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15 Ottobre 2021


Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della ‘legge Cartabia’

Legge 27 settembre 2021, n. 134, «Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari» (G.U. n. 237 del 4 ottobre 2021)



 

1. Con la pubblicazione della l. 27 settembre 2021, n. 134 (“Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”), arriva ufficialmente in porto la riforma del processo e del sistema sanzionatorio penale. Si tratta, in ordine di tempo, della prima riforma organica in materia di giustizia approvata dal Parlamento, su iniziativa della Ministra Marta Cartabia. Una riforma gemella, relativa al processo civile, è stata approvata in prima lettura dal Senato nello scorso mese di settembre ed è ora all’esame della Camera (d.d.l. A.C. 3289“Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata").

La parola chiave che, sin dal titolo dei disegni di legge, accomuna le due riforme Cartabia – quella penale e quella civile – è efficienza: efficienza del processo e, con essa, della giustizia. Le due riforme parallele sono espressione di una stagione politica e di una di pagina della storia della giustizia italiana caratterizzate, come mai prima, da riflessioni e interventi normativi sul tema della qualità e dell’organizzazione della giustizia, intesa come fattore fondamentale per la giustizia. Gli interventi riformatori sono infatti mossi dall’esigenza di raggiungere precisi, concreti e ineludibili obiettivi del P.N.R.R., concordati dal Governo con la Commissione Europea: la riduzione dei tempi del processo entro i prossimi cinque anni, pari, nei tre gradi di giudizio, al 25% nel settore penale e al 40% in quello civile. Dal raggiungimento di questi obiettivi – come a più riprese ha ricordato la Ministra Cartabia, anche in un intervento pubblicato su questa Rivista – dipendono i fondi europei legati al P.N.R.R., essenziali per la ripresa del Paese. Si tratta, d’altra parte, di obiettivi del tutto coerenti con i principi costituzionali e sovranazionali, che notoriamente includono la ragionevole durata del processo tra i requisiti del giusto processo, o fair trial (artt. 111 Cost. e 6 Cedu).

Evidente è il rapporto tra efficienza e ragionevole durata del processo: senza l’una, non è raggiungibile l’altra. Evidente è anche la cartina di tornasole dello stato di (in)efficienza della giustizia italiana, rappresentata dai dati statistici che mostrano come i tempi medi dei processi siano generalmente superiori ai termini di ragionevole durata individuati dalla legge Pinto e di gran lunga superiori agli standard europei. Un dato per tutti: nella storia della Corte di Strasburgo (1959-2021), l’Italia vanta l’imbarazzante primato internazionale di primo Paese per numero di condanne per violazione dell’art. 6 Cedu, relativamente alla durata dei processi: sono ben 1202; al secondo posto, doppiata, la Turchia, con 608 condanne. Tra i Paesi a noi vicini, anche per tradizione giuridica, e con i quali siamo soliti confrontarci, le condanne della Francia sono 284, quelle della Germania 102, quelle della Spagna 16. Non è dunque difficile comprendere perché mai, in tema di giustizia, l’Unione Europea abbia individuato proprio la riduzione dei tempi della giustizia come fondamentale obiettivo strategico che il nostro Paese, con il supporto finanziario della stessa U.E., è chiamato a raggiungere attraverso riforme strutturali in grado di rilanciare l’economia, oltre al benessere sociale.

In un circolo virtuoso, le riforme degli assetti normativi sono funzionali a obiettivi previsti da un piano di finanziamento, il P.N.R.R., attraverso il quale ingenti fondi europei entrano nell’economia pubblica italiana anche e proprio per facilitare il raggiungimento degli obiettivi del piano stesso. Il riferimento, quanto alla giustizia, è ai fondi che consentiranno le assunzioni straordinarie di 16.500 giovani laureati nell’Ufficio per il processo. Energie e forze intellettuali fresche chiamate in due scaglioni, nei prossimi cinque anni, a comporre l’equipe del giudice, con l’obiettivo di smaltire l’arretrato e ridurre i tempi della giustizia. Il primo bando, per 8.171 assunzioni con contratto di due anni e sette mesi, si è chiuso a settembre (oltre 66.000 le domande) e i vincitori prenderanno servizio nei diversi distretti italiani all’inizio dell’anno prossimo. A ben vedere, il decreto-legge 8 giugno 2021, n. 80, che disciplina le assunzioni straordinarie nell’ufficio per il processo, è in ordine di tempo la prima e non meno importante riforma della giustizia realizzata dal Governo Draghi. Lo ha pubblicamente in più occasioni sottolineato la Ministra Cartabia. Si tratta di una riforma che rappresenta uno straordinario investimento diretto, anche in questo caso, agli obiettivi dell’efficienza e della ragionevole durata del processo. È una riforma sinergica a quelle del processo penale e del processo civile. Per toccarne con mano l’impatto basti pensare che, nei prossimi cinque anni, consentirà di inserire nell’organico del personale della giustizia, con funzione ausiliaria del lavoro dei giudici, una quota pari ai due terzi dell’attuale organico dello stesso personale. Oltre ai 16.500 law clerk, laureati in giurisprudenza addetti all’ufficio per il processo, saranno assunte 5.140 unità di personale propriamente tecnico-amministrativo: tra gli altri, tecnici IT, operatori di data entry, analisti di organizzazione, tecnici statistici. Si tratta di assunzioni a tempo determinato, entro l’orizzonte temporale del P.N.R.R., perché sono finanziate con fondi europei nell’ambito del piano (a progetto, in altri termini). Nonostante ciò, lo sforzo organizzativo per la costituzione del nuovo ufficio per il processo, che impegna già in questi giorni il Ministero della Giustizia e i diversi uffici giudiziari italiani, è volto a progettare un nuovo modello di organizzazione del lavoro dei giudici destinato a realizzare una riforma strutturale della giustizia. Tanto la legge delega di riforma del processo penale (art. 1, co. 26), quanto il disegno di legge delega di riforma del processo civile (art. 1, co. 18), prevedono infatti un’articolata disciplina dell’ufficio per il processo, concepita come struttura organizzativa stabile, non “emergenziale”, destinata pertanto a operare anche dopo il raggiungimento degli obiettivi del P.N.R.R., dando così un nuovo e rinvigorito volto a una realtà normativamente prevista sin dal 2014 (art. 50 d.l. 90/2014), cui il legislatore ha inteso oggi assegnare un ruolo centrale nel recupero di efficienza del sistema giustizia. A tal fine sono previsti ulteriori investimenti: dal 1° gennaio 2023 sarà possibile assumere, questa volta a tempo indeterminato, 1500 unità di personale nell’ufficio per il processo (la relativa autorizzazione alla spesa è prevista nei due interventi di riforma – penale e civile – per, rispettivamente, 1.000 e 500 unità).

 

2. La riforma della giustizia penale si ambienta dunque in un più ampio contesto, e va letta come un fondamentale tassello di un complessivo disegno di riorganizzazione della giustizia volto a elevarne il tasso di efficienza e a ridurne i tempi, in linea con gli obiettivi del P.N.R.R. Un disegno che passa tanto attraverso la riscrittura delle norme processuali, quanto attraverso nuovi modelli di organizzazione del lavoro del giudice e degli uffici giudiziari, resi possibili grazie a investimenti sul personale e anche sulle strutture; edilizia e digitalizzazione, infatti, sono altri due importanti capitoli dedicati alla giustizia nel P.N.R.R. Chi frequenta i palazzi di giustizia sa bene quanto l’ammodernamento delle strutture e l’innovazione tecnologica possano rappresentare fattori decisivi per accelerare i tempi della giustizia. In particolare, la digitalizzazione, nel processo penale, è a uno stadio arretrato rispetto a quanto avviene nel settore civile. Di per sé sola può contribuire notevolmente a ridurre i tempi del processo. Non a caso è uno degli snodi centrali della legge delega di riforma del processo penale.

La chiave di lettura della riforma penale non è però solo quella del P.N.R.R. Come non ha mancato di notare sulle pagine di questa Rivista un acuto osservatore come Francesco Palazzo, il contesto politico nel quale la riforma è stata approvata è del tutto peculiare e rappresenta un’altra fondamentale chiave di lettura. La maggioranza che sostiene il Governo è tanto ampia quanto eterogenea: riflette visioni del processo e del diritto penale assai diverse. La legge Cartabia nasce in Parlamento come disegno di legge Bonafede, presentato dall’allora Ministro della Giustizia nel marzo del 2020, in una stagione politica recente ma molto diversa dall’attuale. A quel disegno di legge sono state apportate nel corso dell’iter parlamentare, soprattutto per iniziativa del Governo e della Ministra Cartabia, numerosissime modifiche – ulteriori a quelle più note in tema di prescrizione del reato –, compreso l’innesto di interi settori di intervento non originariamente contemplati (si pensi, emblematicamente, alle previsioni relative al processo in assenza, al sistema sanzionatorio e alla giustizia riparativa). Il risultato finale è molto diverso dall’originario disegno di legge e, in parte, lo è anche rispetto alle proposte di emendamento elaborate dalla Commissione Lattanzi, generalmente accolte con favore dalla critica: rappresenta infatti il punto di caduta di una complessa attività di mediazione tra Governo e forze di maggioranza, che solo dopo la non facile convergenza su quel punto di caduta hanno approvato la legge, con il voto di fiducia, alla Camera prima e al Senato poi. Tutti hanno dovuto rinunciare a qualcosa, facendo così prevalere l’interesse comune all’approvazione di una riforma essenziale per il Paese, anche e proprio in considerazione del suo carattere strumentale agli obiettivi del P.N.R.R. Merito della Ministra Cartabia, del Presidente Draghi e dell’intero Governo è di essere riusciti, all’esito di una complessa mediazione politica, a preservare il carattere organico e sistematico del complessivo disegno riformatore, e la sua idoneità a raggiungere gli obiettivi del P.N.R.R. Francesco Palazzo ha parlato di un quasi “miracolo”. Non va dimenticato infatti che, proprio sulla riforma della giustizia penale e della prescrizione del reato era caduto il precedente Governo. La giustizia penale è, politicamente, un campo minato. E la sua riforma è come una sottile corda che, questa volta, non si è spezzata, per il bene del Paese. Nel commentare la legge e le sue parti è questo un essenziale dato di contesto che non può essere trascurato.

 

3. Accecata dall’acceso – a tratti eccessivo – dibattito sulla prescrizione del reato e sulla ‘improcedibilità’, l’opinione pubblica non si è resa forse ancora conto della vastità degli interventi di riforma contemplati nella legge delega; interventi che attraversano tutto il processo penale, dalla fase delle indagini al giudizio di legittimità, che si estendono a istituti chiave del sistema sanzionatorio e che aprono la strada alla giustizia riparativa, con un intervento organico che riprende e sviluppa un cammino iniziato ma non portato a compimento alcuni anni fa con la legge Orlando.

