Corte cost. 26 gennaio 2024 (ud. 6 dicembre 2023), n. 10, Pres. Barbera, red. Petitti
1. Con la sentenza n. 10 del 2024, depositata venerdì scorso, la Corte costituzionale è tornata ad occuparsi del tema dei diritti delle persone detenute, pronunciandosi su una questione particolarmente rilevante: la (im)possibilità di godere, all’interno degli spazi detentivi, di momenti di intimità con i propri cari.
A dodici anni da una sollecitazione alle Camere rimasta inevasa[1], i giudici costituzionali hanno ritenuto di non poter attendere oltre un intervento legislativo, non accontentandosi più soltanto di accertare l’incompatibilità della disciplina vigente con la Carta. Con una sentenza additiva di principio, è stata così dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 o.p., nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il partner senza il controllo a vista del personale di custodia, laddove non vi ostino ragioni di sicurezza, esigenze di mantenimento dell’ordine o ragioni giudiziarie.
Una tale decisione, come si avrà modo di dimostrare, risulta di particolare interesse non soltanto perché mira a restituire finalmente alle persone ristrette e ai loro cari un diritto sino ad oggi negato, ma anche per il tipo decisorio prescelto dalla Corte e, soprattutto, per le conseguenze che produrrà sin da subito nella gestione della quotidianità detentiva degli istituti penitenziari italiani.
2. La pronuncia trae origine dall’eccezione di legittimità costituzionale sollevata dal magistrato di sorveglianza del Tribunale di Spoleto a partire dal reclamo di una persona reclusa nel circuito della media sicurezza ‘non permessante’. Il giudice a quo, in particolare, riteneva che la previsione all’art. 18, comma 3, o.p. del controllo a vista quale modalità inderogabile di svolgimento dei colloqui violasse diversi principi fondamentali, di matrice costituzionale e convenzionale.
In primis, a parere del rimettente, il divieto di colloqui intimi con il partner impedirebbe alla persona ristretta un’espressione piena e libera della propria affettività, ledendo un diritto fondamentale riconosciuto e garantito dall’art. 2 Cost.
Concreterebbe, poi, una duplice violazione dell’art. 13 Cost.: da un lato, l’astinenza forzata dai rapporti sessuali integrerebbe una compressione aggiuntiva e non giustificata della libertà personale della persona detenuta di cui al comma 1; dall’altro, l’impossibilità di vivere la sessualità di coppia si tradurrebbe in una violenza fisica e morale ai danni della persona sottoposta a restrizione della libertà, in violazione del comma 4.
L’azzeramento di una dimensione della vita di coppia minerebbe, inoltre, la serenità e la stabilità della famiglia, protette dagli artt. 29, 30 e 31 Cost., e inciderebbe negativamente sulla salute psicofisica della persona ristretta, violando anche l’art. 32 Cost.
Ancora, risulterebbe contraria al senso di umanità e incompatibile con la finalità rieducativa, in violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., una pena che conducesse, «attraverso la sottrazione di una porzione significativa di libera disponibilità del proprio corpo e del proprio esprimere affetto, ad una regressione del detenuto verso una dimensione infantilizzante».
Secondo il rimettente, il divieto di incontri intimi violerebbe per di più l’art. 3 Cost. Non supererebbe, infatti, un giudizio di ragionevolezza intrinseca sia perché, trattandosi di un divieto assoluto e indiscriminato, non terrebbe in debito conto la sussistenza o meno di particolari esigenze di sicurezza, sia perché in contrasto con lo stesso art. 18 o.p., nella parte in cui stabilisce che «i locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio». Un ulteriore profilo di irragionevolezza si ricaverebbe, poi, anche dal raffronto con l’art. 19, comma 4, d.lg.s. 2 ottobre 2018, n. 121, che ha previsto per i minori ristretti visite prolungate da svolgersi in unità abitative appositamente attrezzate all'interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico.
Infine, secondo il giudice a quo, il divieto di visite intime violerebbe anche l’art. 117 Cost. in relazione agli artt. 3 e 8 CEDU, dal momento che la privazione dell’affettività concreterebbe un trattamento inumano e degradante e lederebbe, al tempo stesso, il diritto della persona ristretta al rispetto della propria vita privata e familiare.
