Riflessioni a margine di CGUE, Grande Camera, 14 maggio 2020, cause riunite C 924/19 e C 925/19 PPU (FMS e FNZ) e C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 21 novembre 2019, Ilias e Ahmed c. Ungheria
1. Nell’arco di pochi mesi le Grandi Camere delle corti europee di Strasburgo (caso Ilias e Ahmed c. Ungheria, 21 novembre 2019) e Lussemburgo (caso FMS e FNZ, 14 maggio 2020) hanno adottato posizioni diametralmente opposte rispetto alla soluzione del medesimo – e inedito – problema: ossia se il trattenimento di richiedenti asilo presso la zona di transito terrestre istituita da uno Stato membro per controllare gli ingressi da Paesi terzi – segnatamente la zona di transito istituita dall’Ungheria al confine con la Serbia – costituisca una vera e propria ‘privazione della libertà personale’, ovvero una mera limitazione della libertà di circolazione. Come vedremo, i profili di omogeneità dei casi trattati (ancorché relativi a persone fisiche diverse), e soprattutto la coincidenza della quaestio iuris che i collegi si sono trovati ad affrontare nel quadro delle rispettive procedure (il ricorso a Strasburgo; il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE), rendono il confronto tra le due pronunce particolarmente interessante e ricco di spunti nella prospettiva del dibattito sulle misure coercitive di contenimento dei flussi migratori.
Un dibattito – giova sottolinearlo – da affrontare con sguardo proiettato al di là della sua apparente settorialità. Dal punto di vista storico-politico, infatti, la libertà personale rappresenta oggi uno dei diritti fondamentali sottoposti alle maggiori tensioni in punto di bilanciamento con altri concorrenti interessi meritevoli di tutela, in primis la salute pubblica e individuale nel contesto delle misure adottate per il contenimento della pandemia da Covid-19. Inoltre, nella specifica prospettiva del diritto penale, il problema della definizione di “privazione della libertà personale” assume una portata per così dire di sistema, che spazia dalle problematiche tradizionali inerenti alle garanzie dell’habeas corpus ed all’apparato sanzionatorio, fino ai più recenti sviluppi proprio sul terreno dell’immigrazione, dove le intersezioni tra penalità e controllo dello straniero vengono ormai comunemente inquadrate sotto l’ombrello concettuale del neologismo “crimmigration” [1].
Si tratta nel complesso di ottime ragioni, ci sembra, per considerare queste pronunce con sguardo attento non solo alle specifiche questioni affrontate, già di per sé cruciali, ma anche alle relative implicazioni per l’intero ordinamento; e ciò a fortiori in quanto – come anticipato – gli orientamenti espressi dalle due supreme istanze europee si pongono tra loro in frontale e insanabile contrasto.
Prima di proseguire, un rapido aggiornamento sull'evoluzione della vicenda: a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia, che come vedremo è quella della due che ha rilevato la sussistenza di una vera e propria privazione della libertà personale, l'Ungheria ha liberato 300 persone trattenute nella zona di transito ed ha annunciato la sua imminente chiusura.
2. Procedendo in ordine cronologico, viene anzitutto in rilievo la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, scaturita dal ricorso presentato da due cittadini bengalesi, Ilias e Ahmed, i quali lamentavano, tra l’altro, l’illegittima privazione della libertà personale durante i 23 giorni trascorsi presso la zona di transito di Röszke, istituita dalle autorità ungheresi per controllare gli arrivi dalla frontiera terrestre con la Serbia, prima di essere espulsi verso quest’ultimo Paese a seguito del definitivo rigetto della loro domanda di protezione internazionale.
La violazione dell’art. 5 Cedu, inizialmente riconosciuta dalla Camera della Corte edu[2], viene successivamente negata dalla Grande Camera con la sentenza qui in commento. Esprimendosi a maggioranza, il collegio ritiene che la disposizione in parola non possa trovare applicazione nel caso di specie, in ragione dell’assenza di una situazione qualificabile in termini di privazione della libertà personale, e per l’effetto dichiara il ricorso sul punto irricevibile ex art. 35 par. 3 lett. (a) Cedu (incompatibilità ratione materiae). Quanto alle ulteriori doglianze, la Grande Camera conferma la violazione dell’art. 3 Cedu in relazione all’espulsione dei ricorrenti verso la Serbia, nonché l’assenza di violazione della stessa disposizione in relazione al trattamento riservato ai richiedenti asilo nella zona di transito; dichiara infine irricevibile la doglianza basata sugli artt. 13 e 3 Cedu, ritenendola tardiva.