La legge, per effetto di una tecnica parlamentare adottata in caso di voto di fiducia, si compone di due soli articoli, e di numerosi commi, spesso ripartiti in altrettanto numerose lettere. L’articolo 1 contiene le deleghe al Governo per la riforma del processo penale, del sistema sanzionatorio penale e per la disciplina organica della giustizia riparativa. L’articolo 2 detta invece alcune disposizioni immediatamente precettive. Si tratta di alcune disposizioni che apportano modifiche al codice penale e al codice di procedura penale. Le più note sono quelle in tema di prescrizione del reato e di improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini massimi di durata del giudizio di impugnazione. Nello stesso articolo 2 sono inoltre previste alcune disposizioni di accompagnamento/attuazione della riforma nel suo complesso. Tra queste, quelle che prevedono l’istituzione presso il Ministero della Giustizia di due comitati: il Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria (art. 2, co. 16); il Comitato tecnico-scientifico per la digitalizzazione del processo (art. 2, co. 20).

L’orizzonte temporale della riforma è il seguente: le deleghe di cui all’articolo 1 dovranno essere attuate dal Governo entro un anno dall’entrata in vigore della legge (19 ottobre 2022), con uno o più decreti legislativi. I relativi schemi dovranno essere trasmessi alle competenti commissioni parlamentari, per un parere che dovrà essere reso entro sessanta giorni. Le disposizioni immediatamente precettive di cui all’articolo 2, invece, entreranno in vigore il 19 ottobre 2021, dopo l’ordinario periodo di vacatio legis.

 

4. La legge 134/2021, nel suo impianto complessivo, rappresentato dalle disposizioni dell’art. 1, è una legge delega (lo testimonia a ben vedere già il titolo). Riforme del processo penale con carattere di organicità – a partire da quella che nel 1988 ho portato al nuovo codice di procedura penale – rendono normalmente opportuno, per la complessità tecnica, il ricorso allo strumento della delegazione legislativa. L’art. 2 contiene invece alcune disposizioni che, per volontà politica – come nel caso della prescrizione del reato e dell’improcedibilità – o per ragioni tecniche, sono state formulate come immediatamente precettive.

Di seguito passeremo in rassegna i contenuti della riforma. Lo faremo senza la pretesa di abbozzare un primo commento e con l’intento di fornire al lettore una prima guida di lettura, a mo’ di indice. La vastità e la complessità degli interventi rendono infatti non inutile una mappa della riforma. Approfondimenti e commenti troveranno naturalmente spazio sulla nostra Rivista, con l’auspicio che possano rappresentare anche utili contributi di riflessione in vista dell’attuazione della legge delega. Un primo commento, che copre larga parte degli interventi in essa contenuti, è d’altra parte rappresentato dalla Relazione finale dei lavori della Commissione Lattanzi, alla quale rinviamo.

 

5. A dispetto del clamore suscitato dagli interventi in tema di prescrizione del reato e di improcedibilità, il cuore della riforma è rappresentato dai criteri di delega contenuti nell’art. 1. Con essi il Parlamento ha delegato il Governo a realizzare una vasta riforma che ha ad oggetto tre ambiti tematici:

il processo penale (art. 1, co. 5-13, 24-26)

• il sistema sanzionatorio (art. 1, co. 14-17, 21-23)

• la giustizia riparativa (art. 1, co. 18-20)

Il filo rosso che attraversa tutti gli interventi è rappresentato dalla riduzione del tempi della giustizia; un obiettivo che la riforma persegue non solo incidendo sulle norme del processo penale, ma anche con interventi sul sistema penale – come quelli relativi alla non punibilità per particolare tenuità del fatto, alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, e alle sanzioni (rectius, pene) sostitutive delle pene detentive brevi – capaci di produrre significativi effetti di deflazione processuale. Anche le previsioni in tema di giustizia riparativa condividono la medesima finalità, che accomuna anche le disposizioni civilistiche in tema di mediazione e modalità alternative di soluzione dei conflitti, oggetto del parallelo disegno di legge di riforma del processo civile.

Ridurre i tempi del processo penale, senza rinunciare a fondamentali garanzie, e alleggerirne il carico individuando possibili alternative al processo e alla pena carceraria. Queste, in estrema sintesi, le macro-direttrici di fondo dell’articolata riforma.

 

5.1. Processo penale.

A) Digitalizzazione e processo penale telematico (art. 1, co. 5)

Un primo gruppo di interventi mira a realizzare una transizione digitale e telematica del processo penale, che promette una notevole riduzione dei tempi. Nell’era di internet il processo penale, pur nel rispetto di fondamentali garanzie costituzionali, non può essere insensibile all’innovazione tecnologica che, ormai, riguarda ogni settore dell’attività umana e ogni servizio pubblico, quale è – non si dimentichi – anche la giustizia.

Una delle cause della lentezza del processo penale va individuata nello scarso livello di digitalizzazione degli atti e di informatizzazione delle procedure. I procedimenti penali prendono corpo ancora oggi in fascicoli cartacei, che devono fisicamente transitare da un ufficio all’altro, durante l’iter processuale. Emblematica la foto di un motoscafo carico di fascicoli, consegnata alla Ministra Cartabia dai vertici degli uffici giudiziari durante una recente visita a Venezia. Se i fascicoli fossero digitalizzati, si potrebbero trasmettere per via telematica con un clic. Lo stesso potrebbe farsi, ad esempio, per la trasmissione dei fascicoli dal tribunale alla Corte d’appello o dalla Corte d’appello alla Corte di cassazione. I dati sui tempi di trasmissione dei fascicoli sono poco noti quanto inquietanti. Chi, come a Palermo, si è preso cura di monitorarli, peraltro in un distretto con tempi medi di celebrazione dell’appello penale di molto inferiori alla media nazionale, ha rilevato che, nel 2020, in media il tempo di trasmissione di un fascicolo dal tribunale alla corte d’appello è stato di ben 236 giorni: 8 mesi.

Semplificare le procedure, attraverso la digitalizzazione e l’informatizzazione degli uffici, consente di ridurre i tempi della giustizia. Anche e soprattutto questo significa innovare e ammodernare la giustizia penale, oggi. Per farlo sono essenziali investimenti – oggi possibili, come si è detto, anche grazie al P.N.R.R. –, mezzi (nuova dotazione tecnologica e infrastrutturale degli uffici, in vista della quale è in corso presso il Ministero la riorganizzazione della competente direzione) e personale tecnico qualificato e adeguatamente formato (che sarà assunto anche nell’ambito dell’ufficio per il processo). Occorre una strategia complessiva, sul piano organizzativo, che la riforma – con disposizioni che entreranno subito in vigore – affida sin d’ora a un piano triennale per la transizione digitale dell’amministrazione della giustizia (art. 2, co. 18-19) e a un Comitato tecnico-scientifico per la digitalizzazione del processo (art. 2, co. 20).

Naturalmente, la transizione digitale della giustizia penale richiede interventi normativi di adeguamento del codice di rito, che la legge delega affida al Governo individuando una serie di principi e criteri direttivi (art. 1, co. 5). Questi prevedono la formazione e conservazione degli atti e documenti processuali in formato digitale, nonché modalità telematiche per il deposito di atti e documenti, per le comunicazioni e per le notificazioni, in ogni stato e grado del procedimento. L’attuazione della delega legislativa dovrà tenere conto, tra l’altro, delle esigenze di gradualità nell’entrata in vigore, anche in rapporto alla formazione del personale, nonché di aspetti particolarmente rilevanti quali le garanzie relative alla certezza del deposito e della notifica degli atti, alla segretezza degli stessi, e al possibile malfunzionamento dei sistemi informatici.

 

B) Notificazioni (art. 1, co. 6)

Un secondo ambito di intervento, ispirato da una logica di innovazione tecnologica, riguarda le notificazioni. L’esperienza insegna come si tratti di adempimenti tanto importanti per l’effettiva conoscenza degli atti del processo, quanto spesso macchinosi e causa di notevole dispendio di tempo. Anche in questo caso gli interventi normativi, che il Governo è delegato a realizzare, sono accompagnati da misure organizzative già adottate: dal 1° gennaio 2021 saranno in servizio 8.171 assistenti dei giudici, addetti all’ufficio per il processo, tra i cui compiti è previsto dall’allegato II del d.l. n. 80/2021 anche e proprio il controllo della regolarità delle notifiche.

L’ammodernamento della disciplina delle notificazioni segue due direttrici, che il Governo dovrà seguire nell’attuare la legge delega.

In un’epoca in cui non vi è quasi persona che sia priva di un telefono cellulare, capace di ricevere anche email, si prevede l’obbligo per l’imputato non detenuto, fin dal primo contatto con l’autorità procedente, di indicare anche i recapiti telefonici e telematici di cui ha la disponibilità. Si prevede altresì che lo stesso abbia la facoltà di dichiarare domicilio ai fini delle notificazioni anche presso un proprio idoneo recapito telematico.

Si prevede poi che tutte le notifiche all’imputato non detenuto, successive alla prima, diverse da quella con cui è stato citato a giudizio, siano di norma eseguite mediante consegna al difensore, anche attraverso posta elettronica certificata.

 

C) Registrazioni audiovisive e processo da remoto (art. 1, co. 8)

Un terzo ambito di interventi, ispirato da esigenze di innovazione tecnologica, mira a valorizzare le video e audio registrazioni nel procedimento penale, nonché, facendo esperienza del diritto dell’emergenza pandemica, la partecipazione a distanza agli atti del procedimento o all’udienza. Valori cardine del processo penale, come l’oralità e l’immediatezza, possono essere preservati da video o audio registrazioni che, unitamente alla partecipazione ad atti del procedimento a distanza, possono inoltre assicurare un notevole risparmio sui tempi. Un esempio per tutti: anziché rinviare l’udienza per l’esame di un testimone, residente a centinaia di chilometri dal tribunale, si potrebbe assumere quella testimonianza da remoto. Oppure, anziché esaminare a distanza di anni un teste, autorizzandolo a leggere il verbale delle s.i.t., già in atti, si potrebbero in modo ben più efficace ascoltare o vedere le registrazioni realizzate all’epoca. Anche in questo caso con notevole risparmio di tempo.

Oltre all’adeguamento delle infrastrutture degli uffici giudiziari, è necessario un intervento normativo affidato dalla legge al Governo sulla base dei seguenti principi e criteri direttivi: prevedere la registrazione audiovisiva come forma ulteriore di documentazione dell’interrogatorio che non si svolga in udienza e della prova dichiarativa, salva la contingente indisponibilità degli strumenti necessari o degli ausiliari tecnici; prevedere i casi in cu debba essere prevista almeno l’audioregistrazione dell’assunzione di informazioni delle persone informate sui fatti, senza obbligo di trascrizione; individuare i casi in cui, con il consenso delle parti, la partecipazione all’atto del procedimento o all’udienza possa avvenire a distanza.

 

D) Indagini preliminari (art. 1, co. 9)

I criteri di delega relativi alla fase delle indagini perseguono due obiettivi: ridurre i tempi delle indagini incidendo sui termini di durata e introducendo rimedi giurisdizionali alla eventuale stasi del procedimento, determinata dall’inerzia del p.m.; filtrare maggiormente i procedimenti meritevoli di essere portati all’attenzione del giudice, esercitando l’azione penale.

