1. Agli onori della cronaca è assurta negli ultimi giorni la Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla lotta contro la corruzione mediante il diritto penale, la quale mira ad aggiornare il quadro giuridico dell’UE in tale materia.
L’atto legislativo dell’Unione è stato appena sottoposto all’esame del nostro Parlamento (ed è al vaglio di altri Parlamenti nazionali), ai fini della verifica di conformità al principio di sussidiarietà ex art. 5 TUE.
Il 19 luglio 2023 la XIV Commissione della Camera dei Deputati (Politiche dell’Unione Europea) ha, infatti, redatto un “parere motivato” (ai sensi dell’art. 6, Protocollo n. 2, allegato al TUE e al TFUE), esponendo le ragioni per le quali si ritiene che la Direttiva proposta dalla UE non sia conforme al principio di sussidiarietà (nonché a quello di proporzionalità).
Ad avviso della Commissione Politiche dell’UE, la Proposta di Direttiva «esorbita dalla base giuridica richiamata a suo fondamento nella misura in cui essa disciplina reati ulteriori rispetto a quello di corruzione in senso stretto, privi peraltro del requisito della transnazionalità, relativamente ai quali l’UE non ha competenza ad adottare norme di armonizzazione».
In senso fortemente critico, nel documento parlamentare, si è inoltre osservato che, in ogni caso, il progetto di Direttiva risulta palesemente in contrasto con i principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Esso infatti prevede – senza che sia dimostrata la necessità e il valore aggiunto dell’intervento a livello unionale – una disciplina pervasiva la quale «incide profondamente su normative quali quelle contenute nei codici penali e di procedura penale, che tengono conto delle specificità dei sistemi, dei dati statistici e delle culture giuridiche, economiche e sociali, nonché dell’ordinamento costituzionale e delle Pubbliche amministrazioni di ciascun Stato membro».
Il parere negativo della Commissione Politiche dell’UE è stato confermato dall’aula della Camera (26 luglio 2023). La “maggioranza”, con l’apporto del “terzo polo”, ha approvato in Assemblea a Montecitorio la “bocciatura” – da parte della Commissione parlamentare – della Proposta di Direttiva europea in materia di contrasto alla corruzione (187 sì, 100 contrari e 3 astenuti).
Ebbene, come si cercherà di argomentare nel prosieguo del contributo, i profili di criticità, posti in rilievo nel documento approvato dalla Commissione Politiche dell’UE, appaiono fondati su argomenti giuridici errati e talora persino anacronistici sul piano del diritto. Si tratta di argomenti che tradiscono lo spirito europeista del nostro Paese nell’avvalorare una antiquata e superata concezione di un diritto-penale-tutto-nazionale, senza “aperture” che tengano conto della dimensione ormai sovranazionale anche dell’ambito penalistico. Si tralasciano nel discorso chiaramente le implicazioni “politiche” della “bocciatura”, che potrebbero essere molteplici; segnalando solo che essa avviene nel momento cui si è raggiunto un faticoso accordo con la UE per incassare entro il 2023 i fondi della terza e quarta rata del PNRR.
2. L’atto legislativo proposto dall’UE vincola gli Stati membri all’adozione sia di norme di “armonizzazione minima” delle figure criminose (e delle sanzioni) riconducibili alla corruzione in senso ampio, sia di misure di prevenzione, nonché di strumenti per rafforzare la cooperazione nelle attività di contrasto di tale fenomeno.
In particolare, gli artt. da 7 a 13 definiscono le fattispecie di corruzione (settore pubblico e privato), di appropriazione indebita, di traffico di influenze, di abuso di ufficio (settore pubblico e privato), di intralcio alla giustizia, di arricchimento mediante corruzione; imponendo per tali figure criminose così delineate, se intenzionali, obblighi di incriminazione.
Il provvedimento normativo in esame, dettando “norme minime”, lascia nondimeno liberi gli Stati membri di adottare o mantenere disposizioni di diritto penale più severe in tema di corruzione.