Volendo qui concentrare l’attenzione sui profili relativi all’art. 5 Cedu, occorre anzitutto chiarire che l’overruling della Grande Camera non è derivato da una diversa ricostruzione dei fatti, né dall’adozione di una diversa nozione di “privazione della libertà personale”; bensì dalla diversa valutazione degli elementi di fatto nel quadro del giudizio sulla sussistenza o meno di siffatta privazione.
Le due pronunce forniscono, infatti, descrizioni sostanzialmente coincidenti della zona di transito di Röszke e del relativo regime giuridico. I ricorrenti erano stati trattenuti in un’area chiusa, delimitata da cancelli alti quattro metri e filo spinato, posta sotto costante sorveglianza di guardie armate. Una decina di containers, dotati di 3 o 5 letti ciascuno, erano destinati ad accogliere i richiedenti asilo. Due ulteriori containers erano destinati, rispettivamente, ai servizi igienici ed alla consumazione di tre pasti al giorno. L’area all’aperto era rappresentata dal corridoio che circondava i containers, largo due metri e mezzo e lungo circa cinquanta[3].
Anche sul versante dei principi di diritto, e segnatamente della ricostruzione dell’ambito di applicazione dell’art. 5 Cedu, Camera e Grande Camera concordano nel ribadire il consolidato orientamento secondo cui la differenza tra privazione e mera limitazione della libertà di movimento non è qualitativa, bensì quantitativa, attenendo al grado ed all’intensità della vincolo. Il relativo accertamento deve essere effettuato caso per caso, tenendo conto di una serie di elementi da valutare cumulativamente che attengono al tipo di misura adottata, alla sua durata, ai suoi effetti ed alle modalità dell’esecuzione (cfr. Grande Camera, §§ 211-212).
Il terreno sul quale, come già anticipato, si è consumato il contrasto interno alla Corte di Strasburgo riguarda l’applicazione dei richiamati principi al caso di specie. La sentenza di primo grado aveva valorizzato, essenzialmente, il fatto che la zona di transito fosse una struttura chiusa verso l’esterno (anche per gli avvocati, i quali potevano accedere solo se autorizzati) e che i ricorrenti non potessero oltrepassarla per dirigersi nel resto del territorio ungherese (§54). Quanto all’obiezione del Governo secondo cui i ricorrenti sarebbero potuti uscire per ritornare Serbia, il collegio aveva evidenziato che tale Paese non aveva espressamente consentito al loro rientro, e che in ogni caso in base alla legge ungherese l’abbandono della zona di transito avrebbe comportato l’automatica rinuncia alla domanda di asilo (§55). Considerato dunque che i ricorrenti erano stati costretti a scegliere tra rimanere nella zona di transito o rinunciare alla protezione internazionale, la Camera aveva concluso nel senso che gli stessi erano stati effettivamente privati della libertà personale (§56). Tanto premesso in punto di applicabilità dell’art. 5 Cedu, la Camera ne aveva altresì riscontrata la violazione in quanto la detenzione era risultata priva di base legale ed i ricorrenti non avevano avuto accesso a vie di ricorso dinanzi alle autorità giudiziarie nazionali.
La Grande Camera, dal canto suo, è pervenuta ad opposte conclusioni sulla scorta di tre ordini di argomenti. Anzitutto il fatto che i ricorrenti fossero entrati nella zona di transito di propria iniziativa, allo scopo di ottenere l’autorizzazione ad accedere al territorio ungherese, e che non stessero fuggendo da una situazione di pericolo imminente (§220ss.). In secondo luogo, il fatto che la durata della permanenza non avesse ecceduto il tempo necessario all’esame della domanda di asilo, e che tale procedura, a sua volta, non si fosse protratta per un tempo eccessivo, anche in considerazione del fatto che le autorità stavano operando in situazione di massiccio afflusso di stranieri (§224ss.). In terzo luogo, il fatto che la limitazione della libertà avesse riguardato solo l’ingresso in Ungheria, i ricorrenti essendo rimasti in ogni momento liberi di allontanarsi dalla zona di transito per ritornare in Serbia. A tale riguardo il collegio sviluppa un distinguishing rispetto al proprio precedente Amuur c. Francia[4], relativo al trattenimento di richiedenti asilo somali, provenienti dalla Siria, nella zona di transito dell’aeroporto di Parigi-Orly. Mentre infatti in quel caso i ricorrenti non avrebbero potuto lasciare l’aeroporto senza prima avere ottenuto l’autorizzazione ad imbarcarsi su un aereo diretto in Siria, Paese oltretutto non firmatario della Convenzione di Ginevra, nel caso di specie l’alternativa rappresentata dal ritorno in Serbia era da considerarsi realistica, trattandosi di Paese firmatario della Convenzione di Ginevra, oltre che dell’accordo di riammissione con l’UE, e potendo i ricorrenti accedervi a piedi (§236-241). Quanto infine ai timori manifestati dai ricorrenti in merito alla rinuncia alla domanda di asilo presentata in Ungheria, ed alle inefficienze del sistema d’asilo serbo (con connesso rischio di refoulement), la Corte ritiene si tratti di elementi rilevanti sotto l’angolo dell’art. 3 Cedu (di cui infatti, come visto, conferma la violazione con riferimento all’accompagnamento alla frontiera), ma non ai fini dell’art. 5; diversamente, conclude il collegio, si determinerebbe “un’espansione del concetto di privazione della libertà al di là del significato inteso dalla Convenzione” (§243).