Una serie di criteri di delega (art. 1, co. 9, lett. c-h) riguarda la disciplina dei termini di durata delle indagini preliminari, oggetto di una rimodulazione. I termini ordinari di cui all’art. 405 c.p.p. restano immutati per i procedimenti relativi alle contravvenzioni (sei mesi), mentre vengono aumentati in relazione ai delitti: il termine attuale di sei mesi diventa di un anno; il più lungo termine di un anno e mezzo, relativo ai delitti di cui all’art. 407, co. 2 lett a) c.p.p., viene esteso a tutte le ipotesi di cui all’art. 407, co. 2 c.p.p. Per converso, diventa più stringente la disciplina della proroga dei termini stessi, che oggi può essere disposta per giusta causa, in sede di prima proroga, e in considerazione della complessità del procedimento, in relazione alle successive proroghe. Il Governo è delegato infatti a prevedere una sola proroga, disposta dal g.i.p. su richiesta del p.m., per un tempo non superiore a sei mesi, quando sia giustificata dalla complessità delle indagini. Quanto ai termini massimi di durata delle indagini, quelli relativi ai procedimenti per le contravvenzioni vengono ridotti da diciotto mesi a un anno.

La novità di maggior rilievo è però rappresentata da un inedito meccanismo previsto per rimediare alla eventuale stasi del procedimento, determinata dall’inerzia del p.m., che dopo lo scadere del termine di durata delle indagini, eventualmente prorogato, non assuma le determinazioni relative all’esercizio o meno dell’azione penale. Si prevede, in questo caso, un intervento del g.i.p. volto a rimediare alla stasi del procedimento, inducendo il p.m. a esercitare l’azione penale o a chiedere l’archiviazione. Intervento preceduto, di norma, da una discovery degli atti d’indagine a favore dell’indagato e della persona offesa che abbia dichiarato di voler essere informata. Analogo meccanismo è previsto in caso di stasi del procedimento successiva alla notificazione dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p. La scelta del legislatore è dunque di aprire una finestra di giurisdizione all’esito dei termini massimi di durata delle indagini, volta a evitare che i procedimenti penali restino sugli scaffali delle procure anziché prendere le strade, alternative, dell’archiviazione o della fase processuale celebrata davanti al giudice. È una scelta diversa rispetto a quella, compiuta nel recente passato e, a quanto pare, fallita nella prassi, di attribuire al Procuratore Generale il potere di avocare il procedimento. Ed è una strada che, oltre a promettere di stappare l’iniziale collo di bottiglia del procedimento penale, rappresentato dalle indagini preliminari, offre all’indagato maggiori garanzie di non restare tale per tempo indefinito, senza altra sanzione diversa dall’inutilizzabilità degli elementi acquisiti dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari. Il mancato rispetto dei termini massimi di durata delle indagini obbligherà il p.m., grazie all’intervento del giudice, a decidere in un senso o nell’altro, consentendo all’indagato e alla persona offesa di conoscere gli atti d’indagine e di esercitare la propria difesa.

Ulteriori connesse garanzie riguardano la disciplina dei registri delle notizie di reato. Si prevede che il g.i.p. possa ordinare l’iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., quando il reato è da attribuire a persona individuata e il p.m. ancora non vi abbia provveduto. Ancora, si introduce un controllo del g.i.p. sulla tempestività dell’iscrizione nel registro degli indagati, che determina il dies a quo dei termini di durata delle indagini, con correlato potere di retrodatazione in caso di “ingiustificato e inequivocabile ritardo” nell’iscrizione. Si prevede infine, a garanzia dell’indagato e in ossequio al principio di non colpevolezza, che la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato non possa determinare effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo. Criteri più stringenti, infine, dovranno essere introdotti per la riapertura delle indagini di cui all’art. 414 c.p.p.

Di particolare rilievo sistematico è poi il criterio di delega (art. 1, co. 9, lett. a) che prevede la modifica della regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione: il p.m. deve chiedere l’archiviazione “quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna”. Questa regola si sostituirà a quella attuale (artt. 408 c.p.p. e 125 disp. att. c.p.p.), che fa invece perno sulla inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio. La prospettiva rimane prognostica ma valorizza il momento diagnostico: il p.m. deve portare l’indagato davanti al giudice non per cercare la prova o corroborare gli elementi acquisiti, bensì solo se ritiene che ragionevolmente, sulla base degli elementi già acquisiti – allo stato degli atti, come nel giudizio abbreviato –, il giudice pronuncerebbe una sentenza di condanna. La ratio della riforma è qui di rendere più rigoroso il filtro all’esito delle indagini preliminari, per evitare che procedimenti male istruiti o poco istruiti in fase d’indagine possano essere avviati alla fase processuale, con inutile dispendio di tempo ed energie e, naturalmente, con danni per le persone sottoposte ad indagini, che sopportano “la pena del processo”. L’elevata percentuale delle assoluzioni in primo grado è una spia di inefficienza del sistema che il legislatore ha tenuto in considerazione, cercando di porvi un rimedio.

Un’importante previsione (art. 1, co. 9, lett. i), destinata a incidere sull’organizzazione del lavoro delle procure, riguarda infine i criteri di priorità nella trattazione delle indagini. Il Governo è delegato a disciplinare la materia – particolarmente delicata in un sistema, come quello italiano, improntato al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale – prevedendo che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre. Ciò tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili. La procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure viene allineata a quella delle tabelle degli uffici giudicanti, prevedendo quindi un intervento del CSM.

 

E) Controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione (art. 1, co. 24)

Si delega il Governo a colmare una lacuna introducendo un nuovo rimedio giurisdizionale: la persona sottoposta ad indagini e i soggetti interessati avranno diritto di proporre opposizione innanzi al g.i.p. avverso il decreto di perquisizione cui non consegua un provvedimento di sequestro. Come si legge nella Relazione della Commissione Lattanzi, “la modifica è volta a colmare un vuoto di tutela dell’ordinamento processuale penale italiano messo in luce dalla Corte di Strasburgo (Corte edu, sez. I, 27 settembre 2018, Brazzi c. Italia), la quale ha ritenuto l’Italia responsabile per aver violato l’art. 8, par. 2 CEDU, in una fattispecie in cui il ricorrente si era lamentato di non aver potuto beneficiare di alcun controllo giurisdizionale preventivo o a posteriori nei confronti di una perquisizione disposta in indagini a seguito della quale non era stato sequestrato alcun bene”.

 

F) Udienza preliminare (art. 1, co. 9, lett. l-o)

Il legislatore ha preso atto della criticità dell’udienza preliminare nel sistema processuale, testimoniato, come si legge nella relazione della Commissione Lattanzi, dalla sua scarsa capacità di filtro e dalla sua incidenza negativa su tempi complessivi del processo, rispetto ai quali ha assunto impropriamente il ruolo di un ulteriore grado di giudizio. Si legge nella Relazione della Commissione Lattanzi: “nonostante i plurimi interventi di modifica, dopo trent’anni i dati statistici sono impietosi e dimostrano che, nei casi in cui l’udienza preliminare si conclude con un rinvio a giudizio (ossia nel 63% dei casi), essa genera un aumento di durata del processo di primo grado di circa 400 giorni. Complessivamente, l’udienza preliminare filtra poco più del 10% delle imputazioni per i processi nei quali è prevista e non incide peraltro in modo significativo sul tasso dei proscioglimenti in dibattimento. Va segnalato che, anche in Inghilterra, dove è nata come sbarramento delle imputazioni azzardate del privato, essa è stata trasformata in contraddittorio cartolare e alfine abbandonata, in favore di un filtro, a richiesta, davanti allo stesso giudice del trial”.

Il legislatore non ha compiuto la radicale scelta di abolire l’udienza preliminare; ha invece puntato a rivalorizzarla per un più ristretto numero di reati in una duplice direzione: limitandone l’ambito e a rendendone più stringente la regola di giudizio.

Nella prima direzione, si delega il Governo ad estendere il catalogo dei procedimenti con citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica, individuandoli tra quelli per delitti puniti con pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni (anziché gli attuali quattro anni) anche se congiunta alla multa, che non presentino (in astratto) rilevanti difficoltà di accertamento. L’ampliamento dell’area dei reati con citazione diretta corrisponde a una speculare riduzione dell’area dell’udienza preliminare. 

Nella seconda direzione, poi, si modifica la regola di giudizio, in modo corrispondente a quanto si è previsto in tema di archiviazione, prevedendo che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna.

Un ulteriore rilevante innovativa previsione, che promette di ridurre i tempi del dibattimento, è infine quella secondo cui, nei processi con udienza preliminare l’eventuale costituzione di parte civile debba avvenire a pena di decadenza, per le imputazioni contestate, entro il compimento degli accertamenti relativi alla regolare costituzione delle parti e non possa pertanto essere riproposta in dibattimento.

 

G) Procedimenti speciali (art. 1, co. 10)

Le deleghe in materia di riti speciali mirano a incentivarne il ricorso in funzione deflativa, al fine di ridurre il numero e la durata dei procedimenti celebrati con rito ordinario.

1) Patteggiamento. Si delega il Governo a prevedere: in caso di patteggiamento allargato (pena detentiva da applicare superiore a due anni), che l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata; in ogni caso di patteggiamento (ordinario e allargato), che l’accordo stesso possa estendersi alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare. Si delega inoltre il Governo a ridurre gli effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento, prevedendo anche che non possa avere efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi.

2) Giudizio abbreviato: si delega il Governo a modificare le condizioni per l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria (c.d. abbreviato condizionato), prevedendone l’ammissibilità solo se l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale. Evidente la preoccupazione di rendere l’abbreviato un giudizio realmente “abbreviato”. Si prevede inoltre, per disincentivare le impugnazioni e l’instaurazione di un nuovo giudizio di appello o di legittimità, che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo che la riduzione di pena sia disposta dal giudice dell’esecuzione.

3) Giudizio immediato e procedimento per decreto: oltre a talune disposizioni in tema di giudizio immediato, di coordinamento con il giudizio abbreviato e il patteggiamento, si segnalano per il particolare rilievo gli interventi in tema di procedimento per decreto: un rito speciale la cui valorizzazione promette significativi effetti di deflazione processuale. Tra le principali novità si segnalano: la previsione che, al fine dell’estinzione del reato, sia necessario il pagamento della pena pecuniaria; il pagamento della pena pecuniaria in misura ridotta di un quinto in caso di mancata opposizione al decreto penale (si mira così disincentivare il giudizio conseguente all’opposizione, con risparmio di tempi ed effetto di deflazione processuale). L’ambito di applicazione del decreto penale di condanna viene poi ampliato per effetto delle disposizioni di cui all’art. 1, co. 17, in tema di pene sostitutive delle pene detentive brevi. Come si dirà, si prevede infatti che con decreto penale di condanna la pena detentiva fino a un anno possa essere sostituta con la pena pecuniaria (il limite di pena detentiva è raddoppiato rispetto all’attuale, di sei mesi) e che la pena detentiva fino a tre anni possa essere sostituita con il lavoro di pubblica utilità. L’area del decreto penale di condanna risulta pertanto notevolmente ampliata, facendo ragionevolmente prevedere una significativa riduzione dei procedimenti ordinari e dei relativi tempi di definizione.