Evidenziati i diversi profili d’inconciliabilità dell’art. 18, comma 3, o.p. con il dettato costituzionale, il giudice rimettente si confrontava con l’ostacolo della precedente pronuncia della Corte costituzionale sulla questione. Se in quella occasione i giudici costituzionali avevano optato per il rigetto in rito per mancanza di soluzioni costituzionalmente obbligate, sollecitando il legislatore ad intervenire, a parere del rimettente una soluzione più incisiva non sarebbe oggi preclusa, potendo fondarsi sulla perdurante inerzia delle Camere e agganciarsi, nell’individuazione della soluzione ai vulnera individuati, a diverse modifiche legislative intervenute a valorizzare, accanto al rapporto di coniugio, la convivenza more uxorio nell’ordinamento penitenziario[2].
2.1. Le obiezioni del giudice a quo, pur incassando il sostegno dell’associazione Antigone, intervenuta in qualità di amicus curiae, non erano condivise dal Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
Si replicava, infatti, che la questione oggetto di giudizio dovesse nuovamente essere dichiarata inammissibile, persistendo le ragioni addotte a sostegno del rigetto in rito del 2012: si tratta di una materia di spettanza esclusiva del legislatore, che richiede il bilanciamento fra contrapposte esigenze in gioco da parte delle assemblee parlamentari.
3. Proprio dall’eccezione in rito formulata dall’Avvocatura dello Stato prende l’abbrivio la parte motiva della sentenza in commento, che affronta, prima di tutto, il profilo dell’ammissibilità della questione oggetto di scrutinio.
La Corte si confronta con il proprio precedente, evidenziando le ragioni che la condussero a non accogliere, nel 2012, una questione di legittimità sovrapponibile a quella odierna. Si ritenne effettivamente sussistente il vulnus e, dunque, già all’epoca si avvertì come stringente la necessità di garantire degli spazi d’intimità all’interno delle carceri, ma al contempo si concluse che fosse necessario un intervento legislativo, perché gli strumenti a disposizione della Corte non avrebbero sanato il contrasto con la Carta. Non sarebbe risultata appagante l’ablazione della disposizione censurata, difettando in ogni caso una disciplina di termini e modalità di fruizione dei colloqui intimi; né, d’altro canto, si sarebbe potuto optare per una pronuncia manipolativa, perché proprio la determinazione delle condizioni di godimento di questo peculiare tipo di visite implica scelte discrezionali di esclusiva spettanza del legislatore; né ancora per una pronuncia additiva di principio, perché sarebbe risultata espressiva di una scelta di fondo sul novero delle persone care da ammettere agli incontri (§§ 2.1.-2.2.).
D’altro canto, evidenzia la Corte, «nel tempo trascorso dalla pubblicazione della sentenza n. 301 del 2012, l’ordinamento penitenziario ha registrato significative innovazioni, che delineano oggi un quadro normativo ben differente da quello di allora». E, in particolare, «è emersa un’indicazione specifica circa le relazioni qualificate della persona detenuta, meritevoli e bisognose di una considerazione differenziata anche “dentro le mura”», di fatto sanando l’aspetto particolare che l’aveva indotta a ritenere impraticabile l’adozione di una sentenza additiva di principio (§ 2.3.).
Occorre, cioè, secondo i giudici costituzionali, tenere in debito conto una serie di innovazioni legislative: medio tempore l’art. 1, comma 38, della legge n. 76 del 2016 ha previsto che «i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario», e tali diritti sono stati estesi anche alla parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso dal comma 20 dell’art. 1 della stessa legge; la medesima disposizione censurata, come riformata dal d.lgs. n. 123 del 2018, dispone che «i locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio», necessità confermata e valorizzata relativamente ai minori autori di reato anche dal d.lgs. n. 18 del 2021. Non privo di rilievo, secondo la Corte, anche il criterio direttivo enunciato dalla legge delega n. 103 del 2017, all’art. 1, comma 85, lett. n, («riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio»), che non ha poi trovato seguito nell’attività del legislatore delegato (§ 2.4).
3.1. Superata l’obiezione in rito formulata dall’Avvocatura dello Stato, la Corte si sofferma su un altro profilo relativo all’ammissibilità della questione prospettatale. Si conferma, in particolare, la rilevanza dell’eccezione d’incostituzionalità sollevata, osservando che la concedibilità in astratto di permessi premio non vale a risolvere il problema della negazione dell’affettività all’interno del carcere.