3. Passando alla pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea, essa scaturisce dalla trattazione congiunta dei rinvii pregiudiziali introdotti sul finire del 2019 da un tribunale amministrativo ungherese, chiamato a decidere i ricorsi di alcuni richiedenti asilo di nazionalità afghana e iraniana, anch’essi trattenuti presso la zona di transito di Röszke, avverso i provvedimenti delle autorità magiare che avevano respinto le rispettive domande di protezione e ne avevano ordinato l’allontanamento. Tra le numerose questioni sulla quali la Corte europea viene interrogata, e che in questa sede non è possibile ripercorrere nel dettaglio, vi è anche quella relativa alla privazione della libertà personale dei ricorrenti, declinata nei seguenti termini (§ 215): se l’art. 2 lett. (h) della direttiva “accoglienza” (2013/33/UE) e l’art. 16 della direttiva “rimpatri” (2008/115/CE) debbano essere interpretati nel senso che l’obbligo imposto al cittadino di un Paese terzo di permanere in una zona di transito situata alla frontiera esterna di uno Stato membro costituisce “trattenimento” (nel testo inglese della direttiva: “detention”; nel testo francese: “rétention”), con le conseguenze che ne derivano in punto di applicabilità delle garanzie previste dalle direttive stesse[5]. Al momento della decisione della Corte i ricorrenti si trovavano ancora nella zona di transito, ed anche per questa ragione la causa è stata decisa con procedura d’urgenza (§ 94 ss.).
La Corte dedica alla questione in esame uno spazio decisamente contenuto nell’economia complessiva della motivazione. Viene anzitutto richiamata la norma definitoria di cui all’art. 2 lett. (h) della direttiva accoglienza, dove per “trattenimento” si intende “il confinamento del richiedente, da parte di uno Stato membro, in un luogo determinato, che lo priva della libertà di circolazione”. A proposito della condizione di “privazione” della libertà di movimento, il collegio richiama i principi dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati sui criteri e le norme applicabili alla detenzione dei richiedenti asilo (1999). In essi si rinviene, anzitutto, l’indicazione che la privazione della libertà deve ritenersi sussistente non soltanto nei centri di detenzione, bensì anche in ogni luogo dal quale il richiedente asilo non è libero di allontanarsi (“n’est pas libre de quitter”, §220). In secondo luogo, gli stessi principi ONU chiariscono – con evidente assonanza rispetto all’orientamento radicato nella giurisprudenza di Strasburgo – che la differenza tra privazione della libertà personale e mera restrizione della libertà di circolazione è di grado e intensità, non di natura o essenza. La Corte infine precisa che la nozione così ricostruita deve ritenersi valida anche ai fini della direttiva rimpatri (2008/115/CE), in assenza di norme definitorie rinvenibili nella stessa e di altre ragioni dalle quali inferire che il legislatore dell’Unione abbia ritenuto di attribuirvi un significato diverso (ed anzi in presenza di riferimenti incrociati tra le stesse direttive che confermano il carattere unitario della nozione).
Con riferimento al caso di specie, la Corte ricostruisce brevemente le condizioni alle quali i richiedenti asilo sono soggetti nella zona di transito ungherese, sottolineando in particolare la presenza di recinzioni e sorveglianza armata, la limitata superficie dei containers (13mq), l’impossibilità di ricevere visite senza autorizzazioni. Decisivo, peraltro, è il passaggio in cui la Corte respinge l’obiezione del Governo ungherese secondo cui i richiedenti asilo si sarebbero potuti allontanare a piedi (ricordiamo che al momento della pronuncia le persone interessate si trovavano ancora nella zona di transito e che sono state liberate alcuni giorni dopo, proprio per effetto dell'intervento della Corte di Giustizia). Tanto sulla scorta di due argomenti: primo, che un eventuale loro (re)ingresso in Serbia sarebbe stato considerato illegale dalle autorità di quel paese e pertanto esporrebbe gli stessi a sanzioni; secondo, che il loro allontanamento dalla zona di transito avrebbe comportato, in base alla legge ungherese, la rinuncia alla domanda di asilo. Alla luce di tali considerazioni, il massimo consesso giurisdizionale dell’UE conclude nel senso che gli interessati, non avendo una possibilità reale (“une possibilité effective”, §229) di lasciare la zona di transito, devono considerarsi “trattenuti” presso la stessa, ossia privati della libertà personale.