 

H) Giudizio (art. 1, co. 7, co. 10, lett. e-f, co. 11)

1) Processo in assenza (art. 1, co. 7). Le deleghe legislative mirano a completare l’adeguamento della disciplina al diritto UE (Direttiva n. 2016/343). La finalità è duplice: aumentare le garanzie della effettiva partecipazione al processo (o della consapevole assenza) e rendere più efficiente e spedita la giustizia penale, evitando la celebrazione di inutili e dispendiosi processi, vanificati dalle sanzioni processuali per la mancata effettiva conoscenza del procedimento a carico dell’imputato. Si può procedere in assenza dell’imputato solo quando si ha la certezza che la mancata partecipazione al processo è volontaria. Si prevede che quando non si ha quella certezza il giudice pronunci sentenza inappellabile di non doversi procedere e che si dia corso alle ricerche dell’imputato. Se questi viene rintracciato, la sentenza di non luogo a procedere viene revocata e il giudice fissa una nuova udienza per la prosecuzione del processo. Il tempo trascorso per le ricerche dell’imputato assente non rileva ai fini della prescrizione del reato.

Un’altra delega riguarda poi le impugnazioni: il difensore dell’imputato assente potrà impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato rilasciato dopo la pronuncia della sentenza. Si assicura così la certezza della conoscenza della sentenza da parte dell’imputato e si evitano inutili processi, destinati alla rescissione del giudicato quando si accerti che in realtà l’imputato non era a conoscenza della sentenza emessa nei suoi confronti. Da notare, in termini di riduzione del numero dei procedimenti pendenti e di raggiungimento degli obiettivi di riduzione dei tempi medi dei processi, che la sentenza di non doversi procedere, prodromica alle ricerche dell’imputato, determina la cessazione della pendenza del procedimento. Essa restituisce pertanto al processo una dimensione di tempo effettivo, che non altera i dati statistici sui tempi medi di definizione dei processi.

2) Ulteriori disposizioni sono relative alla disciplina delle nuove contestazioni (coordinamento con la disciplina dei riti speciali) e al c.d. processo consecutivo: quando non è possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, dopo la lettura dell’ordinanza di ammissione delle prove il giudice comunica alle parti il calendario delle udienze per l’istruzione dibattimentale e per lo svolgimento della discussione. Evidente la finalità di razionalizzazione dei tempi del processo, con effetti positivi sul valore dell’immediatezza. Finalità di riduzione dei tempi del dibattimento sono altresì perseguite dalla legge delega nel prevedere che le parti possano illustrare le richieste di prova nei limiti strettamente necessari alla verifica dell’ammissibilità delle prove ai sensi dell’art. 190 c.p.p. Un ulteriore criterio di delega riguarda infine l’esame di consulenti tecnici e periti e il deposito delle consulenze tecniche e della perizia.

3) Mutamento del giudice e riassunzione della prova (art. 1, co. 11, lett d). Per limitare i casi in cui deve ripetersi la celebrazione del dibattimento, in caso di mutamento del giudice o di un componente del collegio (ad es., per pensionamento, trasferimento o altra causa), si delega il Governo a prevedere che, quando la prova dichiarativa è stata verbalizzata tramite la videoregistrazione, nel dibattimento davanti al giudice diverso o al collegio diversamente composto, nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni saranno utilizzate, il giudice disponga la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze. Al di fuori di tale ipotesi – rispetto alla quale il legislatore, mirando all’efficienza del processo penale, recepisce un monito della Corte costituzionale (sent. n. 132/2019) – la regola generale (in continuità con le S.U. Bajrami del 2019) è che, in caso di mutamento del giudice o del collegio si disponga, a richiesta di parte, la riassunzione della prova.

4) Giudizio monocratico e udienza predibattimentale (art. 1, co. 12). Una rilevante novità è rappresentata dalla delega al Governo per introdurre, nei procedimenti a citazione diretta (il cui ambito, come si ricorda, viene ampliato a discapito dell’udienza preliminare), un’inedita udienza predibattimentale in camera di consiglio, innanzi a un giudice diverso da quello davanti al quale, eventualmente, dovrà celebrarsi il dibattimento; la regola di giudizio per proseguire il processo, anziché pronunciare sentenza di non luogo a procedere, è sempre quella della ragionevole previsione di condanna, sulla base degli elementi acquisiti dal p.m. L’udienza predibattimentale mira a introdurre un filtro all’interno del medesimo ufficio giudicante – realizzato da magistrati che lavorano nello stesso ufficio, condividendo i complessivi carichi di lavoro – scommettendo sulla maggiore efficacia rispetto all’udienza preliminare, affidata a un giudice appartenente a un ufficio diverso da quello chiamato trattare il procedimento, in caso di rinvio a giudizio. Se l’udienza preliminare si è spesso rilevata “un luogo per il passaggio delle carte”, altrettanto si confida che non si dirà dell’udienza filtro predibattimentale che, al pari dell’udienza preliminare, è inoltre concepita come sede per l’eventuale richiesta di riti alternativi.

 

I) Impugnazioni (art. 1, co. 13, lett. a-b)

1) Notificazione e deposto. Per razionalizzare le procedure in materia di notifiche, con riduzione dei tempi per gli adempimenti connessi, si delega il Governo a prevedere, a pena di inammissibilità, che con l’atto di impugnazione sia depositata la dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione dell’atto introduttivo del procedimento. Si prevede inoltre il coordinamento della disciplina del deposito degli atti di impugnazione con quella generale in tema di deposito degli atti che, come si è detto, fa leva sulla digitalizzazione su modalità telematiche, con evidente risparmio di tempo.

2) Appello (art. 1, co. 13, lett. c-l)

Gli interventi in tema di appello – vero e proprio collo di bottiglia del processo penale, come mostrano le statistiche su tempi medi di definizione dei processi penali nei diversi gradi di giudizio – mirano a ridurre il novero delle sentenze appellabili, ad ampliare le ipotesi di inammissibilità dell’appello, a semplificare il procedimento, e a ridurre le ipotesi di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Il tutto in vista di una riduzione dei tempi e di una maggiore efficienza del giudizio, anche in funzione della prevista improcedibilità dell’azione per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione (v. infra).

I previsti casi di inappellabilità riguardano: a) le sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa; b) le sentenze di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità.

L’inammissibilità dell’appello, recependo il diritto vivente (S.U. Galtelli, 2017), è prevista in caso di mancanza di specificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto di diritto espresse nel provvedimento impugnato. Valorizzando il diritto vivente, il legislatore mira a una maggiore efficienza del giudizio d’appello sin dalla struttura dell’atto di impugnazione, anche per facilitare il lavoro del giudice ed evitare che l’omessa considerazione di un motivo d’appello “nascosto” nelle pagine di un lungo e articolato atto d’appello possa comportare l’annullamento della sentenza da parte della Cassazione e la nuova celebrazione del giudizio, con dispendio di tempo, risorse ed energie.

Un ulteriore e rilevante criterio di delega, finalizzato a ridurre i tempi di celebrazione dell’appello – un giudizio che, in Italia, dura mediamente più che in ogni altro paese del Consiglio d’Europa – ne prevede la celebrazione con rito camerale non partecipato, salvo che la parte appellante o, in ogni caso, l’imputato o il suo difensore richiedano di partecipare all’udienza.

Sempre per ridurre i tempi dell’appello, si delega il Governo a eliminare le preclusioni al concordato sui motivi previste dall’art. 599 bis, co. 2 c.p.p. per taluni reati, analogamente a quanto avviene, per gli stessi, rispetto al patteggiamento allargato. La logica dell’intervento legislativo sta in ciò, che il concordato in appello serve a semplificare il giudizio d’appello rendendolo più spedito. Il Parlamento ha recepito la proposta della Commissione Lattanzi di abolire le preclusioni al concordato in appello sul rilievo che quelle preclusioni, previste per il patteggiamento allargato, “non si giustificano rispetto a un istituto che ha la sola funzione di consentire alle parti di indicare al giudice i motivi di gravame su cui vi è accordo, per consentire di concentrare maggiormente il vaglio del giudice sui profili realmente controversi” (così la Relazione della Commissione).

Con riferimento infine all’appello contro una sentenza di proscioglimento, presentato per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, vengono introdotti limiti alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ex art. 603, co. 3 bis c.p.p.

3) Giudizio di legittimità (art. 1, co. 13, lett. m-n)

Per ridurre i tempi del giudizio di legittimità, si delega il Governo a prevedere che la trattazione dei ricorsi davanti alla Corte di cassazione avvenga di norma con contraddittorio scritto senza l’intervento dei difensori, salva, nei casi non contemplati dall’art. 611 c.p.p., la richiesta delle parti di discussione orale in pubblica udienza o in camera di consiglio partecipata. Si prevede che la Corte possa disporre la trattazione con discussione orale anche senza una richiesta delle parti e che, ove intenda dare al fatto una diversa qualificazione giuridica, debba preventivamente instaurare il contraddittorio nelle forme previste per la celebrazione dell’udienza.

Per evitare la celebrazione di inutili processi, nei quali solo dopo due gradi di giudizio viene riconosciuto dalla Cassazione il difetto di competenza per territorio, con annullamento della sentenza e regressione del procedimento, si delega infine il Governo a prevedere una nuova competenza della Corte di Cassazione. Il legislatore delegato dovrà inserire nel codice di rito un meccanismo incidentale di rinvio alla Corte per definire questioni sulla competenza per territorio. Il giudice chiamato a decidere sulla relativa questione può, anche d’ufficio, rimettere la questione alla S.C., che provvede in camera di consiglio. La parte che non propone la rimessione della questione alla Cassazione non può riproporre la questione stessa nel corso del procedimento.

4) Ricorso straordinario alla Cassazione per dare esecuzione alle sentenze della Corte EDU (art. 1, co. 13, lett. o).

Si delega il Governo a introdurre un nuovo mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Corte di cassazione al fine di dare esecuzione alla sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, proponibile dal soggetto che abbia presentato il ricorso, entro un termine perentorio. Il nuovo mezzo di impugnazione dovrà essere coordinato con il rimedio della rescissione del giudicato e con l’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 c.p.p.

 

L) Diritto all’oblio: deindicizzazione in caso di archiviazione, non luogo a procedere e assoluzione (art. 1, co. 25).

Si delega il Governo a prevedere che il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa dell’U.E. in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati o imputati. La previsione, non contemplata nell’originario d.d.l. e negli emendamenti governativi, è frutto di un emendamento parlamentare cui il Governo ha dato parere favorevole.

 

5.2. Sistema sanzionatorio

M) Confisca (art. 1, co. 14)

Si prevede che l’esecuzione della confisca per equivalente, non avente ad oggetto beni immobili o mobili già sottoposti a sequestro, avvenga con le modalità di esecuzione delle pene pecuniarie e che la vendita dei beni confiscati a qualsiasi titolo nel processo penale avvenga con le forme di cui agli artt. 534 bis e 591 bis c.p.p. Si prevede inoltre, con un ulteriore criterio di delega, che l’amministrazione dei beni sottoposti a sequestro e confisca sia disciplinata in conformità all’art. 104 bis disp. att. c.p.p.

