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21 Aprile 2021


Il privato indotto può accedere al patteggiamento senza ottemperare agli obblighi restitutori sanciti dall’art. 444 co. 1-ter c.p.p.: un rito alternativo nuovamente appetibile?

Nota a G.I.P. Trib. Bologna, sent. 13 novembre 2020 (dep. 13 dicembre 2020) n. 1023, Giud. Nart



In conformità al Codice etico di Sistema Penale, si segnala che, nell’ambito del procedimento penale per il quale è intervenuta la sentenza in commento, l’autrice del contributo ha avuto un ruolo attivo come tirocinante ex art. 73 d. l. 69/2013 presso l’ufficio Gip/Gup del Tribunale di Bologna.

 

1. La sentenza in epigrafe affronta il problema dell’accessibilità dell’applicazione della pena su richiesta delle parti anche per il privato indebitamente indotto, ai sensi dell’art. 319-quater co. 2, pur in assenza della “restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato” prevista dall’art. 444 co. 1-ter c.p.p.

Più in particolare, quest’ultima disposizione subordina alle restituzioni l’accessibilità del rito semplificato in relazione a un ampio ventaglio di reati contro la pubblica amministrazione, tra i quali anche l’induzione indebita, senza distinguere tra soggetto attivo pubblico e privato. Ebbene, la pronuncia in esame propone un’interessante interpretazione adeguatrice, in virtù della quale la richiesta del privato può risultare ammissibile anche in assenza delle restituzioni medesime. Questo esito interpretativo, che vanta un isolato precedente nella giurisprudenza di merito, appare condivisibile per le ragioni in seguito illustrate. Oltretutto, esso contribuisce a mitigare l’irrigidimento della disciplina anticorruzione risultante dalle modifiche introdotte dalla L. 27 maggio 2015, n. 69[1], la quale, nel subordinare al previo recupero del vantaggio illecito derivante da una serie di reati corruttivi l’accesso al “patteggiamento”, ne ha parzialmente indebolito le potenzialità deflattive[2].

 

2. In via preliminare, un breve excursus sui fatti oggetto della pronuncia.

Si tratta, in particolare, della vicenda mediaticamente conosciuta come “Mondo Sepolto” [3], relativa alle attività di intermediazione illecita realizzate da alcuni infermieri e operatori obitoriali delle camere mortuarie degli ospedali Maggiore e Sant’Orsola Malpighi di Bologna, i quali, previa corresponsione o promessa di denaro, agivano al fine di favorire determinate agenzie funebri a scapito di altre.

Alla luce delle indagini, i titolari di alcune imprese costituivano vere e proprie associazioni per delinquere finalizzate alla commissione di una serie indeterminata di episodi di corruzione propria, contestata ai sensi degli artt. 320 e 321 c.p. in relazione all’art. 319 c.p., onde mantenere e consolidare il monopolio nella gestione dei servizi funerari. Altri imputati, invece, risultavano aver corrisposto sporadicamente modeste somme di denaro (50 o 100 euro) agli operatori dei predetti nosocomi, per evitare ritorsioni e non vedersi esclusi dal giro d’affari.

Proprio queste ultime condotte, ad avviso del giudice felsineo, non risultavano espressione di un contesto caratterizzato dalla par condicio contractualis tra attori pubblici e privati. Al contrario, una volta qualificati gli operatori ospedalieri come incaricati di pubblico servizio[4], il contegno di questi ultimi è stato ritenuto sufficiente a comprimere la libertà di autodeterminazione dei titolari delle aziende “minori”, fino a indurli a indebite dazioni di denaro. Di conseguenza, le condotte originariamente sussunte, nei capi di imputazione, nelle ipotesi di cui agli artt. 320 e 321 c.p. in relazione all’art. 319 c.p., sono state riqualificate come episodi di induzione indebita ai sensi dell’art. 319-quater c.p., con applicazione ai privati del relativo secondo comma[5].

 

3. Non è tuttavia la qualificazione giuridica delle condotte in esame l’aspetto più significativo della pronuncia in commento, la quale, come anticipato, si distingue soprattutto per l’esclusione del privato indotto dall’ambito applicativo dell’art. 444 co. 1-ter c.p.p., che subordina l’accesso al rito premiale al previo recupero coattivo del prezzo o del profitto del reato.