L’obiettivo del Progetto legislativo UE è garantire che tutte le forme di corruzione siano perseguibili penalmente in ciascun Stato membro, e che pure le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili di siffatti reati (art. 16); e per quest’ultimi siano comminate sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive. La Proposta comprende altresì misure per prevenire la corruzione, oltre che per agevolare la cooperazione transfrontaliera.
In via preliminare, non ci si può esimere dal dire che all’Unione Europea è sicuramente attribuita la competenza ad agire in materia di corruzione.
L’art. 5 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), il “principio di attribuzione”, conferisce questa competenza all’UE; intendendo la corruzione “in senso ampio”, così come in tutte le Convenzioni internazionali e allo stesso modo avviene nella legislazione italiana e nell’elaborazione dottrinale.
Nel nostro sistema questa infatti viene intesa non solo quale fenomeno comprensivo delle figure di corruzione in senso stretto di cui agli artt. 318 e 319 c.p., ma anche delle fattispecie del “microsistema della corruzione”: la concussione, l’induzione indebita, il traffico di influenze, l’abuso d’ufficio, la malversazione e l’indebita percezione di erogazioni pubbliche, ecc.
In materia di corruzione, si tratta tuttavia di una competenza “non esclusiva”, da esercitarsi da parte del legislatore europeo nel rispetto quindi dei principi di “sussidiarietà” e “proporzionalità”.
La sussidiarietà, appunto – non essendo la corruzione un settore di competenza esclusiva della UE – richiede di intervenire solo se gli obiettivi previsti siano meglio realizzabili dall’UE rispetto ai singoli Stati.
L’intervento della Unione Europea nella lotta alla corruzione produrrebbe qui certamente un “valore aggiunto”, riavvicinando ulteriormente il diritto penale degli Stati membri e contribuendo a creare condizioni di parità tra gli stessi, un maggior coordinamento e norme comuni. Si tratta del “valore dinamico” del “principio di sussidiarietà”, che permette di aggiungere “competenza” alla UE.
Il mancato intervento inasprirebbe le implicazioni transfrontaliere della corruzione, stante la graduale espansione negli ultimi anni del fenomeno della “corruzione transfrontaliera” nella UE, con conseguenze negative sia sugli interessi finanziari dell’Unione sia sulla sicurezza interna. Si darebbe inoltre agli autori dei delitti di corruzione la nefasta opportunità di “forum shopping”, potendosi scegliere quest’ultimi la giurisdizione dello Stato più favorevole.
Al riguardo, è opportuno segnalare che nel citato parere della XIV Commissione si è osservato negativamente che il carattere transnazionale del fenomeno criminale oggetto di disciplina non appare interamente dimostrato, quanto meno con particolare riferimento al reato di intralcio alla giustizia e a quello abuso di ufficio.
Ebbene, il carattere transnazionale del fenomeno corruttivo va apprezzato nel suo insieme, a livello di “microsistema della corruzione”: è una valutazione globale del fenomeno e non può essere casistica, reato per reato. Non v’è dubbio che un esame complessivo delle fattispecie di reato riconducibili all’ambito corruttivo conduce ad affermare il pieno carattere transnazionale delle stesse, nel loro complesso, nel loro essere (sotto)sistema.
I profili di transnazionalità unionale dell’abuso di ufficio si traggono oltretutto dalla seguente considerazione. Il legislatore italiano è nuovamente intervenuto, dopo il d.lgs. n. 75 del 2022, integrando la disciplina italiana attuativa della c.d. Direttiva PIF in materia di lotta contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto penale. In particolare, l’art. 1 d.lgs. n. 156 del 2022 include il delitto di abuso di ufficio nel catalogo dei delitti di cui all’art. 322-bis c.p., con la conseguenza che anche gli agenti pubblici non nazionali ivi elencati potranno essere ritenuti responsabili di tale reato.