 

N) Querela (art. 1, co. 15)

Per valorizzare forme alternative di definizione del procedimento, incentrate su condotte riparatorie, con effetti di economia processuale, si delega il Governo ad ampliare il novero dei reati procedibili a querela includendovi: le lesioni personali stradali gravi o gravissime, nell’ipotesi di cui all’art. 590 bis, co. 1 c.p., nonché per ulteriori specifici reati, da individuarsi in sede di attuazione tra quelli contro la persona o contro il patrimonio puniti con pena non superiore nel minimo a 2 anni (da determinarsi senza tener conto delle circostanze). È fatta salva la procedibilità d’ufficio quando la persona offesa sia incapace per età o per infermità.

Sempre in tema di querela, due criteri di delega, di natura processuale, prevedono rispettivamente: che con l’atto di querela debba essere dichiarato o eletto domicilio, eventualmente telematico, per le notificazioni; che l’ingiustificata mancata comparizione del querelante citato come testimone equivalga a remissione tacita della querela.

 

O) Pene pecuniarie (art. 1, co. 16)

Al fine di restituire effettività alla pena pecuniaria – oggi eseguita, riscossa e convertita in percentuali medie bassissime – il Governo è delegato a: razionalizzare e semplificare il procedimento di esecuzione; rivedere, secondo criteri di equità, efficienza ed effettività, i meccanismi di conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento per insolvenza o insolvibilità del condannato; prevedere procedure amministrative efficaci, che assicurino l’effettiva riscossione della pena pecuniaria e la sua conversione i caso di mancato pagamento. Restituire effettività alla pena pecuniaria è funzionale non solo a valorizzare la più tradizionale alternativa alla pena detentiva, ma anche: a) il procedimento per decreto (si è detto, infatti, che il legislatore ha previsto di subordinare l’effetto estintivo correlato al decreto penale all’effettivo pagamento della pena pecuniaria); b) la pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva fino a un anno (applicabile anche con il decreto penale di condanna).

 

P) Pene sostitutive delle pene detentive brevi (art. 1, co. 17)

Uno dei più rilevanti interventi organici di riforma del sistema penale, nell’ambito della legge delega, è rappresentato dalla modifica della disciplina delle pene sostitutive delle pene detentive brevi. Il Governo è infatti delegato, in materia, a una complessiva revisione della disciplina della legge n. 689/1981, esattamente quaranta anni dopo la sua approvazione. L’obiettivo è quello di introdurre nel sistema pene alternative al carcere, sub specie di pene sostitutive delle pene detentive di breve durata.

La revisione della disciplina prevede anzitutto la modifica del catalogo delle pene sostitutive: escono di scena (per desuetudine, verrebbe da dire) la semidetenzione e la libertà controllata; fanno il loro ingresso nel catalogo delle pene sostitutive la semilibertà, la detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità; viene confermata la pena pecuniaria sostitutiva, innalzando sei mesi a un anno, come si è anticipato, il limite della pena detentiva sostituibile, e prevedendo una diminuzione del tasso minimo di conversione, oggi fisato in € 250.

Il concetto di pena detentiva “breve”, sostituibile con pene non detentive o semi-detentive, cambia e raddoppia: da due a quattro anni. Si spezza così la sovrapposizione tra l’area delle sanzioni sostitutive e l’area della sospensione condizionale della pena (che ha comportato la sterilizzazione delle sanzioni sostitutive, meno appetibili di una mera sospensione dell’esecuzione della pena) e si fa coincidere il limite di pena detentiva sostituibile con quello della pena soggetta a sospensione dell’ordine di esecuzione ex art. 659 c.p.p., in vista della richiesta di una misura alternativa alla detenzione. Così facendo, quanto in particolare alla semilibertà e alla detenzione domiciliare, che continueranno ed essere previste anche come misure alternative alla detenzione applicabili dal tribunale di sorveglianza dopo la definitività della sentenza, si anticipa nel giudizio di cognizione la possibilità di applicare misure corrispondenti alle attuali due misure alternative di cui si è detto. Con ciò incentivando, tra l’altro, i riti speciali. Patteggiare la pena detentiva sostituita con la detenzione domiciliare o con il lavoro di pubblica utilità, ad esempio, dà la garanzia all’imputato di non entrare in carcere, senza dover confidare sull’eventuale concessione di una misura alternativa, da parte del tribunale di sorveglianza, magari a distanza di molti anni, restando nella condizione del c.d. libero sospeso. Evidenti anche gli effetti deflativi sul procedimento di sorveglianza.

Da notare che non figura nel catalogo delle pene sostitutive l’affidamento in prova al servizio sociale. Si è ritenuto che un’applicazione di tale misura, all’esito del giudizio di cognizione, potesse da un lato disincentivare la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato e, dall’altro lato, allungare i tempi del processo.

Più in particolare, la pena detentiva inflitta entro il limite di 4 anni potrà essere sostituita con la semilibertà o con la detenzione domiciliare; quella inflitta entro il limite di 3 anni, anche con il lavoro di pubblica utilità, se il condannato non si oppone; quella inflitta entro il limite di 1 anno altresì con la pena pecuniaria. Le pene sostitutive non saranno sospendibili condizionalmente e potranno applicarsi solo quando favoriscano la rieducazione del condannato e non vi sia pericolo di recidiva.

Recependo un’indicazione della dottrina, finalizzata a valorizzare l’effettività delle pene sostitutive, viene esclusa la sospensione condizionale. La logica è qui quella del castigo mite ma certo (Beccaria docet). Una logica che ispira anche la disciplina relativa alla mancata esecuzione delle pene sostitutive, che comporta la conversione nella pena detentiva sostituita o in altra pena sostitutiva, salva l’eventuale responsabilità penale (es., per l’allontanamento dal luogo di esecuzione della detenzione domiciliare).

Quanto al lavoro di pubblica utilità, applicabile come pena sostitutiva per la generalità dei reati, anche in sede di decreto penale di condanna, si prevede – analogamente a quanto avviene oggi limitatamente alla guida in stato di ebbrezza – che il positivo svolgimento, accompagnato da condotte risarcitorie o riparatorie, ove possibili, comporti di norma la revoca della confisca.

In tema di pena pecuniaria sostitutiva, si delega il Governo a rivedere il limite minimo del valore giornaliero, sganciandolo da quello di cui all’art. 135 c.p. (€ 250). Ciò consentirà, fissando un valore più basso, parametrabile alle condizioni economiche del condannato, di incentivare la sostituzione della pena e, con essa, i riti alternativi (decreto penale in primis), con effetti di riduzione dei tempi complessivi della giustizia penale.

 

Q) Esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto (art. 1, co. 21)

La delega mira a valorizzare – ampliandone l’ambito di applicabilità – un istituto che ha già mostrato significative potenzialità di deflazione processuale, evitando che si celebrino, magari per tre gradi di giudizio, processi penali per fatti bagatellari (come nel caso del furto di una melanzana, citato nella Relazione della Commissione Lattanzi). Accogliendo un’indicazione della dottrina, si prevede come limite all’applicabilità della disciplina di cui all’art. 131 bis c.p., in luogo della pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria. In sede di attuazione dovranno essere individuati ulteriori casi in cui, ai sensi del co. 2 dell’art. 131 bis c.p., l’offesa non può essere considerata di particolare tenuità. Una espressa indicazione legislativa esclude d’altra parte che l’estensione dell’ambito di applicabilità dell’art. 131 bis c.p. interessi i reati riconducibili alla Convenzione di Istanbul, in tema di violenza contro le donne.

Un ulteriore criterio di delega mira poi a dare rilievo alla condotta successiva al reato ai fini della valutazione della particolare tenuità dell’offesa. In linea con un leit motiv della legge Cartabia, si mira così a incentivare condotte riparatorie, anche in vista dell’archiviazione del procedimento.

 

R) Sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato (art. 1, co. 22)

La logica della deflazione – processuale e penitenziaria – ispira il criterio di delega con il quale si prevede l’estensione dell’ambito di applicabilità della disciplina dell’art. 168 bis c.p. In sede di attuazione dovranno essere individuati, oltre ai casi previsti dall’art. 550, co. 2 c.p.p., ulteriori specifici reati, puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto. Attualmente l’istituto, salvi i menzionati casi di cui all’art. 550, co. 2 c.p.p., richiamato dall’art. 168 bis c.p., non è applicabile in relazione ai procedimenti per reati puniti con pena detentiva superiore nel massimo a quattro anni.

Nel contesto della legge delega, la valorizzazione dell’istituto di cui all’art. 168 bis c.p. è coerente sia con l’obiettivo di ridurre i tempi medi dei procedimenti penali, sia con l’ampliamento degli spazi per la giustizia riparativa (la mediazione tra autore e vittima è uno dei contenuti obbligatori della messa alla prova).

Per incentivare l’applicazione dell’istituto nella fase delle indagini, si prevede che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato possa essere proposta anche dal p.m.

 

S) Estinzione delle contravvenzioni per condotte riparatorie/ripristinatorie (art. 1, co. 23)

A finalità di deflazione processuale e di incentivo di condotte riparatorie/ripristinatorie – due leit motiv della legge di riforma – si ispira infine la delega al Governo a prevedere una causa di estinzione delle contravvenzioni destinata a operare nella fase delle indagini preliminari, per effetto del tempestivo adempimento di apposite prescrizioni impartite dall'organo accertatore e, alternativamente, del pagamento di una somma di denaro determinata in una frazione del massimo dell'ammenda stabilita per la contravvenzione commessa, ovvero del lavoro di pubblica utilità. In sede di attuazione della delega dovranno essere individuate le contravvenzioni per le quali consentire l'accesso alla causa di estinzione del reato. Dovrà trattarsi di contravvenzioni suscettibili di elisione del danno o del pericolo mediante condotte ripristinatorie o risarcitorie. La disciplina non potrà applicarsi, tuttavia, qualora tali contravvenzioni concorrano con delitti.

Quanto in particolare agli effetti di deflazione sui procedimenti pendenti e sui tempi della giustizia penale, la delega prevede la sospensione del procedimento penale dal momento dell'iscrizione della notizia di reato fino al momento in cui il pubblico ministero riceve comunicazione dell'adempimento o dell'inadempimento delle prescrizioni.

 

5.3. Giustizia riparativa (art. 1, co. 18-20)

Un rilevante capitolo della legge delega, come si è anticipato, è dedicato alla giustizia riparativa, della quale in sede di attuazione dovrà essere introdotta una disciplina organica – quanto a nozione, principali programmi, criteri di accesso, garanzie, persone legittimate a partecipare, modalità di svolgimento de programmi e valutazioni degli esiti – nel rispetto della Direttiva 2012/29/UE e dei principi stabiliti in materia a livello internazionale.