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4. Come è emerso dalla sintetica ricostruzione delle pronunce, le due Grandi Camere sono intervenute su situazioni di fatto del tutto analoghe nei loro elementi essenziali ed hanno adottato – al netto delle specificità dei rispettivi sistemi sovranazionali di riferimento – la medesima nozione di “privazione della libertà personale”. L’esito di segno opposto al quale sono pervenute risulta pertanto attribuibile – similmente a quanto era accaduto nel passaggio “interno” dalla Camera alla Grande Camera della Corte EDU – ad un diverso apprezzamento delle circostanze concrete, e soprattutto al diverso valore attribuito, nel quadro del giudizio in ordine alla effettiva possibilità per i richiedenti asilo di lasciare la zona di transito, alle conseguenze negative che tale condotta avrebbe determinato per la loro sfera giuridica.
Sul punto, la posizione espressa dalla Corte di Lussemburgo (così come, del resto, quella in precedenza adottata dalla Camera della Corte di Strasburgo) appare del tutto lineare: il collegio osserva che i richiedenti asilo che giungono presso la zona di transito di Röszke non possono né proseguire il loro tragitto, essendo precluso l’ingresso nel territorio ungherese fino all’eventuale accoglimento della domanda di protezione; né ritornare in Serbia, sia perché ne deriverebbe, ai sensi della legge ungherese, l’automatica rinuncia alla domanda di asilo, sia perché si ritroverebbero in un Paese dove il sistema dell’asilo soffre malfunzionamenti strutturali e dal quale rischierebbero di essere ulteriormente allontanati in violazione del divieto di refoulement. Essi pertanto si trovano, di fatto, bloccati all’interno di una zona che, come visto, presenta tutte le caratteristiche di un centro di trattenimento chiuso (spazi limitati, cancelli e filo spinato, sorveglianza armata, necessità di autorizzazione per le visite dall’esterno).
A fronte di questa situazione, che come visto i giudici UE non esistano a qualificare come “privazione della libertà personale”, nessuno degli elementi valorizzati dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo per escludere l’applicabilità dell’art. 5 Cedu risulta davvero convincente[6].
Non, anzitutto, il riferimento al fatto che i migranti fossero arrivati alle porte dell’Unione europea di propria iniziativa: sia perché, se davvero la circostanza di essersi presentati volontariamente ad una frontiera fosse sufficiente ad escludere la privazione della libertà personale (sempre che di autentica “volontà” possa parlarsi rispetto ai richiedenti asilo, come puntualmente sottolineano i giudici dissenzienti), allora a ben vedere non vi sarebbe nemmeno bisogno di una base legale per questa tipologia di trattenimenti, come invece espressamente richiede l’art. 5 Cedu alla lett. (f); sia, e più in radice, perché anche dal punto di vista logico il fatto di recarsi volontariamente in un determinato luogo non preclude che la situazione possa successivamente evolvere in una privazione della libertà personale, contro la volontà dell’interessato.
Non, in secondo luogo, la durata della permanenza nella zona di transito: la Corte si limita ad evidenziare che il tempo trascorso non ha ecceduto quello necessario alla valutazione delle domande d’asilo; ma omette di confrontarsi con un proprio noto precedente, sempre in materia di pre-admittance detention, in cui aveva ritenuto applicabile (e violato) l’art. 5 Cedu rispetto a trattenimenti durati la metà dei giorni[7]. D’altra parte, che la durata della limitazione imposta alla libertà di movimento sia un aspetto tendenzialmente secondario nella valutazione in ordine alla sussistenza della privazione della libertà personale è principio consolidato nella giurisprudenza di Strasburgo[8].