In ossequio poi al “canone della proporzionalità” di cui all’art. 5, par. 4 TUE, la presente proposta di direttiva è tenuta certamente:
(i) sia a rispettare gli obblighi e le norme internazionali per quanto riguarda la corruzione in senso ampio: obblighi e limiti di criminalizzazione sovranazionali in relazione alle Convenzioni di Strasburgo e Merida di cui la UE è parte;
(ii) sia a rispettare i principi costituzionali, supremi e non, della nostra Costituzione, nonché i principi fondamentali dei sistemi giuridici degli Stati membri (e in quest’ultima ipotesi, vedremo come ciò sia importante per il traffico di influenze illecite).
Ora, il principio di attribuzione, che delimita la competenza dell’UE, è rispettato nel caso della Proposta di Direttiva di contrasto alla corruzione 2023, perché si rinviene una chiara ed esplicita “base giuridica” negli artt. 4, 82 e 83 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
In particolare, per quanto concerne l’art. 4, par. 2 TFUE, l’Unione Europea ha competenza concorrente, tra l’altro, nel settore dello “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”.
Secondo l’art. 82, par. 1, lett. d), del TFUE, l’Unione adotta le misure intese a facilitare la cooperazione fra le autorità giudiziarie degli Stati membri in relazione all’azione penale e all’esecuzione delle decisioni.
Ai sensi dell’art. 83, par. 1, del TFUE: l’Unione può utilizzare lo strumento della direttiva per stabilire norme minime che definiscano i reati (fattispecie + sanzione) in sfere di criminalità transnazionale, e tra queste viene espressamente menzionata la corruzione intesa in senso ampio, comprensiva cioè di tutte le incriminazioni che vanno a comporre il sottosistema: corruzione di agente pubblico, corruzione nel settore privato, traffico di influenze, abuso di ufficio, arricchimento illecito del pubblico agente, ecc.
L’art. 83, par. 2, TFUE prevede in questi casi l’uso della direttiva con obblighi di criminalizzazione per armonizzare e garantire l’efficace attuazione delle politiche dell’Unione Europea; direttiva da adottare secondo la procedura legislativa ordinaria.
3. Svolta questa premessa, concentrerò la mia attenzione su due figure di reato che rientrano nel microsistema corruttivo, inteso quest’ultimo in senso ampio: l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e il traffico d’influenze illecite (art. 346-bis c.p.). Come accennato, gli artt. 10 (Trading in influence) e 11 (Abuse of functions) della Proposta di Direttiva 2023 impongono agli Stati membri di prendere le misure necessarie affinché tali condotte, ove intenzionali, siano punibili come reati.
Il presupposto, come detto, è che l’UE in tale ambito abbia competenza, seppur concorrente, a legiferare con lo strumento della direttiva, dovendo però rispettare:
(a) gli obblighi internazionali, ossia le convenzioni in materia di corruzione di cui appunto è parte l’UE;
(b) i principi costituzionali, supremi e non, e gli istituti fondamentali dei sistemi giuridici interni.
Quanto alla Proposta di Direttiva di lotta alla corruzione del 2023, essa non trova alcun ostacolo nel chiedere agli Stati membri di criminalizzare l’abuso di ufficio nel settore pubblico – come anche il traffico d’influenze.
È vero che la Convenzione ONU di Merida del 2003 non pone certo un vincolo di criminalizzazione, bensì solo una facoltà, in relazione all’abuso d’ufficio (e al traffico di influenze, cfr. il par. seguente). È una facoltà per i singoli Stati penalizzare l’abuso d’ufficio, ai sensi dell’art. 19 della Convenzione di Merida, che caldeggia qui solamente l’uso dello strumento penale (“Each State Party shall consider adopting …”).
Ma è del tutto fuori luogo (o meglio è un vero e proprio paralogismo) far discendere da questa premessa – l’aver previsto la Convenzione di Merida solo una facoltà di criminalizzazione per l’abuso di ufficio – la preclusione, nei confronti della Proposta di Direttiva del 2023, di inserire un obbligo di incriminazione in tal senso. Non c’è nessun collegamento: la Convenzione di Merida lo rende facoltativo, ma ben può la Proposta di Direttiva in parola rendere obbligatoria la criminalizzazione dell’abuso di ufficio.