La giustizia riparativa è concepita dalla legge delega “nell’interesse della vittima e dell’autore del reato”, secondo la logica della riconciliazione e ricomposizione del conflitto che le è propria. Molti gli aspetti che dovranno essere disciplinati in sede di attuazione: la definizione di “vittima del reato” – intesa come persona fisica (compreso il familiare della persona uccisa) che ha subito un danno, fisico, mentale o emotivo, o perdite che sono state causate direttamente da un reato; l’accesso alla giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena, su iniziativa dell’autorità giudiziaria competente, nell’interesse della vittima e dell’autore del reato, con il loro consenso e senza preclusioni in relazione al reato per cui si procede; le specifiche garanzie per l’accesso ai programmi di giustizia riparativa, anche in rapporto alla inutilizzabilità in sede penale delle dichiarazione rese; la valutazione dell’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa nel procedimento penale e in fase di esecuzione; la formazione dei mediatori e i requisiti professionali e di accreditamento presso il Ministero della Giustizia; i centri di giustizia riparativa (strutture pubbliche facenti capo ad enti locali e convenzionate con il Ministero della Giustizia).

Da segnalare che per l’attuazione della disciplina in tema di giustizia riparativa la legge (art. 1, co. 19) prevede l’autorizzazione alla spesa di oltre quattro milioni di euro. Il dato non è privo di significato, se si considera che nel passato proprio la mancanza della necessaria copertura finanziaria ha ostacolato lo sviluppo della giustizia riparativa, inclusa nella riforma Orlando, e che, nel contesto dell’attuale riforma, coperture finanziarie sono previste solo per l’ufficio per il processo e, per l’appunto, per la giustizia riparativa. Ciò testimonia la forte determinazione politica e la rilevanza strategica e culturale dell’intervento, che promette di elevare la qualità e l’efficienza della giustizia penale.

 

6. Veniamo ora all’articolo 2, ciò alla parte della legge n. 134/2021 che, come si è detto, contiene le disposizioni immediatamente precettive. Le modifiche normative riguardano sia il codice penale sia il codice di procedura penale e sono relative ai seguenti ambiti tematici:

• Prescrizione del reato;

• Improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione;

• Identificazione dell’indagato e dell’imputato ignoto, apolide, extracomunitario o comunitario privo di codice fiscale (codice unico identificativo e cartellino fotodattiloscopico);

• Violenza domestica e di genere;

• Comunicazioni al difensore di impugnazioni, dichiarazioni e richieste di persone detenute o internate.

Nell’articolo 2 sono inoltre contenute alcune disposizioni di accompagnamento della riforma, oltre a quelle finanziarie.

 

6.1. Prescrizione del reato (art. 2, co. 1)

Viene confermata la scelta di fondo, compiuta con la legge n. 3 del 2019 (legge Bonafede), di bloccare il corso della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, sia essa di condanna o di assoluzione. La legge n. 134/2021 interviene nondimeno sul codice penale per apportare alcuni correttivi.

Con un’operazione di pulizia concettuale e sistematica, anzitutto, si introduce in un nuovo art. 161 bis c.p. una disposizione di chiusura della disciplina della prescrizione del reato (“Cessazione del corso della prescrizione”), nella quale si chiarisce che “il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado”. Contestualmente viene abrogato l’art. 159, co. 2 c.p., nella versione della Bonafede, che annovera(va) invece la pronuncia della sentenza di primo grado tra le cause di sospensione del corso della prescrizione. Come è stato da più parti rilevato in dottrina, infatti, la sospensione (vera e propria) implica per definizione la possibilità di una ripresa del corso della prescrizione, che la legge Bonafede invece esclude(va). Di qui la scelta della l. n. 134/2021 di individuare nella sentenza di primo grado il dies ad quem della prescrizione del reato.

Nel nuovo assetto normativo, peraltro, si segnalano tre ulteriori novità.

a) Si contempla espressamente (art. 161 bis c.p., secondo periodo) l’ipotesi dell’annullamento della sentenza di primo grado con regressione del procedimento al primo grado o ad una fase anteriore (le indagini, come avviene in caso di annullamento per incompetenza per materia o per territorio). In questo caso “la prescrizione riprende il suo corso dalla data della pronuncia definitiva di annullamento”. La regola è coerente con la scelta di fondo di prevedere che la prescrizione corra nel primo grado di giudizio e nelle fasi anteriori. Se la sentenza di primo grado viene annullata, la causa di cessazione del corso della prescrizione è tamquam non esset e la prescrizione riprende il suo corso dalla data della pronuncia definitiva di annullamento. La formula legislativa (“riprende il suo corso”) è la stessa utilizzata dall’art. 159, co. 3 c.p. per l’ipotesi di cessazione di una causa sospensiva: ciò lascia intendere, come è ragionevole e come già oggi avviene, che la regressione del procedimento non comporta che la prescrizione, dal giorno dell’annullamento della sentenza di primo grado, cominci nuovamente (cioè da capo) a decorrere (formula utilizzata per gli atti interruttivi dall’art. 160, co. 2 c.p.). In altri termini, la regressione del procedimento non azzera il timer della prescrizione del reato, che riprende il suo corso dal punto in cui era cessato, al netto del prolungamento del termine per effetto di atti interruttivi. Detto ancora diversamente, la data della pronuncia definitiva di annullamento della sentenza di primo grado individua il momento a partire dal quale il timer della prescrizione riprende a decorrere, dal punto in cui si era fermato: non il momento iniziale dal quale il timer, azzerato, riprende a decorrere.

b) Il decreto penale di condanna, rispetto a quanto prevedeva l’ora abrogato art. 159, co. 2 c.p., non ha più l’effetto di determinare la cessazione del corso della prescrizione e viene reintrodotto, modificando l’art. 160, co. 1 c.p., tra gli atti interruttivi del corso della prescrizione. Il legislatore, modificando la scelta compiuta dalla legge n. 3 del 2019, ha ritenuto che solo la sentenza di primo grado, che presuppone un accertamento di fatti e responsabilità nel contraddittorio delle parti, possa determinare la cessazione del corso della prescrizione del reato, cioè lo scorrere del ‘tempo dell’oblio’.

c) Viene infine abrogato l’art. 159, co. 4 c.p., che disciplina(va) la sospensione della prescrizione del reato nell’ipotesi di sospensione del processo per assenza dell’imputato (art. 420 quater c.p.p., inserito dalla l. 28 aprile 2014, n. 67), prevedendo un limite massimo alla durata della sospensione, che non può superare i termini previsti dall’art. 161, co. 2 c.p. (prolungamento massimo del termine di prescrizione per effetto di atti interruttivi). L’abrogazione dell’art. 159, co. 4 c.p. si spiega in ragione della necessità di coordinare la disciplina della prescrizione del reato con la nuova disciplina del processo in assenza, che come si è detto dovrà essere attuata dal Governo sulla base del criterio di delega di cui all’art.1, co. 7 della l. n. 134/2021. La delega prevede a tal proposito che nel giudizio di primo grado non si tenga conto, ai fini della prescrizione del reato, del periodo di tempo intercorrente tra la definizione del procedimento con sentenza di non doversi procedere e il momento in cui la persona nei cui confronti la sentenza è pronunciata è stata rintracciata, salva, in ogni caso, l’estinzione del reato nel caso in cui sia superato il doppio dei termini stabiliti dall’art. 157 c.p.

Quanto ai profili di diritto intertemporale, in assenza di una disciplina transitoria opera la regola generale di cui all’art. 2 c.p., sulla premessa che – secondo la giurisprudenza costituzionale – la disciplina della prescrizione del reato ha natura sostanziale. Le modifiche normative apportate dalla riforma hanno effetto retroattivo solo se e in quanto risultino in concreto più favorevoli. È il caso del ripristino del decreto di condanna quale atto interruttivo del corso della prescrizione, che pertanto non viene più bloccata dal decreto penale stesso. L’abrogazione della norma che prevede un limite massimo alla sospensione della prescrizione, in caso di processo in absentia, comporta invece un effetto sfavorevole e non può avere effetto retroattivo. Per i restanti profili, la nuova disciplina non ci sembra avere carattere sostanzialmente innovativo: né nella parte in cui qualifica propriamente la sentenza di primo grado quale causa di cessazione (anziché di sospensione) del corso della prescrizione; né nella parte in cui stabilisce che la prescrizione inizia a decorrere nuovamente in caso di regressione del procedimento al primo grado o a una fase anteriore.

 

6.2. Improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione (art. 2, co. 2-6)

Escludendo la prescrizione del reato nei giudizi di appello e di legittimità, la legge n. 3/2019 aveva notoriamente posto il problema della possibile durata sine die o, comunque, irragionevole, dei giudizi stessi. Per garantire il principio costituzionale della ragionevole durata del processo e, al tempo stesso, per incentivare la riduzione dei tempi medi di celebrazione dei giudizi di impugnazione (e in particolare, dell’appello), viene introdotto il nuovo istituto della improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione. Dal punto di vista sistematico, la relativa disciplina è inquadrata e collocata nel codice di procedura penale tra le condizioni di procedibilità, in un nuovo art. 344 bis c.p.p.

La regola fondamentale è la seguente: la mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni, e del giudizio di cassazione entro il termine di un anno – cioè entro i termini di ragionevole durata del processo previsti, per quei gradi di giudizio, dalla legge Pinto (art. 2, co. 2 bis l. 24 marzo 2001, n. 89) – “costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale”.

Questa regola riguarda i procedimenti per tutti i reati, con la sola eccezione di quelli puniti con l’ergastolo, anche per effetto dell’applicazione di aggravanti. I relativi procedimenti non sono pertanto sottoposti alla disciplina dell’art. 344 bis c.p.p.

Va segnalato che, per espressa previsione normativa, la declaratoria di improcedibilità non ha luogo quando l'imputato chiede la prosecuzione del processo. L’imputato assolto in primo grado o in appello può rinunciare all’improcedibilità per ottenere una pronuncia che confermi l’assoluzione nel merito; l’imputato condannato in primo grado o in appello, d’altro canto, può chiedere la prosecuzione del processo per ribaltare l’esito del giudizio e ottenere un’assoluzione. La declaratoria di improcedibilità, in altri termini, è sempre evitabile sulla base di scelte difensive dell’imputato, analogamente a quanto avviene per la prescrizione del reato.