A questo riguardo, va infatti ribadito come quest’ultima disposizione richiami testualmente l’art. 319-quater c.p. tout court, senza distinguere tra i soggetti pubblici, puniti ai sensi del comma 1, e quelli privati, puniti ai sensi del comma 2[6].

Non limitandosi a un’interpretazione meramente letterale, il giudice si impegna tuttavia in una rassegna ragionata dei delitti contro la pubblica amministrazione per i quali l’ammissibilità della richiesta di patteggiamento risulta assoggettata alla suddetta condizione, ovvero il peculato, la concussione, le diverse forme di corruzione e l’induzione indebita a dare o promettere utilità.

Non è parso dunque affatto casuale, in relazione ai reati corruttivi, il mancato richiamo dell’art. 321 c.p., con conseguente inapplicabilità del ‘patteggiamento condizionato’ ai privati corruttori ivi menzionati[7] (nonché, è opportuno segnalarlo, all’incaricato di pubblico servizio corrotto, in virtù dell’analogo mancato richiamo dell’art. 320 c.p.).

Ecco, dunque, la chiave di volta dell’impianto motivazionale della pronuncia in commento: “se proprio tali soggetti, i corruttori delle fattispecie degli artt. 318, 319, 319 ter c.p., risultano esclusi dall’ambito di applicazione della condizione ostativa per l’ammissione al patteggiamento come recentemente novellato, non si vede invece perché nei confronti dell’indotto nel delitto di induzione a dare o promettere utilità ai sensi dell’art. 319 quater c.p. tale preclusione dovrebbe operare”.

Aggiunge il giudice che solo con la L. n. 190/2012 si è attribuito rilievo penale alla condotta del privato indotto, il quale viene assoggettato a una sanzione il cui compasso edittale, ancorché ritoccato dalla L. n. 69/2015[8], resta intermedio tra quello della concussione, ipotesi nella quale il privato è “solamente” soggetto passivo, e quello della corruzione, “sinallagmaticamente” applicabile anche al privato corruttore[9].

In ossequio ai criteri di proporzionalità e di eguaglianza-ragionevolezza[10] non parrebbe allora accettabile un’interpretazione che vedesse il corruttore, imputato di delitto punito più gravemente e il cui disvalore è più facilmente apprezzabile rispetto a quello di induzione a dare o promettere utilità, esentato dall’obbligo di restituire il profitto del reato per accedere al rito alternativo a quo e che invece vi subordinasse l’indotto ai sensi dell’art. 319 quater c.p.”.

All’esito di tale breve, ma puntuale, argomentazione, il Gip di Bologna ritiene che “il riferimento previsto ex art. 444 co. 1 ter c.p.p. all’art. 319 quater c.p. sarebbe da intendersi come riferito al solo comma primo di tale ultima disposizione e non anche al comma secondo”.

Conclude pertanto il Gip nel senso che non si debba “subordinare l’ammissibilità di tale richiesta [di ricorso all’art. 444 c.p.p.] alla restituzione del prezzo da parte dei privati, i quali, secondo una ricostruzione della ratio della novella operata dal legislatore” con la L. n. 69 del 2015 ancorché imperfetta nella scelta lessicale e nella individuazione dei delitti commessi contro la pubblica amministrazione, sarebbero esclusi dalla sua applicazione a pena di irragionevolezza”.

In breve, l’ammissibilità della richiesta di “patteggiamento” avanzata dai privati titolari delle imprese indotti alla dazione indebita non è condizionata alla restituzione del prezzo o del profitto[11].

 

* * *

 

4. La pronuncia in commento deve essere accolta con favore, per almeno due ragioni.

In primo luogo, ad essa va riconosciuto il merito di aver riproposto e chiarito – come si preciserà, in modo condivisibile – la questione dell’applicabilità al privato indotto del patteggiamento “condizionato” previsto dall’art. 444 co. 1-ter c.p.p., che ha avuto, per vero, scarsa fortuna nella prassi.

Le poche sentenze rintracciabili nella giurisprudenza di legittimità – riguardanti peraltro reati diversi da quello in esame, ovvero peculato e corruzione[12] – si occupano solo incidentalmente della restituzione integrale del prezzo o profitto, escludendone l’obbligatorietà nella sola ipotesi estrema dell’impossibilità di determinazione del quantum da rendere[13], senza mai occuparsi della delimitazione dell’ambito applicativo tra soggetti attivi pubblici e privati.

