immediatamente evidente che, in un contesto in cui il Governo andava declamando che “lo Stato non arretra” e che accogliere la richiesta del detenuto sarebbe stato un “cedimento dello Stato”, sarebbe risultato molto difficile per il Ministro pronunciarsi per la revoca, anche laddove l’istruttoria avesse evidenziato elementi tali da mettere in dubbio l’effettiva necessità del 41 bis al fine di contenere la pericolosità sociale del detenuto. Nel senso che sarebbe stato possibile soddisfare le esigenze di prevenzione speciale collocando Cospito in regime di alta sicurezza, d’altra parte, si è espressa, come è noto, la Direzione Nazionale Antimafia in un parere reso al Ministro.

 

3. Può valere allora la pena – anche perché la vicenda in corso possa costituire un’occasione per riaprire un confronto sulle prospettive di riforma di questo istituto così controverso –  innanzitutto riflettere sulle ragioni che indussero il legislatore ad attribuire ad un’autorità politico-amministrativa, quale il Ministro della giustizia, anziché ad un organo della giurisdizione, il potere di applicare e revocare il 41 bis e quindi interrogarsi, oltre che sulla opportunità, anche sulla effettiva legittimità di tale scelta rispetto ai principi costituzionali.

Occorre allora sinteticamente ricordare che il regime detentivo speciale – introdotto nel 1992 con decretazione d’urgenza nel tragico contesto delle ‘stragi di mafia’ – è stato inizialmente concepito come un provvedimento emergenziale, destinato ad avere efficacia in via soltanto temporanea. In quel particolare contesto l’attribuzione del potere di emettere i decreti di applicazione del 41 bis ad un organo di vertice dell’Esecutivo, quale appunto il Ministro della giustizia, rispondeva chiaramente all’esigenza di garantire la tempestività dell’intervento.   

A seguito di plurime proroghe del termine iniziale di vigenza, l’art. 41 bis è divenuto norma stabile nell’ordinamento per effetto della riforma operata con la legge 22 dicembre 2002, n. 279. Tale legge, che ha operato una profonda revisione della disciplina del regime detentivo speciale allo scopo di ricondurre negli argini della Costituzione un istituto caratterizzato al suo nascere da tratti gravemente illiberali, ne ha però conservato la competenza in capo al Ministro della Giustizia. Tale soluzione non era affatto scontata poiché, in occasione dell’approvazione della nuova legge, sulla questione si erano formate sia in dottrina, sia in Parlamento posizioni fortemente contrastanti: in particolare, alla tesi di chi riteneva opportuno mantenere la natura amministrativa dei provvedimenti applicativi si contrapponeva la tesi di chi riteneva necessario – per garantire la legittimità costituzionale dell’istituto – trasferirne la competenza in capo ad un’autorità giudiziaria[3].

A sostegno della scelta di conservare in capo al Ministro il potere di applicare, prorogare, nonché revocare[4] il regime detentivo speciale sono state addotte ragioni legate alla necessità di garantire un’efficiente gestione del sistema: la ‘centralizzazione’ della competenza in capo ad un organo di vertice sembrava infatti la soluzione che meglio avrebbe potuto assicurare la tempestività nell’assunzione dei provvedimenti di applicazione, nonché il coordinamento delle informazioni necessarie.

Come ho già avuto modo di osservare [5], gli argomenti spesi a sostegno della competenza ministeriale dei provvedimenti in materia di 41 bis non paiono a dire il vero irresistibili, essendo invece assai più rilevanti, come a breve cercherò di dimostrare, le ragioni che possono essere spese a favore di una soluzione diversa, ed in particolare nel senso della attribuzione di tale competenza ad un giudice. E tale tesi ci pare trovi conforto nelle più recenti vicende che hanno interessato il 41 bis: da un lato, in considerazione dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale nella materia dell’esecuzione penale e, dall’altro lato, in ragione degli evidenti rischi di strumentalizzazione politica che genera l’opzione governativa, in luogo di quella giurisdizionale. È proprio il caso Cospito ad evidenziarlo.