La fruizione di permessi premio, si rileva, non è subordinata unicamente alla verifica della regolarità della condotta in carcere e dell’assenza di pericolosità sociale, ma anche a presupposti quantitativi, ed è preclusa alla persona ristretta in custodia cautelare.
Il permesso premio, si conclude, «non elimina (…) il problema dell’affettività del detenuto, ma consente solo di alleggerirlo, trasferendo “fuori le mura” la realizzazione delle esigenze affettive per chi abbia accesso al beneficio premiale». Senza contare che c’è anche chi è escluso da una tale mitigazione: «l’inadeguatezza dell’attuale situazione normativa è di particolare evidenza per il detenuto in attesa di giudizio, al quale è preclusa l’affettività extra moenia a causa dell’impossibilità di fruire di permessi premio ed è altresì preclusa l’affettività intramuraria per effetto dell’art. 18 ordin. penit., tutto ad onta della presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, di cui all’art. 27, secondo comma, Cost.» (§ 2.6. ss.).
4. Concluso positivamente il vaglio di ammissibilità della questione oggetto di scrutinio, la Corte rompe gli indugi e ne anticipa la fondatezza in poche battute: «l’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza»; e «lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società» (§ 3.1.).
Si ritorna, dunque, alla disposizione censurata, inquadrandola ed individuandone il primo profilo d’illegittimità costituzionale.
L’art. 18 o.p. – si osserva – contempla il controllo a vista come modalità unica ed inderogabile dei colloqui negli istituti penitenziari, al fine di garantire la regolarità degli incontri e di evitarne la strumentalizzazione. Se è vero che la ratio dalla disposizione risulta in astratto condivisibile, l’impossibilità di modularne l’applicazione in concreto finisce per eccedere lo scopo preso di mira: l’assolutezza e l’inderogabilità della prescrizione producono una compressione sproporzionata e un sacrificio irragionevole della dignità della persona, in violazione dell’art. 3 Cost. (§ 3.2.)
Vizio confermato, peraltro, a parere della Corte, dalla incidenza della disposizione non soltanto sui diritti delle persone detenute, ma anche su quelli dei loro cari: sebbene «sia inevitabile che le persone affettivamente legate al detenuto patiscano le conseguenze fattuali delle restrizioni carcerarie a lui imposte», «tale riflesso soggettivo diviene incongruo quando la restrizione stessa non sia necessaria, e pertanto, nella specie, quando il colloquio possa essere svolto in condizioni di intimità senza che abbiano a patirne le esigenze di sicurezza» (§ 4.2.). Con il rischio ulteriore, si osserva, di avallare un paradosso: si consente alla persona ristretta di sposarsi in carcere, ma la si condanna ad un “matrimonio bianco”, e quindi suscettivo di scioglimento, se non può fruire di permessi premio (4.2.1.)
4.1. Secondo la Corte, la prescrizione del controllo a vista viola, inoltre, come prospettato dal rimettente, anche l’art. 27, comma terzo, Cost. e l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 8 CEDU.
La privazione di una dimensione anche fisica degli affetti rischia di essere d’ostacolo alla risocializzazione della persona condannata, che potrebbe percepire la negazione di questo diritto come una misura eccessivamente afflittiva e, di conseguenza, decidere di non prendere parte al percorso rieducativo. Come, d’altra parte, l’impossibilità di avere rapporti intimi, anche di natura sessuale, potrebbe contribuire all’abbandono della persona ristretta, con ricadute certamente negative anche rispetto all’obiettivo di cui all’art. 27 Cost. (4.3.)
Quanto, poi, alle disposizioni della Carta EDU prese in considerazione dal giudice a quo, si riconosce una violazione effettiva del solo diritto alla vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU. Ancora una volta, il vulnus si rinviene non nella previsione limitativa in sé, ma nel suo carattere assoluto ed inderogabile, tale da non garantire la compressione del diritto della persona reclusa nella misura minima necessaria al perseguimento dello scopo (§ 4.4.).
5. Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 o.p., nella parte in cui impedisce indefettibilmente i colloqui intimi, e affermata la necessità di consentire incontri di questo tipo, laddove non vi ostino ragioni di sicurezza, esigenze di mantenimento dell’ordine o ragioni giudiziarie, la Corte si confronta con le ripercussioni della propria decisione, «consapevole dell’impatto che (…) è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento» (§ 6).
Proprio per porre rimedio alle difficoltà di gestione derivanti dall’adozione di una sentenza c.d. additiva di principio, i giudici costituzionali si cimentano con la concretizzazione del principio enunciato per consentirne una fruttuosa e piena applicazione in attesa di un auspicato intervento legislativo.
Nella pronuncia in commento si rinviene, infatti, una pars construens, nella quale vengono enunciati una serie di regole e criteri, utilizzabili – in una prima fase – dai giudici di sorveglianza e dall’amministrazione penitenziaria come vademecum per orientarsi nella individuazione in concreto delle modalità di attuazione del principio già operante, e – in una seconda fase – dal legislatore per precisare e mettere a punto una disciplina compiuta degli incontri intimi.
In primis, si parla di tempi e spazi dedicati al diritto all’affettività. Si evidenzia come sia opportuno contingentare la durata dei colloqui intimi in maniera adeguata «ad un’espressione piena dell’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude» (§ 6.1.1.), e garantirne la fruizione «in modo non sporadico (ovviamente qualora ne permangano i presupposti), e tale da non impedire che gli incontri possano raggiungere lo scopo complessivo di preservazione della stabilità della relazione affettiva» (§ 6.1.2.). Tali incontri potrebbero, poi, svolgersi «in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico», sempre e comunque assicurando la riservatezza del locale di svolgimento dell’incontro e sottraendolo «non solo all’osservazione interna da parte del personale di custodia (che dunque vigilerà solo all’esterno), ma anche allo sguardo degli altri detenuti e di chi con loro colloquia».
Si affronta, poi, il problema quantomeno iniziale della scarsità degli spazi dedicati agli incontri intimi, formulando un criterio preferenziale: nella fruizione dei locali predisposti, si ritiene che debbano essere favorite le visite prolungate per i detenuti che non usufruiscono di permessi premio, sempre che la preclusione non dipenda da ragioni ostative anche all’esercizio dell’affettività intramuraria (§ 6.1.6.).
Quanto al novero delle persone ammesse ai colloqui intimi, la Corte afferma che, diversamente da quanto previsto dall’art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 per la visita prolungata per il minore detenuto, per gli adulti non vada ammessa la compresenza di più persone, considerata l’eventualità di una declinazione sessuale dell’incontro. I colloqui si svolgeranno, dunque, unicamente con il coniuge, la parte dell’unione civile o il convivente (§ 6.1.4), dopo il vaglio da parte del direttore dell’istituto (o del giudice procedente, se si tratta di persona in attesa di primo giudizio) su eventuali divieti di incontro applicati dall’autorità giudiziaria, sulla stabilità del legame affettivo e sull’effettività della pregressa convivenza (§ 6.1.5.).
Quanto ai reclusi ammessi a godere dei colloqui privi di sorveglianza a vista, la Corte ritiene che occorra perimetrare più attentamente i motivi che consentono di superare la preclusione legislativa: se il rimettente ha richiamato esclusivamente «ragioni di sicurezza», l’art. 1, comma 5, o.p. indica più ampiamente l’«esigenza di mantenimento dell’ordine e della disciplina» e, nei confronti degli imputati, i «fini giudiziari», quali possibili rationes delle limitazioni della vita intramuraria (§ 7). Potrebbero, quindi, rilevare in senso ostativo alla concessione di tali colloqui non soltanto la pericolosità sociale della persona reclusa, ma anche «irregolarità di condotta e precedenti disciplinari, in una valutazione complessiva che appartiene in prima battuta all’amministrazione e in secondo luogo al magistrato di sorveglianza». E, per l’imputato, ragioni processuali di salvaguardia della prova, valutate dall’a.g. procedente, fino alla pronuncia della sentenza di primo grado e successivamente dal direttore dell’istituto.