Solo perlustrando la giurisprudenza di merito è dato rintracciare un isolato precedente conforme alla sentenza in commento, relativo ad una rarissima ipotesi di applicazione della pena concordata tra le parti a un privato imputato, per l’appunto, del delitto di cui all’art. 319-quater co. 2 c.p.[14].

Già in quell’occasione, il Gup di Torino avanzava identiche perplessità in ordine alla possibilità di subordinare il soggetto “indotto” alla condicio restitutionis, quando invece ne risultino espressamente esclusi il corruttore e l’incaricato di pubblico servizio, ancorché puniti più gravemente, stante il mancato richiamo degli artt. 321 e 320 c.p. da parte dell’art. 444 comma 1-ter c.p.p. E concludeva pertanto, in nome di una razionale armonizzazione del sistema[15], nel senso della sostanziale equiparazione tra il privato indotto nell’art. 319-quater e il privato corruttore, con la conseguenza logica che, per entrambi questi soggetti, “l’accesso al rito alternativo non è preliminarmente subordinato all’assolvimento di tale obbligo restitutorio[16].

Preme evidenziare come questo sforzo ermeneutico, frutto di una interpretazione costituzionalmente orientata della formulazione testuale dell’art. 444 co. 1-ter c.p.p.[17], non sia poi stato oggetto di alcuna attenzione in sede di legittimità, né nell’ambito del medesimo procedimento[18], né nelle pronunce successive, come già anticipato in numero davvero esiguo.

Può ben darsi, del resto, che lo sporadico ricorso al “patteggiamento” da parte dei privati indotti – e quindi lo scarso numero di sentenze in materia – dipenda, almeno in parte, proprio dalla persistenza nel testo legislativo della condizione restitutoria, la quale rende l’accesso al rito alternativo poco appetibile[19].  

Le conclusioni del giudice bolognese nella sentenza in commento contribuiscono dunque a squarciare questo silenzio, confermando la tesi della mancata applicabilità anche al privato indotto ex art. 319-quater c.p. dell’onere restitutorio sancito al comma 1-ter dell’art. 444 c.p.p., quale condizione di accesso al rito premiale.

In secondo luogo, va riconosciuto come tali conclusioni risultino del tutto appropriate, rappresentando un esempio virtuoso di interpretazione sistematica adeguatrice.

Pur senza evocare la tecnica della “interpretazione costituzionalmente orientata”, richiamata invece testualmente dal Gup di Torino nel succitato precedente, anche la sentenza in esame riconosce infatti che l’interpretazione puramente letterale dell’art. 444 co. 1-ter c.p.p., laddove porti ad imporre anche al privato indotto la restituzione del prezzo o del profitto quale condizione di accesso al rito semplificato, sarebbe, alla luce delle ragioni in precedenza riassunte, viziata per “irragionevolezza”, e dunque implicitamente incompatibile con i canoni di uguaglianza-ragionevolezza sanciti dall’art. 3 Cost.

L’esclusione dell’applicabilità dell’obbligo restitutorio all’ipotesi prevista dal comma 2 dell’art. 319-quater c.p. finisce allora per determinare una interpretatio abrogans, volta ad espungere per via ermeneutica tale fattispecie dalla lista dei reati rientranti nell’orbita del patteggiamento “condizionato”. Tale esito interpretativo, che consente dunque al privato indotto a dare o promettere denaro o altra utilità di accedere “liberamente” al patteggiamento[20], appare tanto più condivisibile ove si consideri la sua piena conformità ai moniti espressi dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 95 del 2015[21].

In quella occasione la Consulta era chiamata a pronunciarsi (tra l’altro) sulla legittimità costituzionale – in relazione agli artt. 3 e 24 Cost. – di un assetto normativo analogo, ovvero quello previsto dall’art. 13 co. 2-bis del D. lgs. 74 del 2000, che, per i reati tributari di cui al medesimo decreto, subordinava l’accesso al patteggiamento al pagamento del debito tributario[22].