 

4. È interessante osservare – a dimostrazione del fatto che la controversia su questo profilo è ad oggi tutt’altro che sopita – che di recente con la sentenza 7 febbraio 2023, n. 5363 (che può leggersi in allegato), la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla ammissibilità di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 41 bis, proposta dalla difesa, proprio su questo punto. Il difensore, in particolare, ha ravvisato il contrasto della disciplina con l’art. 13 Cost., partendo dal presupposto che il regime detentivo speciale dovesse considerarsi come una misura di prevenzione personale incidente sulla libertà personale e che per tale ragione esso dovesse essere applicato da un giudice.

La Cassazione ha ritenuto la questione manifestamente infondata, respingendo, da un lato, la tesi della qualificazione del regime detentivo speciale come misura di prevenzione personale[6] ed osservando, dall’altro, che il ricorrente aveva riproposto tematiche già sottoposte allo scrutinio della Corte costituzionale e ripetutamente affrontate dalla stessa Cassazione. Il riferimento alla giurisprudenza costituzionale è, in particolare, alla sentenza 28 luglio 1993, n. 349, dunque ad una sentenza pronunciata ad un anno dall’introduzione del regime detentivo speciale e che si ‘colloca’ in un momento in cui lo stesso era ancora concepito come uno strumento emergenziale, introdotto in via temporanea per fare fronte ad una situazione percepita come eccezionale.

Vale la pena soffermarsi brevemente su questa pronuncia della Corte costituzionale perché ad essa si riferisce immancabilmente la Cassazione nel dichiarare la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale del 41 bis in relazione all’art. 13 Cost. Nella sentenza 349/1993, la Corte fa un’affermazione di principio di estrema importanza, laddove dichiara che la garanzia dell’inviolabilità della libertà personale, sancita dall’art. 13 Cost., deve considerarsi operante anche nei confronti di chi è sottoposto a legittime restrizioni della libertà personale poiché “chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l'ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”.

Pur partendo da tale premessa, che sembrava sottintendere l’idea che il regime detentivo speciale andasse ad incidere proprio su quel prezioso residuo di libertà personale rimasto in capo al detenuto, la Corte costituzionale ha rigettato la questione, con la motivazione che le limitazioni inerenti al 41 bis, in quanto attinenti solamente al “regime detentivo in senso stretto”, non incidono sulla quantità e sulla qualità della pena. Nell’affermare che le norme che riguardano il trattamento intra-murario, indipendentemente dal loro contenuto, non possono comportare modificazioni nella qualità della pena, e tanto meno quindi ulteriori limitazioni della libertà personale del detenuto, la sentenza 349/1993 tradisce un’impostazione formalistica, in aperta contraddizione con l’idea – che sta progressivamente penetrando nella giurisprudenza costituzionale – secondo cui l’ambito di operatività di una garanzia va determinata sulla base della ratio di tutela ad essa sottesa, piuttosto che su  considerazioni formali relative alla natura delle norme implicate.

 