Restano escluse dal godimento di una affettività inframuraria, di cui pure è riconosciuta la valenza fondamentale, le persone detenute in regime speciali. Per espressa statuizione della Corte, non possono fruirne le persone ristrette in regime di carcere duro, perché l’art. 41 bis o.p. «comporta l’applicazione di una disciplina dei colloqui radicalmente derogatoria, quanto al controllo finanche auditivo sui colloqui medesimi e alla conformazione dei locali in cui si svolgono (§ 8.1.); e quelle in regime di sorveglianza speciale, i cui presupposti «sono antitetici rispetto a quelli dell’ammissione al colloquio intimo» (§ 8.2.). Quanto ai detenuti per reati c.d. ostativi, la Corte ritiene che, sebbene «in linea di principio non sussistono impedimenti normativi che precludano l’esercizio dell’affettività intra moenia», la significativa riduzione del numero dei colloqui autorizzabili per i reati c.d. di prima fascia «indica un chiaro orientamento legislativo nel senso di un maggiore controllo sugli incontri di queste persone, e ciò non può che tradursi in una più stringente verifica dei presupposti di ammissione all’esercizio dell’affettività intramurari» (§ 8.3.).
6. Completate le indicazioni per consentire l’attuazione nell’immediato del principio enunciato, la Corte si rivolge a diversi interlocutori, richiamandoli alla responsabilità di prendere parte a «una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena» (§ 9).
Innanzitutto, si sollecita nuovamente il Parlamento ad intervenire, osservando che «resta ovviamente salva la possibilità per il legislatore di disciplinare la materia stabilendo termini e condizioni diversi da quelli sopra enunciati, purché idonei a garantire l’esercizio dell’affettività dei detenuti, nel senso fatto proprio dalla presente pronuncia».
In attesa dell’intervento, tuttavia, è già possibile dedicare degli spazi ai colloqui intimi all’interno degli istituti penitenziari, «laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano, e con la gradualità eventualmente necessaria».
Ad una tale opera di inveramento del principio, almeno nelle more di una riforma, è chiamata l’amministrazione penitenziaria, «in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti», in uno con la magistratura di sorveglianza che ha il compito di vigilare sulle soluzioni adottate.
Così conclude la Corte, auspicando che l’attuazione di una innovazione di tale rilievo sia accompagnata da un’«azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze».
* * *
7. La pronuncia n. 10 del 2024 ha il merito indiscusso di riconoscere un diritto fondamentale troppo a lungo negato non soltanto alle persone detenute, ma anche ai loro cari. L’affermazione della irrinunciabilità dell’affettività anche all’interno del carcere è certamente coraggiosa e rappresenta l’ennesima occasione in cui il riconoscimento di un diritto ha luogo non nelle aule parlamentari, ma in quelle di Palazzo della Consulta.
Come si anticipava in premessa, la sentenza in commento sollecita anche alcune riflessioni relativamente allo schema decisorio adottato dalla Corte e alle conseguenze di tale scelta sul prossimo futuro delle carceri italiane.
La decisione – inquadrabile nella categoria delle sentenze c.d. additive di principio[3] – s’inserisce perfettamente nella recente tendenza della Corte costituzionale alla «salvaguardia incondizionata» dei diritti fondamentali[4], concepita, tuttavia, non come un’operazione solitaria, ma come un processo sinergico a cui devono partecipare anche il legislatore, i giudici e, in questo caso, l’amministrazione penitenziaria.
Non si poteva consentire oltre la privazione di un diritto riconosciuto in Costituzione e, allora, occorreva provocarne l’ingresso nel sistema, anche a costo di forzare il dialogo. In questo senso, introducendo un principio immediatamente operante attraverso la mediazione di giudici e direttori di istituti, ma assicurando al contempo al legislatore la possibilità di intervenire, la sentenza in commento produce effetti non dissimili dalla tecnica c.d. del rinvio a data fissa, dall’impiego di moniti più pregnanti e persuasivi o di altri schemi cui la Corte ha fatto sovente ricorso ultimamente[5]. A fronte di un appello rimasto inascoltato, anche in questo caso si mira a garantire due esigenze: quella di offrire tutela alle ragioni inalterate e perduranti che hanno indotto i giudici costituzionali a sollecitare l’intervento legislativo, da un lato, e quella di non azzerare il dibattito parlamentare, dall’altro.
Con specifico riferimento alla questione oggetto di scrutinio, tuttavia, la scelta di questo tipo decisorio reca con sé una serie di problemi di difficile soluzione.