Non, in terzo ed ultimo luogo, la circostanza che i richiedenti asilo potessero materialmente allontanarsi dalla zona di transito ritornando in Serbia. La Corte da un lato riduce la questione ad un problema meramente logistico (affermando che i ricorrenti avrebbero potuto allontanarsi a piedi); dall’altro lato respinge l’obiezione secondo cui il timore di conseguenze negative privava i ricorrenti dell’autentica libertà di allontanarsi, limitandosi a rilevare che adottando siffatta impostazione si finirebbe per estendere l’ambito di applicazione dell’art. 5 Cedu oltre il suo significato convenzionale (§243). L’argomento, tuttavia, dà per scontato ciò che vorrebbe invece dimostrare, ossia che il timore di allontanarsi da un certo luogo non costituisca un fattore di cui tenere conto nel valutare se il soggetto è stato privato della libertà personale. Senza contare, nel merito, che la ritenuta “libertà” dei ricorrenti di allontanarsi appare in contraddizione con l’accertamento della violazione dell’art. 3 Cedu in relazione al loro accompagnamento coattivo alla frontiera[9]; conclusione quest’ultima fondata – tra l’altro – sull’argomento che le autorità ungheresi non avevano tenuto in dovuta considerazione il parere dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite in merito ai rischi di refoulement che i ricorrenti avrebbero corso in Serbia (§163). A tale riguardo, il distinguishing sviluppato dalla Corte rispetto al precedente Amuur c. Francia trascura di considerare che, secondo quella pronuncia, la libertà di allontanarsi non può davvero considerarsi tale fintantoché il Paese di destinazione non offra un livello di protezione comparabile a quello dal quale ci si allontana[10].
La sensazione, concludendo sul punto, è che la Grande Camera abbia finito per discostarsi dall’approccio teleologico e dinamico che di regola ispira l’esegesi e l’applicazione della Convenzione: da un lato, infatti, predicare la “libertà” di chi non si allontana da un luogo in ragione del timore per il destino che lo attende (destino a sua volta determinato, giova ricordarlo, anche dalla legge ungherese sulla perdita del diritto all’asilo in caso di allontanamento dalla zona di transito), significa rendere il diritto di cui all’art. 5 – parafrasando la stessa Corte – teorico e illusorio, anziché pratico ed effettivo[11]; dall’altro lato, lasciare che una fetta di realtà così delicata come le zone di transito delle frontiere terrestri possa rimanere esclusa dal diritto in questione, dichiarandone la radicale inapplicabilità ratione materiae, significa in ultima analisi tradire quella natura di strumento vitale, capace di adattarsi alle emergenti esigenze delle società contemporanee, che la Corte da sempre riconosce alla Convenzione[12].
5. D’altra parte, che l’opposta e preferibile conclusione raggiunta dalla Corte di Lussemburgo (e precedentemente dalla Camera della Corte edu) non si fondi su un’esegesi dell’art. 5 Cedu travalicante il significato testuale del concetto di “privazione della libertà personale”, appare indirettamente confermato dagli orientamenti della giurisprudenza penale nostrana in materia di sequestro di persona. È infatti degno di nota che, in un ordinamento dove l’esegesi delle fattispecie incriminatrici è guidata (tra l’altro) dal principio costituzionale di tassatività, l’elemento oggettivo dell’art. 605 c.p. sia pacificamente ritenuto integrato in un ventaglio di situazioni molto più ampio rispetto all’archetipo della costrizione di taluno a rimanere in un luogo chiuso. Anzitutto la Corte di Cassazione ritiene integrata la condotta tipica non solo a fronte di una privazione in senso assoluto della libertà di movimento, bensì in tutte le situazioni in cui la libertà di azione risulta significativamente limitata[13], anche per un breve frangente temporale[14]. In secondo luogo la stessa Corte di legittimità non richiede che la limitazione sia obiettivamente insuperabile, essendo sufficienti attività intimidatorie o l’apprestamento di misure dirette a impedire o scoraggiare l’allontanamento, se non attraverso iniziative imprudenti e pericolose per la propria persona[15]. A tale riguardo, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che è sufficiente “una coazione di tipo psicologico, tale, in relazione alle particolari circostanze del caso, da privare la vittima della capacità di determinarsi ed agire secondo la propria autonoma e indipendente volontà”[16].
L’inquadramento di casi di costrizione psicologica nel paradigma del sequestro di persona offre un argomento spendibile “a fortiori” sul terreno che qui ci occupa. Se infatti nulla osta alla conclusione che le limitazioni imposte alla volontà di autodeterminarsi nella sfera “cinetica” possano essere attratte dall’art. 605 c.p., con conseguente espansione dell’area del penalmente rilevante, allora non si vede per quale ragione analoghe limitazioni non possano essere attratte dall’art. 5 Cedu, i cui “costi” si misurano soltanto in termini di maggiori oneri a carico dello Stato (e non di responsabilità penali individuali).