La Convenzione di Merida lascia altresì espressamente liberi gli Stati di superare i “minimum standards” posti dalla stessa. Come si evince infatti dalla Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against corruption, documento di “interpretazione autentica” della Convenzione, redatto dalle stesse Nazioni Unite (Drugs and Crime Office), versione 2012, p. 59: “The Convention introduces minimum standards, but States parties are free to go beyond them. It is indeed recognized that States may criminalize or have already criminalized conduct other than the offences listed in this chapter as corrupt conduct”.
L’ipotesi di una Direttiva eurounitaria che imponga la criminalizzazione di fattispecie di reato ulteriori rispetto a quelle già imposte dalla Convenzione ONU di Merida non sembra, quindi, contrastare con gli obblighi imposti dalla stessa, in quanto è la medesima Convenzione a consentire un più ampio grado di tutela da parte degli Stati Contraenti. Su questa linea, in apertura delle Final Provisions della Convenzione, l’art. 65, rubricato “Implementation of the Convention” (Attuazione della convenzione), prevede che ciascuno Stato Parte può adottare misure più rigorose o severe di quelle previste dalla presente Convenzione al fine di prevenire e combattere la corruzione (Each State Party may adopt more strict or severe measures than those provided for by this Convention for preventing and combating corruption).
È da considerare che l’obbligo di criminalizzazione previsto dalla Proposta di Direttiva del 2023 (l’art. 11, “Abuse of functions”: “Member States shall take the necessary measures …”, “Gli Stati membri prendono le misure necessarie …”) va a toccare una sola delle sottofattispecie dell’abuso d’ufficio nel settore pubblico: quella legata al sindacato del giudice penale sul corretto uso dei poteri pubblici, lasciando fuori la sottofattispecie di prevaricazione da parte del funzionario pubblico (il c.d. abuso di danno).
Ma questo potrebbe anche essere corretto, perché la prevaricazione dell’agente pubblico nei confronti del privato – la sottofattispecie di abuso di danno – è il nucleo del “vecchio” abuso d’ufficio, che oggi è sanzionato anche attraverso ulteriori strumenti penalistici e nelle altre legislazioni rinviene un campo applicativo diverso.
Riguardo alla sanzione, l’art. 15 lett. b) della Proposta di Direttiva stabilisce che tanto il reato di abuso d’ufficio quanto il traffico di influenze siano punibili con una pena detentiva massima non inferiore a cinque anni. Si tratta di una pena superiore a quanto previsto attualmente per i due delitti (4 anni di reclusione per l’art. 323 c.p. e 4 anni e 6 mesi per l’art. 346-bis c.p.).
Da notare che le pene richieste dalla Proposta di Direttiva non superano il livello medio delle pene detentive massime previste per questi reati negli Stati membri. La fissazione di un livello minimo per la sanzione massima a livello UE tende a facilitare la cooperazione transfrontaliera di polizia giudiziaria e ad accrescere l’effetto di deterrenza.
Poste tali premesse, vanno osservate due cose al riguardo dell’abuso d’ufficio:
(i) la prima è che tutti gli Stati membri, i quali hanno risposto al “questionario” (25 Stati UE) inviatogli dalla Commissione per condividere le proprie norme incriminatrici concernenti la corruzione in senso lato, presentano nel loro ordinamento penale il reato di abuso d’ufficio, nessuno escluso;
(ii) l’altra cosa è che la sottofattispecie moderna – quella imperniata sul controllo del giudice penale sulla legalità dell’agire della pubblica amministrazione è, come dire, anche in linea con quanto richiesto dalla nostra Costituzione, all’art. 97, laddove prevede la tutela dell’imparzialità e del buon andamento della PA.
E oltretutto si tratta di un valore comune, riconosciuto ovunque, che il giudice penale debba controllare, sindacare, la necessaria legalità dell’azione amministrativa (dei pubblici poteri): si tratta di una norma incriminatrice di garanzia per il cittadino.