Si potrà porre, peraltro, la questione della prevalenza di esiti assolutori sull’improcedibilità, analogamente a quanto prevede l’art. 129, co. 2 c.p.p. per il caso di estinzione del reato. Ci sembra tuttavia che nel caso di specie tale ultima disposizione non possa trovare applicazione. In primo luogo, perché a venire in rilievo non è una causa di estinzione del reato, ma una causa di improcedibilità (analogamente a quanto avviene per la mancanza della querela, che segue la regola generale del primo comma dell’art. 129 c.p.p.). In secondo luogo, perché una volta spirato il termine di durata massima del giudizio, eventualmente prorogato, l’azione diventa (appunto) improcedibile e la sentenza non può pertanto essere annullata, potendo il giudice limitarsi solo alla declaratoria della improcedibilità. Un analogo principio è già presente nella giurisprudenza della Cassazione, con riferimento a un’altra causa sopravvenuta di improcedibilità dell’azione penale: “la deliberazione della sentenza di non luogo a procedere prevista dall’art. 13, comma 3-quater, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, per il caso di avvenuta espulsione dello straniero, preclude la pronuncia di proscioglimento nel merito ai sensi dell'art. 129, co. 2 c.p.p., in quanto l'esecuzione dell'ordine di espulsione è causa sopravvenuta di improcedibilità dell'azione penale che impedisce l'instaurazione del rapporto processuale (Cass. Sez. V, 7.5.2021, n. 26519, K., CED 281681. In relazione alla querela, causa originaria di improcedibilità dell’azione penale, v. ad es. Cass. Sez. III, 6.7.2016, O., n. 43240, CED 267937: “il difetto della condizione di procedibilità (nella specie: querela), impedendo la valida costituzione del rapporto processuale, inibisce ogni valutazione del fatto imputato e preclude, quindi, la pronuncia di proscioglimento, secondo la regola della prevalenza, per evidenza della causa di non punibilità nel merito”).

Quanto al dies a quo, i termini di cui sopra decorrono dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine per il deposito della sentenza, previsto dall’art. 544 c.p.p., eventualmente prorogato ex art. 154 disp. att. c.p.p. (una sola volta, per un massimo di 90 giorni; ciò significa che, in caso di termine massimo per il deposito della sentenza, pari a 90 giorni, e di proroga concessa per il termine massimo di 90 giorni, il dies a quo del termine di improcedibilità dell’azione penale si colloca a sei mesi di distanza dalla pronuncia della sentenza). La disciplina incentiva il deposito puntuale delle motivazioni: l’eventuale ritardo, infatti, eroderebbe il margine di tempo (massimo 90 giorni) che il legislatore ha concepito, nella prospettiva dell’improcedibilità, come una parentesi utile agli adempimenti per la trasmissione del fascicolo da un organo giudicante all’altro. Sotto questo profilo, come si è anticipato, sarà assai rilevante – e coerente con gli obiettivi della riforma – tagliare il più possibile i ‘tempi morti’ del processo, necessari in particolare per la trasmissione dei fascicoli; tempi sui quali molto potranno incidere la digitalizzazione dei fascicoli e degli atti, e la loro trasmissione per via telematica.

I termini di improcedibilità dell’azione possono essere prorogati, con ordinanza motivata del giudice che procede, secondo una disciplina articolata come segue:

a) di regola è possibile una sola proroga per un periodo non superiore a un anno nel giudizio di appello e a sei mesi nel giudizio di cassazione (termini massimi: 3 anni in appello e un anno e sei mesi in Cassazione). La proroga deve essere giustificata dalla “particolare complessità del giudizio di impugnazione in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare;

b) quando si procede per determinati delitti di particolare gravità – in materia di terrorismo, criminalità organizzata, reati sessuali e traffico di stupefacenti – possono essere concesse ulteriori proroghe – in numero indefinito –, motivate sempre per le predette ragioni di complessità e sempre per la durata, ciascuna, di un anno in appello e di sei mesi in Cassazione. Questo regime riguarda: i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni; i delitti di cui agli artt. 270, co. 3, 306, co. 2, 416 bis, 416 ter, 609 bis, nelle ipotesi aggravate di cui all'articolo 609 ter, 609 quater e 609 octies c.p.; il delitto di cui all'art. 74 t.u. stupefacenti;

c) quando si procede per i delitti aggravati ai sensi dell’art. 416 bis.1, co.1, c.p. (metodo mafioso), infine, i periodi di proroga non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione; sono cioè consentite al massimo due proroghe, ulteriori alla prima (tre nel complesso) (termini massimi: 5 anni in appello, 2 anni e mezzo, in Cassazione).

Contro l'ordinanza che dispone la proroga del termine l'imputato e il suo difensore possono proporre ricorso per cassazione, a pena di inammissibilità, entro cinque giorni dalla lettura dell’ordinanza o, in mancanza, dalla sua notificazione. Il ricorso non ha effetto sospensivo. La Corte di cassazione decide con procedimento in camera di consiglio (art. 611 c.p.p.) entro trenta giorni dalla ricezione degli atti. In caso di rigetto o di inammissibilità del ricorso, la questione non può essere riproposta con l’impugnazione della sentenza.

Aver affidato al giudice la decisione sulla proroga, senza automatismi e sulla base di una motivazione vincolata a specifiche ragioni di complessità – controllabile da parte della Cassazione – risponde all’esigenza di valorizzare, caso per caso, le esigenze del singolo processo, che possono essere ben diverse, in termini di complessità, senza una correlazione necessaria con la gravità del reato per cui si procede (un processo per un omicidio indiziario è più complesso rispetto per quello per un omicidio con arresto in flagranza dell’autore, con la pistola fumante in mano). Si tratta di un ragionevole temperamento al carattere altrimenti assoluto e cieco di un regime senza proroghe. Il fatto che la proroga sia affidata alla decisione del giudice – nonostante le critiche di una parte della dottrina – sembra d’altra parte coerente, a livello sistematico, con altri luoghi normativi nei quali, a diversi effetti, è dato rilievo alla valutazione giudiziale della complessità del procedimento: ad esempio, in materia di proroga dei termini di durata delle indagini preliminari (art. 406, co. 2 c.p.p.), di sospensione de termini di durata massima della custodia cautelare (art. 304, co. 2 c.p.p.), di proroga dei termini di efficacia della confisca di prevenzione (art. 24, co. 2 cod. antimafia). Non solo: la valutazione della complessità del procedimento è un fondamentale criterio legislativo – affidato al giudice – per la determinazione della durata irragionevole del processo, ai fini del riconoscimento della violazione del relativo diritto costituzionale e dell’equa riparazione prevista dalla legge Pinto (art. 2, co. 2 l. n. 89/2001).

La legge prevede la sospensione dei termini durata massima del giudizio di impugnazione, con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo:

a) negli stessi casi in cui l’art. 159, co. 1 c.p. prevede la sospensione del corso della prescrizione del reato;

b) nel giudizio di appello, anche per il tempo occorrente per la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale. In questo caso il periodo di sospensione tra un'udienza e quella successiva non può comunque eccedere sessanta giorni;

c) in caso di irreperibilità dell’imputato e di necessità di procedere a nuove ricerche, ai sensi dell'art. 159 c.p.p., per la notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello o degli avvisi di cui all'art. 613, co. 4 c.p.p. La sospensione dei termini ha effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo, tra la data in cui l'autorità giudiziaria dispone le nuove ricerche e la data in cui la notificazione è effettuata.

In caso di annullamento della sentenza da parte della Corte di cassazione, con rinvio alla corte d’appello, i termini di durata massima decorrono nuovamente (ab initio, essendo termini di fase) dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine per il deposito della motivazione della sentenza di annullamento. Anche nel giudizio di rinvio i termini sono prorogabili e soggetti a sospensione, secondo la disciplina di cui si è detto. È espressamente fatta salva la disciplina relativa alla formazione parziale del giudicato (art. 624 c.p.p.).

Quanto infine alle decisioni sugli effetti civili, in caso di declaratoria di improcedibilità ai sensi dell’art. 344 bis c.p.p., viene inserito nell’art. 578 c.p.p. un nuovo comma 1 bis: quando nei confronti dell'imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l'azione penale per il superamento dei termini di durata massima del giudizio, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale. Al legislatore è parso ragionevole, per esigenze di economia della giustizia penale, evitare la prosecuzione in sede penale di un procedimento per i soli effetti civili. D’altra parte, il principio di conservazione delle prove acquisite nel processo penale rende quest’ultimo non inutile e riduce i tempi del processo civile.

Va peraltro segnalato, in ordine al tema dei rapporti tra improcedibilità e azione civile esercitata nel processo penale, che uno dei criteri di delega (art. 1, co. 13, lett. d) rimette al Governo ulteriori interventi di coordinamento; tra questi, in particolare, quelli relativi alla disciplina delle impugnazioni per i soli effetti civili. Non solo, la stessa delega rinvia al Governo la soluzione di una rilevante questione, relativa alla sorte da destinare alla confisca disposta con la sentenza impugnata, in caso di sopravvenuta improcedibilità dell’azione nel giudizio di impugnazione. Si tratterà di valutare se e in che limiti può trovare applicazione una disciplina analoga a quella che l’art. 578 bis c.p.p. prevede per il caso di estinzione del reato per prescrizione del reato.

Un ultimo rilevante aspetto riguarda infine la disciplina transitoria, contenuta nell’art. 2, co. 3-5 della l. n. 134/2021, che si articola su tre regole.

a) La nuova disciplina in tema di improcedibilità si applica ai soli procedimenti di impugnazione che hanno a oggetto reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020, data di entrata in vigore della legge Bonafede (l. n. 3/2019). Nell’introdurre un estremo rimedio contro l’irragionevole durata del processo nei giudizi di impugnazione, il legislatore ha voluto limitarne l’operatività ai soli procedimenti per reati che, a seguito della riforma del 2019, sono rimasti in quei giudizi privi del rimedio della prescrizione.

b) Nei procedimenti per fatti commessi dopo il 1° gennaio 2020, nei quali, al 19 ottobre 2021 – data di entrata in vigore della legge n. 134/2021 –, siano già pervenuti al giudice dell’appello o alla Corte di cassazione gli atti trasmessi ai sensi dell'articolo 590 del codice di procedura penale, i termini di durata massima d cui all’art. 344 bis c.p.p. decorrono dalla data di entrata in vigore della legge stessa.

c) Nei procedimenti per fatti commessi dopo il 1° gennaio 2020, nei quali l’impugnazione è proposta entro il 31 dicembre 2024, i termini previsti dall’art. 344-bis c.p.p. sono, rispettivamente, di tre anni per il giudizio di appello e di un anno e sei mesi per il giudizio di cassazione. Gli stessi termini si applicano nei giudizi conseguenti ad annullamento con rinvio pronunciato prima del 31 dicembre 2024. In caso di pluralità di impugnazioni, si fa riferimento all'atto di impugnazione proposto per primo.

A nostro avviso, la scelta di limitare la nuova disciplina della improcedibilità ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge Bonafede va valutata al metro del principio di ragionevolezza, indipendentemente dalla natura, sostanziale o processuale, dell’istituto di cui al nuovo art. 344 bis c.p.p. Se si tratta di un istituto di diritto sostanziale, la retroattività con effetti in mitius può essere legittimamente esclusa dal legislatore sulla base di ragionevoli motivi. Se, come a noi pare, si tratta di un istituto di natura processuale, in base al principio tempus regit actum dovrebbe applicarsi anche ai procedimenti per fatti commessi prima del 1° gennaio 2020: anche in questo caso la deroga all'applicabilità della nuova disciplina va pertanto valutata alla luce del principio di ragionevolezza. A ben vedere, infatti, in assenza di una norma transitoria il nuovo art. 344 bis c.p.p. si applicherebbe a tutti i processi di appello e di cassazione a partire dall'entrata in vigore della legge, indipendentemente dalla data in cui è stato commesso il reato. È pacifico però che il legislatore può prevedere una disciplina transitoria che limiti ragionevolmente i procedimenti interessati dalla riforma. Dal momento che la riforma in esame richiede un grande sforzo organizzativo, soprattutto per le corti d'appello, è parso opportuno al legislatore prevedere una gradualità nella sua applicazione, consentendo alla macchina della giustizia di organizzarsi, cosa che non permetterebbe un'applicazione generalizzata a tutti i procedimenti. Ed è parso ragionevole limitarne l'applicazione ai reati commessi a partire dal 1° gennaio 2020 che, per effetto della legge Bonafede, sono diventanti di fatto imprescrittibili dopo il primo grado. Rispetto a questi reati l'improcedibilità è l'unica via per porre una fine a un processo di appello e di cassazione a tempo indeterminato. Viceversa, per i reati commessi precedentemente continua a operare anche in appello e in cassazione il rimedio della prescrizione del reato, garantendo così che il processo abbia una fine. Si tratta di un punto di equilibrio che ci sembra del tutto conforme ai principi costituzionali.