5. Sembra evidente che tale risalente pronuncia della Corte costituzionale non possa più costituire un comodo schermo dietro il quale trincerarsi per eludere una questione sulla quale vale la pena invece provare a riflettere in modo aperto. Le ragioni per le quali la sentenza del 1993 non costituisce una risposta soddisfacente alla domanda che ci poniamo sono molteplici. Al di là della considerazione del contesto nel quale la sentenza fu pronunciata e del fatto che sono passati trenta anni nei quali il 41 bis è stato più volte e sotto diversi aspetti riformato, assumendo una fisionomia diversa da quella che aveva alle origini, la Corte costituzionale non ci pare cogliere nel segno laddove afferma apoditticamente che le prescrizioni attinenti al trattamento penitenziario non possono incidere sulla quantità e sulla qualità della pena[7]. A nessun osservatore può infatti sfuggire che il 41 bis è una misura che comporta un carico afflittivo decisamente superiore rispetto a quello normalmente connesso all’esecuzione di una pena detentiva. E’ evidente infatti che la situazione del detenuto in regime ordinario è assai diversa da quella del detenuto in 41 bis: il primo può passare diverse ore della giornata fuori dalla cella; gode di una, pur relativa, libertà di movimento all’interno della sezione dell’istituto penitenziario nel quale si trova; può effettuare colloqui con familiari o altre persone almeno una volta alla settimana; può decidere liberamente con quali detenuti interagire; gode di almeno quattro ore di permanenza all’aria aperta ogni giorno; svolge un ventaglio (più o meno ampio) di attività trattamentali. Il detenuto in 41 bis, invece, è costretto all’interno di una cella 22 ore su 24; non gode di nessuna autonomia di movimento all’interno della sezione dell’istituto penitenziario; nelle due ore nelle quali gli è concesso di uscire dalla cella può frequentare un numero assai limitato di detenuti (in genere tre, ma anche uno solo se si tratta di soggetti collocati nelle famigerate ‘aree riservate’), che sono stati selezionati per lui dall’Amministrazione penitenziaria; può fruire di un unico colloquio mensile con i familiari, che si svolge in un contesto di assoluta costrizione, trovandosi il detenuto dietro ad un vetro divisorio a tutt’altezza, attraverso il quale può solo vedere il familiare, senza però avvicinarsi a lui e senza avere alcun contatto fisico; è sostanzialmente escluso dalla partecipazione ad attività trattamentali. All’elenco di restrizioni contenute nell’art. 41 bis co. quater devono poi aggiungersi le ulteriori restrizioni, spesso assai gravose, che non trovano fonte nella legge, ma nelle circolari dell’Amministrazione penitenziaria e che contribuiscono a rendere estremamente afflittiva la detenzione (restrizioni che riguardano ad esempio il vitto, il vestiario, gli oggetti che possono essere detenuti all’interno della cella o ancora i canali televisivi che possono essere oggetto di visione…).

Da ciò la conclusione che, a differenza di quanto osservava la Corte costituzionale nel 1993, il regime detentivo speciale non può essere considerato come una mera modalità esecutiva della pena detentiva, ma deve piuttosto essere concepito come una misura sanzionatoria autonoma, caratterizzata da un carico afflittivo ulteriore rispetto alla detenzione ordinaria e tale da generare una compressione dello spazio di libertà ‘residuo’ proprio del detenuto. Una conclusione, questa ultima, avvalorata anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che non infrequentemente, nelle sentenze in cui si occupa di valutare la compatibilità con l’art. 3 Cedu di un determinato trattamento penitenziario, definisce i regimi detentivi di rigore come “prison within imprisonment”.

A prescindere da ulteriori considerazioni, che non possono trovare spazio in questa sede, circa l’auspicabile riconduzione del regime detentivo speciale alla ‘materia penale’ (nell’accezione sostanziale con cui l’espressione è usata nella giurisprudenza europea), con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di applicazione delle garanzie penalistiche[8], quanto si è più sopra sostenuto dovrebbe convincere circa la necessità di ripensare la disciplina che regola la competenza in questa materia.

L’attribuzione del potere di emettere, prorogare e revocare i provvedimenti relativi al 41 bis ad un giudice è imposta, in prima battuta, dall’art. 13 Cost. che stabilisce la riserva di giurisdizione a tutela della libertà personale, in quanto valore supremo ed idealmente inviolabile[9]: il delicato compito di bilanciare, nel caso concreto, le esigenze di difesa sociale con le istanze di tutela della libertà personale non può che essere riservato ad un giudice che, per la sua distanza da interessi politici e per il fatto di essere soggetto soltanto alla legge, è colui che, meglio di chiunque altro, può svolgere questa missione[10].

