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  Scheda  
21 Settembre 2020


Violenza domestica e legittima difesa: un interessante provvedimento del Tribunale di Tivoli


1. Il 14 maggio 2020 il GIP del Tribunale di Tivoli, condividendo integralmente le considerazioni della Procura circa la “configurabilità di una condotta scriminata dalla legittima difesa”, ha disposto l’archiviazione del procedimento penale avviato nei confronti di una giovane donna, accusata di aver ucciso il padre violento per eccesso colposo in legittima difesa. Può dunque farsi riferimento alla richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli – qui allegata – per la ricostruzione dei fatti e la loro qualificazione giuridica. Un documento che merita di essere letto attentamente non solo per le sue conclusioni, ma anche per la possibilità che offre di capire in che cosa si traduce concretamente la violenza domestica, riportando ampi stralci delle deposizioni dell’indagata e delle altre donne, familiari dell’uomo ucciso (la madre, le sorelle e la compagna), che erano presenti al momento del fatto, perché tutte coinvolte nella sua ultima aggressione.

 

2. Secondo uno schema ben noto a chi lavora con le vittime di violenza domestica, ma spesso apparentemente ignorato da magistrati e avvocati che su quella violenza sono chiamati a esprimersi nelle aule di giustizia, la situazione di terrore alla quale la ragazza – diciannovenne al momento dei fatti – ha reagito durava da tantissimi anni (almeno 15) e in questo lungo arco di tempo una sola volta (nel 2014) la madre aveva chiesto aiuto decidendosi a denunciarlo. E non sorprende il fatto che, dopo quell’episodio, l’uomo sia stato accolto nuovamente in casa, appena uscito dal carcere (non è chiaro se per la revoca della misura cautelare oppure per essere terminata l’espiazione di una pena inflitta): alla propria sicurezza le donne hanno sempre anteposto il suo bisogno di aiuto (“quando fu ricoverato a Tivoli [per un TSO] chiese di me. Io allora sono tornata a casa” ricorda la compagna), oscillando tra “la speranza di migliorare le cose” e la convinzione che rivolgersi alla polizia “non sarebbe servito a niente perché una volta terminata qualsiasi misura nei suoi confronti ci sarebbe venuto a cercare anche in capo al mondo”.

Con quella violenza la ragazza si è confrontata sin dall’età di 5 anni, tanto da definirla “una costante di tutta la mia infanzia e della mia adolescenza”: “sentivo urla di dolore di mia madre che stava subendo l’ennesima aggressione fisica. Questo succedeva sempre, cioè un giorno sì e uno no”. Una violenza che si traduceva non solo in tentativi di strangolamento, botte, schiaffi e continui insulti e minacce alle donne presenti in casa (“le minacce di ammazzarmi come un maiale e di sciogliermi nell’acido erano continue. Il tutto, più delle volte, davanti alla figlia” racconta la compagna), ma anche in comportamenti che rendevano “terribile e faticosissimo rientrare ogni giorno a casa sapendo che c’era lui”, senza che si riuscisse a intravedere una possibile soluzione: “Ho sempre desiderato andare via di casa ma ero molto preoccupata per mia madre e mia nonna”.

Di quel clima complessivamente violento che si respirava in casa offrono un quadro puntuale le parole della nonna della ragazza: “Sono tanti anni che soffriamo, sempre in silenzio in quella casa. Sempre con la paura di poter essere uccisi da un momento all’altro. Abbiamo nascosto tutti i coltelli (…) Siamo state tutte ai suoi piedi ubbidendo sempre ai sui ordini. (…) Non posso perdonarlo per come ci ha fatto vivere in questi anni. Ho pianto tanto e l’ho rinnegato come figlio per quanto male ci ha fatto fisicamente, ed anche moralmente”.

E tuttavia, a quell’uomo che “quando perdeva il controllo (…) diventava una bestia” la figlia vuole ancora bene e si dispera nel vedere il sangue sgorgare dal suo corpo: “papà scusa… ti prego non morire ti voglio bene”. Dai racconti dei familiari emerge il ritratto di un uomo “prepotentee incline a comandare su tutti, che era stato un pugile di professione (passione che ha poi trasmesso alla figlia) e con l’abitudine di bere (“era spesso ubriaco”). In conseguenza del “crollo psicofisico” subito alla morte del padre nel 2002, all’abuso dell’alcol si è aggiunto il consumo di sostanze stupefacenti, e in particolare di cocaina, che ha determinato una escalation di violenza e di aberrazione nei suoi comportamenti, da renderlo irriconoscibile agli stessi familiari, che confessano di aver sperato che “prima o poi i carabinieri se lo potessero portare via”. Situazioni, anche queste, che rappresentano una costante nei casi di violenza domestica anche se non è indispensabile la “smisurata forza” e la “stazza imponente” di un ex-pugile (i suoi “muscoli giganteschi” errano terrificanti agli occhi delle donne di casa) per creare quel clima di terrore e di sottomissione, che impedisce alle vittime di chiedere aiuto e di sottrarsi alla violenza.