6. Proprio il riferimento alle conseguenze che una più elastica applicazione dell’art. 5 Cedu nelle zone di transito determinerebbe in capo agli Stati del Consiglio d’Europa, in termini di garanzie da riconoscere allo straniero e dunque anche di dispiegamento delle risorse a tal fine necessarie (di ordine anzitutto logistico, amministrativo e naturalmente economico), offre lo spunto per qualche riflessione conclusiva. In effetti, tra le maglie argomentative delle pronunce esaminate si intravede un diverso approccio delle Corti intervenute rispetto al tema, oggigiorno particolarmente scottante, dell’esercizio dei poteri di polizia alle frontiere esterne dell’Unione.
Mentre infatti la Corte di Lussemburgo si premura di escludere che l’afflusso massiccio di richiedenti protezione internazionale possa giustificare un affievolimento delle garanzie, segnatamente il prolungamento della detenzione alla frontiera oltre i termini previsti dall’art. 43 della direttiva procedure (2013/32/UE)[17]; viceversa la Corte di Strasburgo sottolinea l’importanza di mantenere un approccio “pratico e realista”, che tenga conto delle difficoltà incontrate dagli Stati nel controllare le proprie frontiere e consenta loro di adottare misure di contrasto all’immigrazione irregolare[18].
Il richiamo ad un’indispensabile dose di “realismo” non rappresenta una novità nella giurisprudenza di Strasburgo in materia di controllo dei flussi migratori. Già nel caso Khlaifia e altri c. Italia[19], dopo avere ribadito la natura assoluta della protezione offerta dall’art. 3 Cedu, la Grande Camera aveva nondimeno sottolineato che sarebbe stato “artificioso” da parte sua valutare il caso di specie al di fuori del più ampio contesto nel quale era venuto in essere, e segnatamente senza tenere conto delle estreme difficoltà che le autorità italiane stavano fronteggiando in termini di afflusso di migranti e conseguente sovraffollamento del Centro di soccorso e prima accoglienza di Lampedusa (§185). All’esito di una lunga disamina che in questa sede non è possibile ripercorrere, il collegio aveva rovesciato il verdetto di primo grado, negando che il trattamento subìto dai ricorrenti all’interno del centro lampedusano avesse integrato un trattamento degradante.
Nella stessa occasione, per altro verso, la Corte aveva confermato l’applicabilità dell’art. 5 Cedu “anche nel contesto di crisi migratorie” (§106), come quella all’epoca innescata dalle “Primavere arabe”, e ne aveva ravvisata la violazione alla luce dell’assenza di base legale per i trattenimenti a lampedusa e a bordo delle navi affittate dal Governo, nonché di controllo giurisdizionale sulla loro legittimità. In questa prospettiva, l’odierna sentenza Ilias e Ahmed sembra dunque determinare un ulteriore arretramento delle garanzie convenzionali dinanzi alle esigenze di controllo dei flussi migratori, spingendosi a contaminare con valutazioni improntate al “realismo” perfino un giudizio, quale quello sulla sussistenza o meno di una condizione di privazione di libertà personale, che ontologicamente non ha nulla a che vedere con un bilanciamento di interessi (quest’ultimo potendo tutt’al più venire in rilievo a valle della ritenuta applicabilità dell’art. 5, ad esempio nell’ambito del giudizio sulla proporzionalità della durata del trattenimento[20]). Il risultato è quello di sottrarre ulteriore materia al sindacato sulla compatibilità convenzionale dei controlli di confine, finendo per lasciare “mano libera” alle autorità di frontiera proprio in quelle “zone grigie” dell’ordinamento dove sarebbe invece indispensabile mantenere alto il livello di attenzione.
7. Sullo sfondo di questo virtuale scontro tra le due Grandi Camere, si staglia la diversa portata garantistica oggi conseguentemente offerta, ai confini dell’Unione europea, dall’art. 5 Cedu, da un lato, e dall’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali UE, dall’altro lato. Sebbene infatti la pronuncia della Corte di Lussemburgo si fondi essenzialmente sull’interpretazione del diritto derivato di cui si è dato conto (l’art. 2 della direttiva accoglienza), è chiaro che il dictum aggiunge un importante tassello al più complesso mosaico della “libertà personale” nel contesto eurounitario, come del resto suggerisce l’espresso richiamo incidentalmente operato dalla Corte proprio all’art. 6 CDF (§ 264). Certo, l’assenza nella Convenzione edu di un “trasformatore” come quello racchiuso nell’art. 52 par. 3 CDF (ai sensi del quale, come è noto, la portata dei diritti garanti dalla Carta è uguale a quella dei diritti eventualmente corrispondenti previsti dalla Convenzione edu), impedisce una penetrazione per così dire diretta del più favorevole dictum della Corte di Lussemburgo nel diritto di Strasburgo. Ciò tuttavia non preclude che, come già accaduto in note vicende passate, la Corte edu possa chiamare in gioco i diritti fondamentali di fonte UE come “stampella” argomentativa per incrementare il livello delle garanzie convenzionali (si pensi al caso Scoppola, dove l’ingresso del principio di retroattività favorevole nel diritto di Strasburgo è stato motivato anche alla luce della sua espressa previsione da parte dell’art. 49 CDF[21]).