Pur nel quadro di una pronuncia di rigetto, la Corte aveva delineato i limiti entro i quali una soluzione normativa volta a restringere, condizionandolo, l’accesso al rito alternativo potesse ritenersi costituzionalmente conforme. Al riguardo, il Giudice delle leggi precisava che “qualunque norma che imponga oneri patrimoniali per il raggiungimento di determinati fini [] non per questo solo […] è costituzionalmente illegittima. Ciò avviene esclusivamente in due ipotesi: da un lato, quando ne risulti compromesso l’esercizio di un diritto che la Costituzione garantisce a tutti paritariamente […]; dall’altro, quando gli oneri imposti non risultino giustificati da ragioni connesse a circostanze obiettive, così da determinare irragionevoli situazioni di vantaggio o svantaggio[23].

Fintanto che si tratti di “esclusioni oggettive”, rientra nell’ambito della discrezionalità “del legislatore riconnettere al titolo di reato […] un trattamento più rigoroso, quanto all’accesso al rito alternativo[24]. Tale discrezionalità diviene invece  censurabile “ove decampi nella manifesta irragionevolezza e nell’arbitrio, come avviene quando le scelte operate determinino inaccettabili sperequazioni tra figure criminose omogenee[25].

Se in applicazione di questi criteri di giudizio la disciplina dei reati tributari non aveva rivelato sperequazioni siffatte[26], esse ben potrebbero essere invece identificate proprio nella disciplina dei reati contro la pubblica amministrazione, laddove appunto si escludessero i privati corruttori dall’ambito applicativo dell’onere restitutorio sancito dall’art. 444 comma 1-ter c.p., assoggettandovi al contempo il privato indotto, punibile ai sensi della meno grave fattispecie di cui all’art. 319-quater comma 2. Rievocando la medesima espressione della Consulta, si tratterebbe di una evidente sperequazione tra figure criminose omogenee, fra le quali la meno grave sarebbe assoggettata a una disciplina più rigorosa, in base a una scelta non “sorretta da alcuna ragionevole giustificazione.

Per concludere, sebbene l’esito interpretativo della sentenza in commento sembri nel merito del tutto condivisibile, non è tuttavia da escludere la possibilità che esso appaia, proprio in quanto interpretatio abrogans di una delle fattispecie riconducibili al “patteggiamento condizionato”, comunque contra legem.

Specie qualora non venisse recepito, anche per tale ultima ragione, nella giurisprudenza di legittimità, non resterebbe altra via se non la questione di legittimità costituzionale dell’art. 444 co. 1-ter c.p.p., nella parte in cui si riferisce anche all’ipotesi di cui al co. 2 dell’art. 319-quater, per contrasto con l’art. 3 Cost. In tale scenario, i medesimi argomenti spesi dalla Consulta nell’appena richiamata sentenza n. 95/2015 – in relazione alla legittimità delle preclusioni al rito semplificato fondate sul titolo di reato – condurrebbero verosimilmente a una pronuncia di accoglimento; la quale, confermando nella sostanza l’interpretazione offerta dal giudice bolognese, contribuirebbe a sedimentare il “recupero di appetibilità”[27]  del patteggiamento nel settore dei reati contro la pubblica amministrazione.

 

 

[1] In argomento v. A. Spena, Dalla punizione alla riparazione? Aspirazioni e limiti dell’ennesima riforma anticorruzione (Legge n. 69/2015), in Studium Iuris, 10/2015, 1115 ss.; F. Cingari, Una prima lettura delle nuove norme penali a contrasto dei fenomeni corruttivi, in Dir. pen. proc., 7/2015, 805 ss.; V. Mongillo, Le riforme in materia di contrasto alla corruzione introdotte dalla legge n. 69 del 2015, in Dir. pen. cont., 15 dicembre 2015; G. Domeniconi, Alcune osservazioni in merito alle modifiche apportate dalla legge n. 69/2015 alla disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, ivi, 21 gennaio 2016.

[2] Sul punto cfr. F. Vergine, Il patteggiamento: gli obblighi restitutori depotenziano le finalità deflattive, in Proc. pen. e giust., 2/2019, 443 ss.

[4] Qualifica peraltro pacifica in giurisprudenza. In tal senso v., ex plurimis, Cass. pen., Sez. VI, 9 giugno 2009, n. 32369.