 

3. È in questo scenario che si colloca l’ultima feroce aggressione, che ha avuto, per un tentativo estremo di difesa, un esito letale: una conseguenza che le donne avevano in tutti i modi cercato di prevenire, decidendo di scappare in strada per sottrarsi alla furia di quell’uomo che, tornato a casa alle 5 di mattino visibilmente ubriaco e probabilmente sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, le minacciava di morte (“vi ammazzo a tutti… oggi è giornata… faccio sparire tutti”). È difficile immaginare che in questa situazione il gesto della figlia – consistito nell’aver avvicinato un coltello alla testa del padre, nel disperato tentativo di proteggere le donne più vulnerabili del gruppo (la compagna e l’anziana madre, cieca) coinvolte in una lotta corpo a corpo senza esclusione di colpi, e sfociato nell’uccisione del padre – avrebbe potuto determinare una responsabilità penale, comunque si volesse ricostruire la dinamica del fatto e l’atteggiamento psicologico della ragazza. Quel gesto, di cui sfugge la vera finalità ma non il contesto, è stata la reazione finale di chi da circa tre ore stava cercando di resistere a una situazione di violenza che andava sempre più degenerando, per limitarne le conseguenze, come sempre in passato avevano fatto tutte le donne di quella casa. Quando questa strategia si è dimostrata perdente, perché l’uccisione della madre, schiacciata contro un muro da una sequenza infinita di pugni (tirati da un ex-pugile), è parsa davvero imminente (“fermati che stai a ammazza’ mi madre, se non ti fermi t’ammazzo io”), la ragazza non ha visto alternative all’impiego del coltello, che per sicurezza aveva portato con sé nella fuga da casa. E l’uso di quel coltello – che probabilmente era diretto solo a rendere più credibile la minaccia, urlata nelle orecchie di quell’uomo che si muoveva “a scatti, con gli occhi spiritati” – ha effettivamente salvato la vita della madre: l’aggressione si è immediatamente interrotta per l’improvvisa e abbondante fuoriuscita di sangue dal corpo dell’uomo, che ha colto tutti di sorpresa. Non vi è dubbio quindi, come conclude la Procura di Tivoli, nel chiedere l’archiviazione del procedimento, che “la reazione esercitata da D. per evitare un drammatico epilogo per la mamma e per loro tutte, sia nella forma della minaccia con il coltello appoggiato all’orecchio dell’uomo, con l’ipotizzato colposo deragliamento della condotta sfociata poi nella morte dell’uomo [secondo la ricostruzione del medico legale], o comunque nella forma dell’aggressione volontaria a mezzo di colpo sferrato all’orecchio, è stata (…) del tutto proporzionata all’offesae che “l’ipotesi di un eccesso colposo così come prevista dall’art. 55 c.p.” deve ritenersi “assolutamente” esclusa. Può restare il dubbio sul fatto che la ragazza volesse realizzare un evento meno grave, ma non anche sul fatto che in quella situazione potesse lecitamente cagionare la morte del padre.

 

4. Il caso è interessante e emblematico delle situazioni di violenza domestica subite dalle donne dai propri partner e familiari, ma non altrettanto rappresentativo degli orientamenti giurisprudenziali nei casi di uccisione del tiranno domestico da parte della donna maltrattata. Le difficoltà che anche in dottrina vengono prospettate, alla applicabilità della legittima difesa in questi casi, non riguardano la sproporzione tra i beni in gioco – perché è per difendere la vita propria o dei propri figli che di regola le donne reagiscono in modo violento –, ma piuttosto altri requisiti della scriminante, che nel caso in esame non erano in alcun modo in discussione: l’attualità del pericolo e, soprattutto, la necessità di un’azione difensiva così estrema. Se da un lato si tende a escludere la liceità dell’autodifesa ogniqualvolta il partner violento venga ucciso mentre sta dormendo o non è comunque in condizione di difendersi (ossia nell’unico momento in cui la difesa della donna può avere qualche chance di risultato), dall’altro lato si ritiene che la donna potrebbe sempre ricorrere a soluzioni meno estreme, mettendosi al sicuro e denunciando l’uomo violento. Considerazioni che rivelano tutta la loro inadeguatezza se calate nelle situazioni concrete di violenza domestica, come il caso di Tivoli ben illustra: le donne maltrattate soffrono per anni e soffrono per lo più in silenzio, pensando che sia la cosa più giusta da fare e spesso ritenendo di non aver comunque nessuna alternativa; vivono sentendosi imprigionate in un tunnel buio del quale non vedono l’uscita. Come è possibile rimproverarle per non aver imboccato quella via d’uscita, il giorno in cui, sopraffatte dalla disperazione, siano arrivate a uccidere l’uomo che le maltrattava, vanificando così di punto in bianco i sacrifici di tanti anni, nei quali erano riuscite a resistere senza reagire alla violenza subita?

Il carico di sofferenza che le vittime di violenza domestica portano sulle loro spalle, per il male che subiscono e per quello che impongono a se stesse di sopportare, per il bene altrui, non può e non deve essere banalizzato: la richiesta di archiviazione formulata dalla Procura di Tivoli insegna come fare.