L'esito della vicenda della zona di transito ungherese - ossia, come anticipato nell'incipit del presente commento, la liberazione di oltre 300 persone e l'annuncio della chiusura del centro di detenzione a seguito della pronuncia della Corte di GIustizia - dimostra il ruolo essenziale che le giurisdizioni sovranazionali possono svolgere, se correttamente interpellate, nella tutela dei diritti fondamentali attualmente più fragiili. Si tratta di un precedente importante, suscettibile di venire in rilievo, in un prossimo futuro, anche nel contesto delle ulteriori situazioni di limbo giuridico di cui sono punteggiati gli Stati europei, inclusa l'Italia: si pensi ai centri hotspot, alle navi soccorritrici alle quali viene negato lo sbarco e, da ultimo, alle imbarcazioni destinate alle "quarantene galleggianti". Tutte situazioni nelle quali gli stranieri subiscono, con diverse intensità, la sospensione di una o più delle garanzie fondamentali che, come cittadini europei, siamo abituati a dare per scontate, a cominciare dall'habeas corpus. Il cammino verso il ristabilimento della pienezza dello Stato di diritto anche nelle frontiere più remote è dunque appena cominciato; l'auspicio è che la sentenza di Lussemburgo possa costituire un valido incoraggiamento, per tutte le giurisdizioni coinvolte, ad accantonare la strada in discesa del "realismo" ed imboccare quella in salita delle garanzie, certamente più difficile da percorrere ma, in ultima analisi, l'unica davvero compatibile con lo spirito delle carte fondamentali che costituiscono uno dei fiori all'occhiello dell'Europa contemporanea.
[1] Per alcune recenti applicazioni dell'approccio in parola al contesto italiano, cfr. G.L. Gatta, La pena nell'era della 'crimmigration': tra Europa e Stati Uniti, in F. Basile, G.L. Gatta, C.E. Paliero (a cura di), La pena, ancora: fra attualità e tradizione: studi in onore di Emilio Dolcini, Giuffrè, 2018, 987-1037; L. Masera, La Crimmigration nel Decreto Salvini, in La legislazione penale, 24.7.2019.
[2] C. eur. dir. uomo, sez. IV, 14 marzo 2017, Ilias e Ahmed c. Ungheria, §§48-77. Quanto alle ulteriori doglianze dei ricorrenti, la Camera aveva riconosciuto la violazione dell’art. 3 in relazione all’espulsione verso la Serbia e quella dell’art. 13 in relazione all’assenza di vie di ricorso interne per lamentare la violazione dell’art. 3 Cedu; aveva invece negato la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti in relazione alle condizioni materiali del trattenimento nella zona di transito.
[3] Si osserva per inciso che, nel rigettare le doglianze sub art. 3 Cedu relative alle condizioni di vita all’interno del compound, entrambe le pronunce menzionano un rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura che, a seguito di una visita condotta pochi giorni dopo l’espulsione dei ricorrenti, aveva invece espresso un giudizio nel complesso positivo: cfr. Grande Camera, §189.
[5] Nella versione francese della pronuncia (attualmente l’unica disponibile accanto a quella ungherese) la questione è così formulata: “si l’article 2, sous h), de la directive 2013/33 et l’article 16 de la directive 2008/115 doivent être interprétés en ce sens que l’obligation pour un ressortissant d’un pays tiers de demeurer, en permanence, dans une zone de transit, située à la frontière extérieure d’un État membre qu’il ne peut légalement quitter volontairement, en quelque direction que ce soit, est constitutive d’une «rétention», au sens de ces directives” (§215).
[6] La pronuncia è stata oggetto di critiche da parte dei primi commentatori: cfr. V. Stoyanova, The Grand Chamber Judgment in Ilias and Ahmed v Hungary: Immigration Detention and how the Ground beneath our Feet Continues to Erode, 23 dicembre 2019, www.strasbourgobservers.com; F.L. Gatta, Diritti al confine e il confine dei diritti: La Corte Edu si esprime sulle politiche di controllo frontaliero dell’Ungheria (Parte II – Detenzione e Art. 5 CEDU), ADiM Blog, Osservatorio della Giurisprudenza, gennaio 2020; S. Penasa, Paese terzo sicuro e restrizione della libertà delle persone richiedenti asilo: il caso Ilias e Ahmed c. Ungheria, in Quaderni Costituzionali, n. 1/2020, p. 180 ss.