Qualche parola infine sull’inedita figura dell’abuso d’ufficio nel settore privato, previsto art. 11 § 2 della Proposta di Direttiva. Si tratta di un tema sicuramente da approfondire in una sede diversa, e che è presente nell’attuale dibattito parlamentare e politico. Tuttavia, va considerato che la disposizione in questione concerne tipologie di condotte che per lo più appaiono sussumibili in fattispecie criminose già presenti nel nostro ordinamento penale con altra intitolazione in differenti ambiti: si pensi ai settori del diritto penale societario o tributario oppure a quello della crisi di impresa, ai falsi o alle frodi.
Va inoltre tenuto presente (ed approfondito) che nell’abuso d’ufficio nel settore privato, il soggetto attivo del reato è una “persona che svolge funzioni apicali o subordinate per un ente privato”, ma nel nostro sistema penalistico, la qualifica soggettiva di “agente pubblico” (artt. 357-358 c.p.) può sussistere anche se l’individuo lavora in una impresa che opera in regime privatistico.
4. Per quanto riguarda il reato di traffico di influenze illecite, come già per l’abuso di ufficio, bisogna mettere in luce che la Convenzione ONU di Merida del 2003 all’art. 18 non impone un obbligo di criminalizzazione, ma solo una facoltà – come per l’abuso d’ufficio – (“Each State Party shall consider adopting …”).
Nella già citata Guida legislativa per l’attuazione della Convenzione contro la corruzione (versione 2012, p. 58-59), si chiarisce la suddivisione della Convenzione in due parti: la prima, recante reati per i quali sussiste effettivamente un vincolo di incriminazione (“The first part focuses on mandatory criminalization, that is the offences that State parties must establish as crimes”); la seconda, recante reati la cui penalizzazione risulta, invece, meramente facoltativa (“The second part of the criminalization section outlines the offences that States parties are required to consider establishing and covers articles 16, paragraph 2, 18 to 22 and 24”).
Per contro, la Convezione di Strasburgo del 1999 pone invero all’art. 12 un vero e proprio obbligo specifico di criminalizzazione (“Each Party shall adopt …”).
E quindi anche qui non c’è dubbio che queste due Convezioni (Merida e Strasburgo) non ostano alla Proposta di Direttiva del 2023 di intervenire, con l’art. 10, e di imporre un preciso obbligo di criminalizzazione del traffico di influenze in capo agli Stati Membri (Article 10: “Trading in influence”, “Member States shall take the necessary measures …”).
Si rende tuttavia necessaria una precisazione quanto al “contenuto” dell’obbligo di incriminazione relativo al reato di traffico di influenze illecite. Va notato quanto segue: non possiamo non rispettare la nostra Costituzione – i principi di colpevolezza e di offensività – e la nostra tradizione giuridico-penalistica.
Dal contenuto della Proposta di Direttiva 2023 (art. 10) riguardo al traffico di influenze illecite, non risulta chiaro, anzi probabilmente può essere argomentato in modo contrario, la rilevanza penale di condotte che l’Italia invece non può criminalizzare alla luce dei suoi principi costituzionali e della sua tradizione giuridica: in altre parole risultano fuori dal nostro sistema costituzionale due profili che potrebbero essere collegati a quest’obbligo di criminalizzazione che la Proposta di Direttiva 2023 ci impone.
Prima di esaminare i due profili sopra evidenziati, è necessario sottolineare preliminarmente come nella Proposta di Direttiva europea il carattere dell’influenza trafficata può, testualmente, essere anche solo presunta/supposta (“real” or “supposed”). Inoltre, ai sensi dell’art. 10 § 2 della citata Proposta «affinché la condotta di cui al paragrafo 1 sia punibile come reato è irrilevante che l'influenza sia esercitata o meno o che la presunta influenza porti o meno ai risultati voluti» (it shall be irrelevant whether or not the influence is exerted or whether or not the supposed influence leads to the intended results).
Al riguardo, si ritiene che un simile obbligo di incriminazione risulti compatibile con il nostro ordinamento, giustificando la punizione del privato “cliente”, solamente nella misura in cui l’influenza nei confronti dell’agente pubblico, seppure soltanto “presunta/supposta”, sia tuttavia almeno potenzialmente instaurabile da parte del “trafficante” di influenze.