 

6.3. Identificazione dell’indagato e dell’imputato ignoto, apolide, extracomunitario o comunitario privo di codice fiscale (art. 2, co. 7-10)

Modificando alcune disposizioni del codice di procedura penale (artt. 66, co. 2, 349, co. 2, 431, co. 1, lett. g) e delle relative disposizioni di attuazione (art. 110, co. 1 bis) – per esigenze di coordinamento con il t.u. in materia di casellario giudiziale e con il Regolamento (UE) 2019/816 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019 –, il legislatore ha introdotto specifiche disposizioni volte ad assicurare la più compiuta identificazione della persona sottoposta al procedimento penale e la sicura riferibilità alla medesima degli eventuali provvedimenti pronunciati nei suoi confronti allorquando siano destinati a essere iscritti nel casellario giudiziale. In sintesi si prevede, in relazione agli apolidi, alle persone con cittadinanza ignota, agli extracomunitari, ai cittadini dell’UE privi del codice fiscale ovvero attualmente, o in passato, titolari anche della cittadinanza di uno paese extra UE:

a) art. 66, co. 2 c.p.p.: che nei provvedimenti destinati a essere iscritti nel casellario giudiziale sia riportato il codice unico identificativo (realizzato sulla base delle impronte digitali: cfr. art. 43 d.P.R. n. 313/2002);

b) art. 349, co. 2 c.p.p.: che i dati fotosegnaletici (cartellino fotodattiloscopico e codice unico identificativo) siano acquisiti dalla polizia giudiziaria all’atto dell’identificazione e trasmessi all’ufficio del pubblico ministero;

c) art. 431, co. 1, lett. g) c.p.p.: che una copia del cartellino fotodattiloscopico, con indicazione del codice univoco identificativo, sia inserita nel fascicolo del dibattimento, nell’ipotesi in cui si proceda alla sua formazione;

d) art. 110, co. 1 bis disp. att. c.p.p.: che la segreteria del pubblico ministero provveda ad annotare il codice univoco identificativo (C.U.I.) della persona sottoposta ad indagini all’atto della sua iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., previa acquisizione di copia del cartellino fotodattiloscopico, ove non già trasmessa dalla polizia giudiziaria;

 

6.4. Violenza domestica e di genere (art. 2, co. 11-13, 15)

Con disposizioni immediatamente precettive, si interviene su alcune previsioni del codice di procedura penale e del codice penale per apprestare una maggiore tutela alle vittime di violenza domestica e di genere, provvedendo in particolare a un compiuto adeguamento della normativa interna allo standard eurounitario di protezione delle vittime del reato (come espresso, in particolare, dalla direttiva 2012/29/UE).

In primo luogo, si integrano alcune norme processuali a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere introdotte con legge 19 luglio 2019, n. 69 (c.d. codice rosso), estendendone la portata applicativa anche alle vittime di tentato omicidio e dei delitti in forma tentata. Prima della riforma in esame, infatti, le disposizioni a tutela delle vittime e dei loro diritti nel procedimento penale di cui agli artt. 90 ter, co. 1 bis e 659, co. 1 bis, c.p.p. (in materia di comunicazione alla persona offesa dei provvedimenti di scarcerazione), 362, co. 1 ter c.p.p. (tempestiva assunzione di informazioni dalla persona offesa), 370, co. 2 bis c.p.p. (compimento senza ritardo, da parte della p.g., degli atti delegati dal p.m.), e 64 bis, co. 1 disp. att. c.p.p. (trasmissione obbligatoria degli atti al giudice civile) si applica(va)no solo nel caso dei delitti previsti dagli articoli 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies, 612 bis e 612 ter c.p., ovvero dagli articoli 582 e 583 quinquies c.p. nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, co. 1, numeri 2, 5, 5.1, e 577, co. 1, n. 1, e secondo comma, c.p., senza alcun espresso richiamo alle forme tentate, né al reato di tentato omicidio. Viene altresì modificata la disciplina sostanziale della sospensione condizionale della pena (art. 165, co. 5 c.p.) estendendo ai casi di condanna per tentato omicidio, e per i predetti reati commessi in forma tentata, l’obbligo di subordinarne la concessione alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati.

In secondo luogo, modificando l’art. 380, co. 2, lett. l ter c.p.p. viene introdotta (per effetto di un emendamento parlamentare) la previsione dell’arresto obbligatorio in flagranza per il delitto di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di cui all’art. 387 bis c.p., introdotto dalla legge sul ‘codice rosso’. A proposito di tale previsione è stato segnalato – sulla stampa e in una nota della Procura di Tivoli – un difetto di coordinamento con la disciplina delle misure cautelari personali. La circostanza che il delitto di cui all’art. 387 bis c.p.p. sia punito con pena non superiore nel massimo a tre anni impedisce al giudice di disporre, dopo la convalida dell’arresto, una misura coercitiva, custodiale o meno (cfr. art. 280, co. 1 c.p.p.). Per applicare misure coercitive dopo la convalida dell’arresto in flagranza per reati puniti con pena non superiore a tre anni è infatti necessaria – e sarebbe a nostro avviso ragionevole – una deroga espressa, come quella che l’art. 280, co. 1 c.p.p., facendo salvo l’art. 391 c.p.p., opera in relazione ai reati per i quali è previsto l’arresto facoltativo in flagranza, puniti per l’appunto con pena inferiore al limite di tre anni. Se la deroga è prevista in casi di arresto facoltativo, a fortiori avrebbe ragion d’essere in caso di arresto obbligatorio. Va peraltro segnalato, in attesa di un eventuale intervento correttivo del legislatore, che essendo il delitto di cui all’art. 387 bis c.p. integrato dall’inosservanza delle prescrizioni di una misura cautelare, il giudice che l’ha disposta (diverso però da quello della convalida dell’arresto) potrà aggravarla, applicando la custodia cautelare in carcere a prescindere dai limiti di pena previsti dall’art. 280 c.p.p. In tal senso dispone l’art. 280, co. 3 c.p.p.

 

6.5. Comunicazioni al difensore di impugnazioni, dichiarazioni e richieste di persone detenute o internate (art. 2, co. 14)

Con una disposizione immediatamente precettiva, viene integra la disciplina delle comunicazioni di impugnazioni e richieste di persone detenute o internate. Inserendo un nuovo comma 2 bis all’art. 123 c.p.p. si prevede che le impugnazioni, le dichiarazioni, compresa quella relativa alla nomina del difensore, e le richieste, presentate al direttore dell’istituto penitenziario o (in caso di arresto domiciliar, detenzione domiciliare o in luogo di cura) alla polizia giudiziaria, debbano essere contestualmente comunicate anche al difensore nominato.

 

6.6. Disposizioni di accompagnamento della riforma: comitati tecnico-scientifici e piano triennale per la transizione digitale dell’amministrazione della giustizia (art. 2, co. 16-21)

Le disposizioni finali della legge n. 134/2021, anch’esse immediatamente precettive, sono infine dedicate all’istituzione e alla disciplina di due diversi comitati tecnico-scientifici, il cui ruolo è strategico nell’attuazione e nel monitoraggio della riforma.

Al Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria, costituto presso il Ministero della Giustizia, vengono affidate la consulenza e il supporto nella valutazione periodica del raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e semplificazione del procedimento penale, nonché della effettiva funzionalità degli istituti finalizzati a garantire un alleggerimento del carico giudiziario. L’istituzione di un simile comitato testimonia l’attenzione del legislatore per l’effettività della riforma, in funzione del raggiungimento degli obiettivi che persegue, nell’ambito e in relazione al P.N.R.R. Il Comitato è presieduto dal Ministro della Giustizia, o da un suo delegato; i componenti durano in carica tre anni. Da segnalare il rilievo che viene dato alla statistica giudiziaria, concepita e valorizzata come un importante strumento di conoscenza e di analisi del sistema della giustizia e dell’impatto delle riforme ad esso relativo. Trattandosi di rendere più efficiente la giustizia, raggiungendo risultati specifici in termini di riduzione della durata dei processi e di dimensione dell’arretrato, assume un rilievo decisivo la misura dell’efficienza, e il relativo monitoraggio, grazie ai dati statistici e alla loro elaborazione. Il ruolo del Comitato in esame è rilevante anche in rapporto alla improcedibilità dell’azione penale per superamento de termini di durata massima del giudizio di impugnazione. L’art. 2, co. 6 della l. n. 134/2021 affida al Comitato tecnico-scientifico e ai competenti Dipartimenti del Ministero della giustizia il compito di riferire al Ministro della Giustizia con cadenza annuale, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, in ordine all'evoluzione dei dati sullo smaltimento dell’arretrato pendente e sui tempi di definizione dei processi. Il Ministro della Giustizia “assume le conseguenti iniziative riguardanti l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia necessarie ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi di ragionevole durata del processo. I risultati del monitoraggio sono trasmessi al Consiglio superiore della magistratura, per le determinazioni di competenza in materia di amministrazione della giustizia e di organizzazione del lavoro giudiziario”.

Viene inoltre costituito, sempre presso il Ministero della Giustizia, un Comitato tecnico-scientifico per la digitalizzazione del processo – presieduto dal Ministro della Giustizia o da un suo delegato, con funzioni di consulenza e supporto per le decisioni tecniche connesse alla digitalizzazione del processo.

Da ultimo, al fine di garantire il completamento della riforma della digitalizzazione del processo civile e penale, l’adeguata dotazione tecnologica dei servizi tecnici e informatici del Ministero della giustizia, il potenziamento infrastrutturale degli uffici giudiziari nonché l’adeguata formazione e l’aggiornamento professionale del personale dell’amministrazione giudiziaria, dei magistrati e degli avvocati, è previsto un piano per la transizione digitale, di durata triennale, approvato dal Ministero della Giustizia, di concerto con il Ministero per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale e con il Ministero per la Pubblica Amministrazione. Il piano ha la funzione di coordinare e programmare la gestione unitaria degli interventi necessari sul piano delle risorse tecnologiche, delle dotazioni infrastrutturali e delle esigenze formative, al fine di realizzare gli interventi innovativi di natura tecnologica connessi alla digitalizzazione del processo.