ISSN 2704-8098
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  Scheda  
13 Gennaio 2020


La sicurezza sul lavoro ai tempi dell’Ilva, atto secondo: il Riesame di Taranto concede la proroga di utilizzo dell’Altoforno

Tribunale di Taranto, I sez. penale, Ord. 7 gennaio 2020, Pres. Licci, Est. Caroli



1. Pubblichiamo l’ordinanza del Tribunale del riesame di Taranto che il 7 gennaio 2020 ha accolto l’appello presentato dai legali della società Ilva in amministrazione straordinaria avverso la pronuncia con la quale, lo scorso dicembre, il giudice monocratico aveva respinto l’istanza di proroga della facoltà d’uso dell’altoforno n. 2, sequestrato nell’ambito di un procedimento per omicidio colposo e omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro attualmente pendente in fase dibattimentale. Per effetto del provvedimento in esame gli amministratori avranno a disposizione ulteriori 14 mesi (decorrenti dal 19.11.2019) per installare le misure di sicurezza prescritte nel 2015 dalla Procura di Taranto conngiuntamente alla concessione della facoltà d’uso ex art. 85 disp. att. c.p.p.; misure finalizzate ad automatizzare mansioni pericolose che tuttora vengono svolte manualmente dagli operai. Nel dettaglio, il Riesame ha concesso «9 mesi per l’attivazione del caricatore automatico della massa a tappare nella Mat; 10 mesi per l’attivazione del campionatore automatico della ghisa; 14 mesi per l’attivazione del caricatore delle aste della Maf e sostituzione della Maf».

 

2. Questa Rivista ha già dato conto delle motivazioni che avevano indotto il primo giudice interrogato a negare il proprio consenso alla proroga della facoltà d'uso (sul punto sia consentito rinviare a S. Zirulia, La sicurezza sul lavoro ai tempi dell’Ilva: il Tribunale di Taranto respinge la richiesta di prorogare la facoltà d’uso dell’altoforno, 23.12.2019); nonché del più ampio contesto all’interno di quale si colloca il “filone sicurezza sul lavoro” del complesso affaire relativo all’acciaieria ionica (cfr. S. Zirulia, La (perenne) crisi dell’Ilva e il c.d. scudo penale: tra reati ambientali e sicurezza sul lavoro, 18.11.2019).

Rinviando a tali contributi per ulteriori dettagli, di seguito verranno sinteticamente illustrate le motivazioni poste dal Riesame alla base della decisione di riformare la decisione di segno contrario resa dal giudice di prime cure.

 

3. Anzitutto, secondo il collegio, il primo giudice non ha tenuto conto che il termine concesso ad Ilva fino al momento della richiesta di proroga è stato sfruttato per adempiere almeno in parte le prescrizioni impartite dalla Procura nel 2015, portando a compimento la prescrizione n. 1, ossia la valutazione del rischio, e almeno parzialmente la prescrizione n. 5, relativa all’aggiornamento delle pratiche operative. Inoltre, ad avviso del collegio sussistono ulteriori elementi che dimostrano «la fattiva e concreta volontà di Ilva […] di adempiere nel più breve tempo possibile alle prescrizioni residue»: in particolare, gli amministratori straordinari hanno commissionato e ordinato la realizzazione delle opere necessarie alla completa automazione delle operazioni del foro di colata alla società Paul Wurth s.p.a., pagando circa un terzo del relativo costo.

 

4. Il cuore del provvedimento di Riesame è peraltro costituito dal passaggio in cui il collegio rimprovera al giudice di prime cure di avere sopravvalutato il rischio connesso alla perdurante marcia dell’altoforno n. 2.

Osserva al riguardo il Riesame che «i consulenti RMS di Ilva hanno quantificato in 6 eventi x10-4 anni (si legga “sei per dieci alla meno quattro”, ossia 6 eventi in 10.000 anni) il rischio che, in presenza di un operatore, si verifichi nell’altoforno n. 2 una fiammata analoga a quella che uccise Alessandro Morricella». L’ordinanza soggiunge, poi, che il custode giudiziario dell’altoforno «invece ha stimato in 6 x10-3 (ossia 6 eventi in 1.000 anni) l’analogo rischio». Anche adottando questa seconda e più pessimistica previsione – prosegue l’ordinanza – «i dati appena illustrati consentono dunque di porre idealmente sul piatto della bilancia questa prima cifra (rischio pari a 0,0006 nel prossimo anno), sull’altro invece il danno derivante con certezza per Ilva s.p.a. dall’anticipazione del fine vita dell’altoforno (al gennaio 2020 anziché a fine 2023), cui sommare gli ulteriori danni della perdita di quote di mercato e delle ampie ricadute occupazionali». Ecco allora – conclude il collegio – che «il bilanciamento in esame può dunque risolversi, allo stato degli atti, in termini favorevoli all’accoglimento dell’istanza di proroga della facoltà d'uso dell’altoforno n. 2».