Ebbene, il primo profilo, che va assolutamente evitato, è quello che concerne la penalizzazione del “cliente”, del privato, in materia di traffico di influenze illecite. Qualora egli paghi il trafficante (il mediatore) senza che quest’ultimo abbia alcun collegamento, alcuna possibilità di istituire una relazione con l’agente pubblico, il cliente non può essere penalizzato, perché ciò è contrario agli artt. 25 e 27 Cost. (principi di offensività e di colpevolezza). In questo caso si tratta sì di un soggetto che ha intenzioni malvagie (sarà un “cattivone”, che dir si voglia), ma non è certo un individuo che può essere sanzionato penalmente. È una persona offesa da parte di un venditore di fumo, di un mediatore che lo truffa.
L’altro profilo – collegato al primo – è che l’intermediario, in questi casi in cui non ha nessuna possibilità di collegarsi con l’agente pubblico, non può essere punito a titolo di traffico di influenze illecite. I principi costituzionali e sovranazionali di offensività e di proporzionalità lo impediscono, perché qui siamo in presenza di un truffatore; e quindi non c’entra nulla il traffico d’influenze illecite, trattandosi di una fattispecie concreta che deve essere tutt’al più ricondotta alla truffa (avendo oltretutto il legislatore nel 2019, con la novella spazzacorrotti, abrogato il millantato credito).
5. Concludo in tema di abuso d’ufficio osservando che, come leggiamo da tutte le parti, sta per andare in discussione in Parlamento un disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 15 giugno 2023 (c.d. d.d.l. Nordio), che – tra l’altro – intende abrogare (in modo “secco”) l’abuso d’ufficio.
Nella Relazione illustrativa di tale disegno di legge si afferma come lo «squilibrio tra le iscrizioni della notizia di reato e decisioni di merito, rimasto costante anche dopo le modifiche volte a ricondurre la fattispecie entro più rigorosi criteri descrittivi, è indicativo di una anomalia che ha portato alla scelta proposta con il presente disegno di legge».
È certamente vero che siamo in presenza di un serio problema: giacché siamo al cospetto di una conclamata forbice tra procedimenti iniziati e condanne definitive pronunciate.
Ma di fronte a questa anomalia, noi dobbiamo curare la vera malattia.
E qui la malattia non è l’abuso d’ufficio, che, come abbiamo visto dal questionario citato, è reato esistente in tutte le legislazioni europee e sarà – spero – a breve imposto – come obbligo di criminalizzazione – dalla (Proposta di) Direttiva 2023 in materia di lotta alla corruzione.
La soluzione a tali questioni reali poste sul tappeto non può essere quella di abrogare l’art. 323 c.p. La soluzione sta bensì nel far rimanere in vita l’art. 323 c.p., ma sensibilizzando al contempo i pubblici ministeri, i quali dimostrano talvolta una scarsa attenzione nella gestione delle iscrizioni delle notizie di reato, oltreché nella conduzione delle indagini preliminari.
Su questi profili bisogna insistere, e perciò curare la malattia con la medicina giusta.
La medicina giusta non può essere l’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio, ma è “contenere” il PM nell’iscrizione delle notitiae criminis, che non hanno nulla a che vedere con l’abuso d’ufficio e con il traffico di influenze illecite.
Ebbene, nella maggior parte dei casi, l’abuso d’ufficio viene veicolato alle Procure tramite denunce private di cittadini che segnalano episodi di mala gestione amministrativa. Tali denunce, tuttavia, si caratterizzano per lo più dalla mera segnalazione dell’adozione di atti amministrativi illegittimi. Ma in queste ipotesi – oggi a maggior ragione di ieri – non si può procedere alla immediata iscrizione nell’apposito registro. Ai sensi del novellato art. 335 c.p.p., l’emanazione di un provvedimento illegittimo di per sé non costituisce notizia di reato. Quest’ultima deve contenere la descrizione di un fatto, determinato e non inverosimile, corrispondente in ipotesi a una fattispecie incriminatrice.