 

6. Il superamento della posizione sostenuta nella sentenza 349/1993 ci pare oggi ancor più imprescindibile alla luce della progressiva presa di distanza della Corte costituzionale da atteggiamenti formalistici basati sulla collocazione topografica di una norma o sulla qualificazione formale della stessa. Il riferimento, in particolare, è alla sentenza 26 febbraio 2020, n. 32, con la quale la Corte ha operato una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell'esecuzione della pena. In questa storica sentenza la Corte – ribaltando quello che era un consolidato orientamento nella sua giurisprudenza – ha affermato che anche modifiche della disciplina dell’esecuzione della pena detentiva devono soggiacere alla garanzia dell’irretroattività laddove comportino una trasformazione della natura della pena e incidano concretamente sulla libertà personale del condannato. Ora, se è vero che tali promettenti affermazioni si sono tradotte in un’apertura piuttosto cauta della Corte (essendosi riconosciuta l’operatività del principio di irretroattività solo in relazione a modifiche che comportino una trasformazione dell’esecuzione della pena ‘tra dentro il carcere e fuori dal carcere’), tuttavia non può non apprezzarsi il valore di principio della menzionata sentenza che, come è stato efficacemente scritto, ha aperto “una breccia nel muro che per lungo tempo ha separato il diritto penale sostanziale e le norme dell’esecuzione penale” e che “ha tutto il tono di un leading case per forma e contenuti, lasciando presagire possibili ulteriori progressioni”[11].

In questo senso, i tempi paiono oggi maturi perché si possa serenamente ammettere che anche modifiche che incidono sul regime detentivo in senso stretto, ossia su misure che regolano l’esecuzione intramuraria della pena, sono in grado di incidere sulla qualità della pena e possono comportare una compressione ulteriore della libertà personale del detenuto tale da chiamare in causa la riserva di giurisdizione contenuta nell’art. 13 Cost.

Alle considerazioni appena svolte, che si collocano sul piano della legittimità costituzionale della disciplina, devono aggiungersi considerazioni di opportunità: l’attribuzione al Ministro della Giustizia del potere di decidere sul 41 bis, come abbiamo già osservato, genera il rischio che vengano strumentalizzate a fini politici vicende individuali, che dovrebbero essere decise sulla base di valutazioni strettamente giuridiche, relative alla sussistenza dei presupposti applicativi stabiliti dalla legge. Qualora effettivamente la decisione sulla sussistenza dei presupposti applicativi fosse contaminata da valutazioni di natura diversa, allora sì, come è stato da più parti osservato, che si potrebbe parlare di un cedimento dello Stato di diritto.

 

 

 

[1] Cfr., ad esempio, tra i tanti contributi sul tema comparsi sulle riviste giuridiche o sui quotidiani, M. Donini, Serve un martire della legge per cambiare il 41 bis?, Il riformista, 12 febbraio 2023; G: Fiandaca, Il carcere da salvare, Il foglio quotidiano, 10 febbraio 2023; G. Zagrebelsky, Cospito, la coscienza e la Costituzione, La Stampa, 11 febbraio 2023. Di recente, su questa rivista, R. Cornelli, L’emergere del paradigma penitenziario del “carcere duro”, in questa Rivista, 15 marzo 2023.

[2] Sul punto cfr. ora il Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica a margine del caso Cospito (pubblicato in questa Rivista., 15 marzo 2023, che contiene le risposte ai quesiti formulati dal Ministero della Giustizia circa la possibilità di eseguire, in caso di imminente pericolo di vita, interventi di nutrizione e rianimazione contro la volontà, precedentemente espressa, da parte di persona che abbia intrapreso uno sciopero della fame.

[3] In dottrina, nel senso di conservare la competenza in capo al Ministro cfr., tra gli altri, A. Martini, Sub art. 19 d.l. 306/92, in Legisl. pen., 1993, p. 214. Nel senso invece dell’opportunità di affidare l’applicazione del 41 bis ad un giudice cfr. F. Giunta, Proroga delle disposizioni di cui all’art. 41 bis, in Legisl. pen., 1996, p. 55, secondo cui “poiché il contenimento di una siffatta pericolosità passa inevitabilmente attraverso una significativa restrizione delle libertà del detenuto, il regime carcerario differenziato (…) andrebbe accompagnato dalla duplice garanzia della legalità e della giurisdizione”; nello stesso senso T. Padovani, Il regime di sorveglianza particolare: ordine e sicurezza negli istituti penitenziario all’approdo della legalità, in Grevi (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Cedam, 1994, p. 155 ss.