[5] Fattispecie che riveste, come noto, uno status intermedio tra quelle di corruzione e concussione. Per l’individuazione della linea di demarcazione tra le fattispecie in esame, si rinvia alla celebre pronuncia delle Sezioni Unite “Maldera”: Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2013 (dep. 14 marzo 2014), n. 12228, in Dir. pen. cont., 17 marzo 2014, con nota di G.L. Gatta, Dalle Sezioni Unite il criterio per distinguere concussione e ‘induzione indebita’: minaccia di un danno ingiusto vs. prospettazione di un vantaggio indebito. Per ulteriori approfondimenti, anche in relazione alla giurisprudenza successiva, v. E. Dolcini, G.L. Gatta, Codice Penale Commentato. Tomo II. Artt. 314-592, IV ed., 2015, 324 ss.; T. Padovani, Codice Penale. Tomo I (Artt. 1-360), Giuffré, Milano, 2019, VII ed., 2012 ss. e 2105 ss.; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali. Artt. 314-335-bis cod. pen. Commentario sistematico, IV ed., Giuffré, Milano, 2019, 261 ss.

[6] D’altronde, si tratta di una impostazione tendenzialmente condivisa in dottrina, all’indomani dell’introduzione del comma 1-ter all’art. 444 c.p.p.: sul punto, cfr. F. Cingari, Una prima lettura delle nuove norme penali a contrasto dei fenomeni corruttivi, cit., 811; G. Domeniconi, Alcune osservazioni in merito alle modifiche apportate dalla legge n. 69/2015 alla disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, cit., 20.

[7] Assunto di recente confermato da Cass. pen., Sez. VI, 24 giugno 2020, n. 23602.

[8] Cfr. art. 319-quater, comma 2, c.p.: “Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni ovvero con la reclusione fino a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea o il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000”.

[9] All’esito dei successivi inasprimenti sanzionatori, operati, per la maggior parte, dalla legge n. 69 del 2015 e dalla successiva L. 9 gennaio 2019, n.3, le cornici edittali ora applicabili alle diverse species di corruzione sono divenute assai elevate: si passa, così, dalla forbice compresa tra 3 e 8 anni di reclusione per la corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.), a quella oscillante tra i 6 e i 10 anni di reclusione per la corruzione propria (art. 319 c.p.), a quella compresa tra i 6 e i 12 anni di reclusione con riferimento alla corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter, comma 1, c.p.).

[10] Per vero non sempre rispettati dagli interventi legislativi in materia di corruzione, sia in occasione della L. n. 69 del 2015 (in argomento si rinvia alla bibliografia menzionata, supra, nota 5), sia in occasione della legge “Spazzacorrotti” del 9 gennaio 2019, n. 3, rispetto alla quale cfr., per tutti, T. Padovani, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Arch. pen., 3/2018; G. Flora, A. Marandola (a cura di), La nuova disciplina dei delitti di corruzione. Profili penali e processuali (L. 9 gennaio 2019, n. 3 c.d. spazzacorrotti”), Firenze, 2019, e, ivi, in particolare, con forti accenti critici, G. Flora, La nuova riforma dei delitti di corruzione: verso la corruzione del sistema penale?, 3 ss.; M. Gambardella, Il grande assente nella nuova “legge spazzacorrotti”: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 2019, 44 ss.; L. Ludovici, Applicazione della pena su richiesta delle parti: le modifiche apportate dalla legge “spazzacorrotti”, in Dir. pen. proc., 2019, 762 ss.; V. Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in Dir. pen. cont., 5/2019, 231 ss.

[11] Il giudice glissa, invece, sulla possibilità di addivenire al medesimo risultato pratico rilevando come, a fronte della corresponsione delle somme indebite agli infermieri – da considerarsi “prezzo” dei favori e solo da questi ultimi restituibile – i privati non avessero ottenuto alcun vantaggio corrispettivo economicamente valutabile, suscettibile di restituzione (si trattava, infatti, semplicemente di non essere sistematicamente “esclusi” dal giro di affari e di evitare piccole ritorsioni, ad esempio nella cura prestata nell’attività di vestizione dei defunti, talvolta irritualmente svolta dagli stessi operatori dell’obitorio). Tale percorso argomentativo, peraltro, sebben in ipotesi applicabile nel caso di specie, non potrebbe invece attagliarsi alle ipotesi di induzione indebita nelle quali il vantaggio economico per i privati sia effettivamente individuabile e quantificabile.

[12] Cfr., ad esempio, Cass. pen., Sez. VI, 22 marzo 2018, n. 25257; Cass. pen., Sez. VI, 12 luglio 2018, n. 38574.