Se è vero che la pronuncia in commento si sforza di rappresentare un testo “ponte”, offrendo all’interprete e all’amministrazione penitenziaria una serie di indicazioni puntuali su come dare concreta attuazione al principio ivi enunciato, non sembra potersi prescindere da un intervento legislativo in materia, che, però, è bene ricordarlo, non è arrivato sino ad oggi e potrebbe non arrivare a breve.
Sino ad allora (o sino ad una nuova pronuncia della Corte costituzionale che si occupi del “seguito” della propria additiva di principio, come accaduto in passato), il rischio è che la delega alla amministrazione penitenziaria si traduca nel riconoscimento soltanto sulla carta del diritto all’affettività inframuraria oppure, nel migliore dei casi, in un’attuazione del principio assolutamente diseguale.
Com’è noto, gli istituti penitenziari sono sovraffollati e presentano limiti strutturali talvolta difficilmente superabili. Ne è consapevole la Corte, che in più passaggi vi fa cenno, fino ad affermare nella parte conclusiva della sentenza che può darsi immediato corso alla decisione (soltanto) «laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano, e con la gradualità eventualmente necessaria».
Ebbene non è detto che, in tempi rapidi, sia possibile rintracciare spazi inutilizzati o riorganizzare quelli già in uso per fare fronte alla fruizione dei colloqui intimi in tutte le carceri. Come pure non è detto che ci siano risorse tali da consentirne ristrutturazione e arredo, specie se si considera che le risorse esistenti potrebbero essere destinate dall’amministrazione ad altre priorità, come la realizzazione del wc in ambiente separato o di docce all’interno delle celle, non presenti in molti istituti[6].
La possibilità di godere di un’affettività piena con i propri cari finirebbe, dunque, per dipendere dalle condizioni e dalle caratteristiche strutturali del carcere in cui si è reclusi, con evidente discriminazione di alcune persone detenute e dei loro cari, che potrebbero vedersi negata per lungo tempo la possibilità di incontrarsi nonostante la sentenza in commento[7]. Persone che andrebbero ad aggiungersi a quelle escluse dal godimento di un diritto – pur ritenuto fondamentale! – per scelta espressa della stessa Corte (i ristretti in regime di carcere duro o di sorveglianza particolare)[8].
Il rischio concreto di dilazione attuative, tuttavia, non si annida unicamente nei ben noti deficit strutturali dei penitenziari italiani, ma anche nella strumentalizzazione di tali carenze per evitare di dare seguito al principio affermato dai giudici costituzionali, specie se si considera che ad essere gravati dalle richieste di questo nuovo tipo di colloqui saranno i direttori delle carceri e, soltanto in seconda battuta, i magistrati di sorveglianza[9]. Stante la clausola inserita in sentenza che valorizza la gradualità dell’attuazione del principio e la compatibilità con lo stato degli istituti, è ben possibile che la predisposizione di locali dedicati ai colloqui intimi, anche laddove disponibili, sia posticipata il più possibile per allontanare le complicazioni che certamente deriverebbero dalla gestione delle visite nella quotidianità del penitenziario.
Senza contare che, anche una volta garantiti degli spazi idonei all’interno del carcere, risulterebbe opportuno – a parere di chi scrive – riservare la decisione circa la possibilità di fruire in concreto dell’affettività inframuraria al magistrato di sorveglianza. Se la stessa Corte evidenziava che la questione di legittimità non potesse essere risolta mediante il ricorso ai permessi premio, non potendosi condizionare l’esercizio di un diritto fondamentale ai requisiti della premialità, nella pars construens della pronuncia si afferma che possono ostare alla concessione del colloquio intimo anche «irregolarità di condotta e precedenti disciplinari». Sarebbe, dunque, preferibile evitare che a decidere sull’accesso a tale tipo di visite sia il direttore dell’istituto, lo stesso soggetto, cioè, che delibera le sanzioni disciplinari o che presiede il consiglio di disciplina che le irroga, per evidenti ragioni di garanzia e per evitare che questa novità si trasformi in uno strumento di disciplinamento.