[4] Può risultare utile ricordare che la previsione della revoca ministeriale del provvedimento applicativo, in precedenza espressamente disciplinato dall’art. 41 bis, è stata abrogata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94. 2009 (sulle ragioni di tale abrogazione si rinvia, volendo, a A. Della Bella, Il ‘carcere duro’ tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Giuffrè, 2016, p. 147 ss). Sin da subito tuttavia la giurisprudenza della Cassazione, per impedire un’altrimenti inevitabile censura di incostituzionalità, ha accolto l’interpretazione secondo cui, nonostante l’abrogazione, nel momento in cui siano venuti meno i presupposti che legittimano il provvedimento applicativo, il potere-dovere del Ministro di revocarlo deve ritenersi sussistente, trattandosi di un potere di cui l’Autorità amministrativa dispone, in quanto tale, a prescindere da una espressa previsione legislativa, derivando dal dovere di procedere all’auto-annullamento dei propri atti quando si rivelino illegittimi.

[5] Cfr. A. Della Bella, Il ‘carcere duro’ tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, cit., p. 409 ss

[6] Le motivazioni della Suprema Corte tese a negare l’equiparazione del regime detentivo speciale ad una misura di prevenzione personale (tesi questa fatta propria dalla stessa Amministrazione penitenziaria) appaiono a dire il vero piuttosto fumose: si sottolinea la diversità tra l’istituto del 41 bis e le misure di prevenzione sotto il profilo dei presupposti applicativi (in questo senso si osserva che l’art. 41 bis postula anche la ricorrenza di condizioni oggettive di emergenza e sicurezza pubbliche, oltre che condizioni soggettive riguardanti il detenuto) e sotto il profilo dell’efficacia (in questo senso si osserva molto genericamente che l’art. 41 bis comporterebbe solo una limitazione dei diritti soggettivi e non la loro radicale limitazione). Ci sembra peraltro che la ragione dirimente per confutare tale impostazione debba fare leva sul contenuto del regime detentivo speciale che si caratterizza, come diremo, per essere una misura che genera una ulteriore compressione della libertà personale del detenuto: se si accoglie tale premessa, non può allora accogliersi la qualificazione del 41 bis come una misura di prevenzione dal momento che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ed in particolare la giurisprudenza elaborata sub art. 5 Cedu, nega la legittimità di misure privative della libertà ante delictum. Più diffusamente, sul punto, A. Della Bella, Il ‘carcere duro’ tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, cit., p. 383 ss.

[7] Sul punto, nel senso che “appare poco convincente la considerazione secondo la quale tutto quanto afferisce al trattamento non sia in grado di incidere sulla libertà residua del detenuto”, cfr. A. Menghini, Carcere e Costituzione. Garanzie, principio rieducativo e tutela dei diritti dei detenuti, 2022, p. 441 ss.

[8] Su cui volendo A. Della Bella, Il regime detentivo speciale, cit. p. 369 ss.

[9] Sul punto la nostra Costituzione è perentoria: sancire che non è ammessa alcuna restrizione della libertà personale “se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria” significa affermare che all’interno dell’ordinamento non possono esistere settori impermeabili al controllo del giudice, che deve investire tutti i casi e i modi di restrizione della libertà personale.  Si potrebbe obiettare che la riserva di giurisdizione risulta rispettata nel momento in cui la legge prevede un controllo giurisdizionale successivo sulla legalità del provvedimento amministrativo, così come accade nel caso del provvedimento ministeriale di applicazione del 41 bis, che può essere oggetto di reclamo al tribunale di sorveglianza: l’obiezione però può essere superata laddove si consideri che l’art. 13 Cost. consente la sequenza ‘decisione dell’autorità amministrativa-convalida dell’autorità giudiziaria’ nei soli casi di necessità ed urgenza .

[10] Così V. Angiolini, Riserva di giurisdizione e libertà costituzionali, Cedam, 1992, p. 55 ss.