[7] C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri c. Italia, §70: i ricorrenti, tre migranti provenienti dalla Tunisia, erano stati trattenuti nel Centro di soccorso e prima accoglienza di Lampedusa e poi a bordo di navi attraccate a Palermo per un periodo compreso tra nove e dodici giorni.
[8] Cfr. i precedenti in cui la Corte, tenuto conto di tutti gli elementi concreti (inclusa la coercizione subita dai ricorrenti) ha ravvisato privazioni della libertà personale anche a fronte di trattenimenti durati poche ore o minuti: C. eur. dir. uomo, Sez. V, 20 febbraio 2020, Zelčs c. Lituania, §40; Sez. I, 7 gennaio 2010, Rantsev c. Cipro e Russia, §317; nonché gli ulteriori casi ivi citati.
[9] Il profilo è puntualmente messo in luce da F.L. Gatta, Diritti al confine e il confine dei diritti, cit.
[10] Si riporta il passaggio rilevante: “The mere fact that it is possible for asylum-seekers to leave voluntarily the country where they wish to take refuge cannot exclude a restriction on liberty (…) this possibility becomes theoretical if no other country offering protection comparable to the protection they expect to find in the country where they are seeking asylum is inclined or prepared to take them in” (§48).
[11] Esprime dubbi in merito alla possibilità di predicare una scelta effettivamente "libera" in capo ai ricorrenti anche S. Penasa, Paese terzo sicuro e restrizione della libertà, cit., p. 182. A proposito della necessità di tenere conto della sostanziale costrizione psicologica subita dai ricorrenti la Camera aveva affermato: “to hold otherwise would void the protection afforded by Article 5 of the Convention by compelling the applicants to choose between liberty and the pursuit of a procedure ultimately aimed to shelter them from the risk of exposure to treatment in breach of Article 3 of the Convention” (§56).
[12] Sin dal risalente caso caso Tyrer c. Regno Unito, 25 aprile 1978, la Corte definisce la Convenzione “a living instrument which must be interpreted in the light of present-day conditions” (§ 31).
[13] Cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. VI, 30 maggio 2019, n. 39807, CED 277367 (relativa al sequestro di un minore al quale era consentito di uscire dall’abitazione in cui era custodito).
[14] Cfr. Cass. pen., sez. V, 17 aprile 2013, n. 19548, CED 256746 (relativa ad un sequestro a bordo di un’automobile durato pochi minuti).
[15] Cass. pen., sez. II, 10 gennaio 2019, n. 11634, CED 276058.
[16] Cass. pen., sez. I, 21 febbraio 2017, n. 46566, CED 271229; nello stesso senso, Cass. pen., sez. II, 1 ottobre 2010, n. 38994, CED 248537 (fattispecie quest’ultima in cui la vittima non fuggiva dall’abitazione nella quale era segregata, pur potendo materialmente farlo, in ragione delle minacce ricevute).
[17] Cfr. §246: “l’article 43, paragraphe 3, de la directive 2013/32 n’habilite pas un État membre à placer en rétention les demandeurs de protection internationale à ses frontières ou dans l’une de ses zones de transit au-delà du délai de quatre semaines, mentionné au point 241 du présent arrêt, même lorsqu’un afflux massif de demandeurs de protection internationale rend impossible l’application des procédures visées à l’article 43, paragraphe 1, de cette directive dans un tel délai”.
[18] Cfr. § 213: “The Court considers that in drawing the distinction between a restriction on liberty of movement and deprivation of liberty in the context of the situation of asylum seekers, its approach should be practical and realistic, having regard to the present-day conditions and challenges. It is important in particular to recognise the States’ right, subject to their international obligations, to control their borders and to take measures against foreigners circumventing restrictions on immigration”.
[20] Cfr. C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 29 gennaio 2008, Saadi c. Regno Unito, §79, in cui la Corte ha ritenuto che il trattenimento per sette giorni del ricorrente nella zona di transito dell’aeroporto di Heathrow non avesse ecceduto il tempo ragionevolmente richiesto per trattare la sua domanda di asilo. Per ulteriori considerazioni critiche in ordine alle sovrapposizioni di piani che si osservano nella pronuncia in commento, con riguardo alla valorizzazione di rimedi procedurali per negare la sussistenza stessa della privazione della libertà, cfr. V. Stoyanova, The Grand Chamber Judgment in Ilias and Ahmed v Hungary, cit.