Un intervento del legislatore risulta, allora, auspicabile. Non solo per emendare questa o quella disarmonia derivante dall’attuazione del principio contenuto nella sentenza in commento, ma anche e soprattutto per confrontarsi con l’insufficienza cronica di spazi all’interno delle carceri. La questione, più volte citata dalla Corte, non può essere ignorata se si vuole assicurare davvero alle persone recluse la possibilità di esercitare il diritto all’affettività, come pure le altre libertà loro negate.
La strada maestra sembrerebbe passare per le assemblee parlamentari, per uno sfoltimento vigoroso delle fattispecie incriminatrici e delle pene, accompagnato dall’affinamento delle condizioni di fruizione delle visite con il partner.
Nel frattempo, resta la speranza di un’attuazione piena del dictum della Corte – per quanto possibile – da parte dell’amministrazione penitenziaria, in collaborazione con la magistratura di sorveglianza. E con i giudici, che sono chiamati – pur nel silenzio della pronuncia in commento – ad un uso sapiente di norme e principi, primo fra tutti quello di ricorrere alla custodia cautelare in carcere solo e soltanto come extrema ratio.
Nell’attesa di una riforma di sistema, allora, citando ancora la Corte, «a ciascuno il suo»[10].
[1] Il riferimento è a Corte cost., 19 dicembre 2012, n. 301, Pres. Quaranta, red. Frigo.
[2] Si citano, in particolare, l’art. 1, comma 38, della legge 20 maggio 2016, n. 76, che ha parificato i diritti del convivente a quelli del coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario, e l’art. 2 quinquies del d.l. 30 aprile 2020, n. 28, sulla corrispondenza telefonica del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva
[3] Per sentenze «additive di principio» ‒ o «sentenze meccanismo», «sentenze-delega», od ancora «additive a dispositivo generico» ‒ s’intendono le decisioni di fucinatura giurisprudenziale con cui la Corte, dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione oggetto del giudizio «nella parte in cui non prevede che», non procede all’addizione di un frammento idoneo a colmare la lacuna, ma fissa un principio generale che deve essere attuato attraverso l’intervento del legislatore, ma al quale può fare già riferimento il giudice per la decisione di casi concreti. Cfr. E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino, 2018, p. 145 ss.; G. Zagrebelsky, V. Marcenò, Giustizia costituzionale. Oggetti, procedimenti, decisioni, Bologna, 2018, p. 244.
[4] Così F. Palazzo, L’illegittimità costituzionale della legge penale e le frontiere della democrazia, in Legisl. pen., 2020, p. 3.
[5] Sul punto, sia consentito rinviare a I. Giugni, Potere monitorio della Corte costituzionale e legalità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2023, p. 427 ss.
[6] Cfr. È vietata la tortura. XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, sezione I numeri, consultabile al link.
[7] Paventa il rischio di un’affermazione del diritto «a macchia di leopardo» A. Ruggeri, Finalmente riconosciuto il diritto alla libera espressione dell’affettività dei detenuti (a prima lettura di Corte cost. n. 10 del 2024), in Consulta OnLine, 2024, p. 3.
[8] Osserva che «anche l’amore in carcere, dunque, viaggia su un doppio binario» A. Pugiotto, Amore dietro le sbarre: la Costituzione bussa ai cancelli della prigione, pubblicato su L’Unità, 30 gennaio 2024, p. 5. Sul trattamento differenziato riservato alle persone al 41 bis o.p. si è osservato che «trattandosi di un diritto fondamentale, lascia, per vero, l’amaro in bocca», ma che tuttavia «non poteva (e non può) farsi diversamente, apparendo al riguardo preminenti ed indisponibili le ragioni di sicurezza che ostano al suo generalizzato riconoscimento», A. Ruggeri, Finalmente riconosciuto il diritto alla libera espressione dell’affettività dei detenuti, cit., p. 4.
[9] Come chiarito tempo fa dalle Sezioni Unite, i provvedimenti dell'amministrazione penitenziaria in materia di colloqui visivi e telefonici delle persone detenute e internate, in quanto incidenti su diritti soggettivi, sono sindacabili in sede giurisdizionale mediante reclamo al magistrato di sorveglianza che decide con ordinanza ricorribile per cassazione secondo la procedura indicata nell'art. 14 ter o.p. (Cass. pen., Sez. Un., 26 febbraio 2003, n. 25079).
[10] Cfr. Corte cost., 17 giugno 1987 n. 230, Pres. La Pergola, red. Andrioli, § 13.