[13] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 5 febbraio 2019, n. 15847. L’accesso “libero” al patteggiamento scongiura, così, l’ipotesi dell’assoluta impossibilità di ammissione al rito propugnata da F. Vergine, Il patteggiamento: gli obblighi restitutori depotenziano le finalità deflattive, cit., 447.

[14] Cfr. GUP Trib. Torino, 1 dicembre 2017, n. 1664.

[15] Ibid.

[16] Ibid.

[17] Ibid.

[18] La Corte di Cassazione è stata infatti chiamata in causa ex art. 448 co. 2-bis c.p.p. a seguito dell’impugnazione del provvedimento di confisca per equivalente del profitto derivante dal reato ex art. 322-ter c.p., adottato nel merito. Nella relativa pronuncia (Cass. pen., Sez. VI, 27 giugno 2018, n. 41606) la Suprema Corte semplicemente sorvola sulla questione relativa all’applicabilità anche al privato della condizione prevista dall’art. 444 comma 1-ter. c.p.p. Va peraltro sottolineato che nel caso di specie l’applicazione al privato della sola misura ablatoria – e non anche della “clausola restitutoria” prevista dal codice di rito – ha consentito di rispettare la logica di proporzione sottostante al principio del ne bis in idem sostanziale, che sarebbe stata evidentemente violata in caso di applicazione della confisca pur a seguito dell’avvenuta restituzione. Si tratta, del resto, di un esito in linea con l’orientamento pressoché coevo della Cassazione secondo cui – viceversa – la restituzione integrale del beneficio economico tratto dalla corruzione esclude l’applicazione, con la sentenza pronunciata ex art. 444 c.p.p., della confisca ex art. 322 ter del profitto (o del prezzo) del reato” (Cass. pen., Sez. VI, 25 gennaio 2017, n. 9990, Mirelli). In argomento cfr. L. Scollo, Il patteggiamento è ammissibile anche senza restituzione del profitto della corruzione, se non determinabile, in Giurisprudenza Penale Web, 2, 2020.

[19] In questo senso v. F. Vergine, Il patteggiamento: gli obblighi restitutori depotenziano le finalità deflattive, cit., 448. La scarsa appetibilità del “patteggiamento condizionato” è comprensibile a maggior ragione ove si consideri che l’orientamento appena ricordato (v. nota precedente) volto ad escludere l’applicazione congiunta della restituzione ex art. 444 co. 1-ter c.p.p. e della confisca ex art. 322-ter c.p. non è affatto unanime: v., ad esempio, Cass. pen., Sez. VI, 25 luglio 2017, n. 40558; Cass. pen., Sez. VI, 22 marzo 2018, n. 25257.

[20] Salvo vedersi ordinata ex post la confisca delle somme derivanti dal reato o di qualunque altro vantaggio illecitamente acquisito, ma non anche la rifusione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta illecita, l’art. 322-quater c.p. facendo espresso riferimento alle sole sentenze di condanna, alle quali non risultano assimilabili quelle di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. Per una pronuncia in tal senso, cfr. Cass. pen., Sez. VI, 14 marzo 2019, n. 12541.

[21] Cfr. Corte Cost., 14 maggio 2015, n. 95.

[22] Tale previsione figura ora all’art. 13-bis co. 2 del medesimo decreto legislativo.

[23] V. Corte Cost., 14 maggio 2015, n. 95, par. 4.

[24] Ibid.

[25] Ibid.

[26] Fatte salve le ulteriori precisazioni apportate, tra le altre, da Cass. pen., Sez. III, 21 agosto 2018, n. 38684, Incerti, in Corr. trib., 2018, con nota di A. Sangiovanni, Limiti al patteggiamento per gli omessi versamenti, e Cass. pen., Sez. III, 2 ottobre 2019, n.47287, in Cass. pen., 6/2020, 2445 ss., con nota di V. Citraro, Reati di omessa o infedele dichiarazione: la Cassazione chiarisce il rapporto tra la non punibilità per il pagamento del debito tributario e l’accesso al rito del patteggiamento, in virtù delle quali l’art. 13-bis, co. 2, d. lgs. 74/2000, che subordina ora l’applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. al pagamento del debito tributario, non può trovare applicazione con riferimento ai delitti tributari rispetto ai quali l’estinzione del debito erariale costituisce causa di non punibilità.

[27] Per riprendere i termini di F. Vergine, Il patteggiamento: gli obblighi restitutori depotenziano le finalità deflattive, cit., 448.