Appare allora necessario – proprio a causa della parola “fatto” e degli aggettivi “determinato e non inverosimile” inseriti nel nuovo art. 335 c.p.p. – che nella notizia di reato siano “indicati” e poi “descritti in modo analitico” tutti gli elementi fattuali richiesti da una fattispecie astratta: condotta, evento, nesso causale, presupposti e modalità della condotta. Dovendosi ritenere che la parola “fatto” in tale contesto valga ad indicare tutti gli elementi descritti in una fattispecie incriminatrice, allo stesso modo in cui è stato inteso dalla Corte costituzionale nella sua giurisprudenza in riferimento al divieto di un secondo giudizio, ex art. 649 c.p.p.
Ora, il delitto di abuso di ufficio è una fattispecie piuttosto analitica, le condotte tipiche e gli eventi incriminati sono determinati – anche sulla base dell’opera interpretativa della giurisprudenza – con molta precisione. Il provvedimento illegittimo dunque è solo un possibile “sintomo” di un abuso d’ufficio: è un “sospetto” di una notizia di reato. Per tale ragione siffatte denunce dovrebbero essere qualificate come “atti non costituenti notizie di reato” e dovrebbero quindi essere iscritte nell’apposito registro (il c.d. modello 45) e potrebbero – su base discrezionale – essere oggetto di una verifica preliminare (la c.d. pre-inchiesta) finalizzata a “ricercare” una notizia di reato vera e propria. Solo nel caso in cui vengano individuati tutti i plurimi elementi che concorrono a delineare il fatto nell’abuso d’ufficio, si potrà iscrivere nel registro degli atti costituenti notizie di reato. Ma in tal caso la notizia di reato non è più la denuncia: si è qui in presenza di una notitia criminis “presa d’iniziativa”.
Oltretutto, sempre ai sensi del nuovo art. 335 c.p.p. solo in presenza di indizi si può procedere all’iscrizione “soggettiva”; la quale, tra l’altro, in base all’inedito art. 335-bis c.p.p., non può determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa per la persona alla quale il reato è attribuito.
Del pari, una volta avviata l’indagine, la verifica della consistenza probatoria (al fine delle determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale) non solo dovrebbe riguardare tutti gli elementi – nessuno escluso – che concorrono a delineare la fattispecie abusiva di cui all’art. 323 c.p., fra i quali spicca il dolo intenzionale, data la sua difficoltà di accertamento; ma impone anche di raggiungere uno standard probatorio complessivo assai pregnante, in ragione della nuova regola decisoria dell’archiviazione di cui al novellato art. 408 c.p.p. che impedisce l’esercizio dell’azione quando gli elementi acquisiti durante le indagini preliminari non consentano una ragionevole previsione di condanna.
Se si acquisirà maggior consapevolezza da parte delle Procure del funzionamento sia delle nuove regole che governano la scelta relativa all’iscrizione nell’uno o nell’altro registro, sia delle nuove norme che indicano la prognosi a cui deve essere sottoposta la notizia di reato ai fini della richiesta di rinvio a giudizio, non si dovrebbero più verificare quegli effetti patologici segnalati dalle statistiche; i quali, quindi, non possono essere ricondotti alla mancanza di determinatezza della fattispecie, tutt’altro.
In definitiva, la paventata abrogazione dell’abuso d’ufficio inficia il microsistema corruttivo, lo depotenzia, perché tale delitto fa parte a pieno titolo del sottosistema in questione; è, come dire, l’avamposto (insieme al traffico di influenze illecite), il delitto-spia, delle figure di corruzione in senso stretto (è collegato direttamente agli artt. 318 e 319 c.p.).
Si tratta di un microsistema, e il diritto penale è fondato sui microsistemi: reati contro la persona, abusi di mercato, reati contro il patrimonio, reati contro la PA, ecc. Ben venga dunque una Direttiva europea che, in modo coerente ed efficace in tutta l’Unione, ponga un obbligo di criminalizzazione in materia di abuso d’ufficio (e traffico di influenze) veri perni del sottosistema di lotta alla corruzione … un fenomeno che, si stima, ha un costo per l’economia dell’Unione pari ad almeno 120 miliardi di euro all’anno.