A supporto di tale conclusione vengono altresì richiamate le sentenze della Corte Costituzionale sui decreti salva-Ilva (sent. n. 85 del 2013 e n. 58 del 2018), dalle quali il collegio ricava ulteriori indicazioni per procedere alla formulazione del bilanciamento di interessi in questione: non rimettere alla stessa Ilva le scelte in ordine alla definizione delle opere necessarie alla messa in sicurezza (requisito nelle specie soddisfatto, trattandosi delle misure prescritte nel 2015 dalla Procura); imporre la tempestività dell’adempimento (concedendo soltanto i tempi «strettamente necessari» all'installazione delle opere); definire con precisione quali misure debbano essere adottate (nel caso di specie, «l’automazione delle operazioni del campo di colata»).

 

5. Infine, rispetto all’argomento del giudice di prime cure secondo cui ulteriori concessioni dovevano considerarsi inammissibili anche in ragione dei colpevoli ritardi di Ilva nell’adottare le prescrizioni della Procura (ritardi riconosciuti anche dal Riesame in occasione della concessione della precedente proroga), il collegio osserva perentoriamente che «i rischi trascorsi sono inesistenti e non devono pesare sull’attuale giudizio di bilanciamento».

La visuale retrospettiva risulterebbe inoltre «incompleta poiché, mentre pone l’accento sui rischi per i lavoratori già tollerati, non considera che dal 2015 ad oggi – senza che sia accaduto alcun infortunio – è stata consentita la produzione di un ente che ex d.l. n. 207 del 2012 è “di importanza strategica nazionale”». Ancora, negare la proroga sortirebbe «l’effetto paradossale di dichiarare lo spegnimento di quello tra i tre altoforni attivi che ha subìto il più intenso processo di messa in sicurezza e di vanificare – proprio a ridosso del raggiungimento del risultato – l’impegno per la messa in sicurezza sinora profuso da Ilva in a.s.».  

Secondo il Riesame, in definitiva, «l’unica visuale consentita al giudice della cautela è il margine di rischio futuro, connesso all’eventuale accoglimento dell’istanza». La circostanza che i precedenti termini non siano stati rispettati non può essere inquadrata in quella che l’ordinanza definisce «una logica decadenziale», ossia «come se dall’ordinamento normativo potesse arguirsi un limite – precostituito in astratto – alla facoltà d’uso ex art. 85 disp. att. c.p.p., oltre al quale necessariamente nulla potrebbe concedersi». Ciò in quanto «il limite esiste ma deve essere ricercato nell’analisi del caso concreto, dunque aggiornando il giudizio alla documentata progressiva riduzione del rischio ed all’altrettanto documentata irriducibile tempistica dell’automazione delle operazioni inerenti il foro di colata». Alla luce di tali ragioni l’ordinanza concede la proroga richiesta, prescrivendo il rispetto delle tempistiche già ricordate nell’incipit della presente scheda.

 

* * *

 

6. Chi scrive aveva già avuto occasione di esprimere le proprie considerazioni adesive rispetto alla posizione espressa dall’ordinanza del giudice monocratico che aveva inizialmente respinto l’istanza di proroga di utilizzo dell’altoforno (cfr. S. Zirulia, La sicurezza sul lavoro ai tempi dell’Ilva, cit.); considerazioni alle quali qui si intende rinviare in chiave critica rispetto alla divergente posizione espressa dal Tribunale del riesame.

Gli argomenti formulati dai giudici d’appello nel provvedimento qui in esame stimolano peraltro alcune ulteriori riflessioni. Tralasciando, per motivi di spazio, alcune possibili criticità nei passaggi relativi alla valutazione del rischio (dove, a ben vedere, il collegio omette di confrontarsi funditus con il diverso approccio di tipo qualitativo – anziché matematico-quantitativo – adottato dal giudice di prime cure[1]), nel prosieguo ci si soffermerà, ancorché brevemente, sul problematico ruolo assunto dalla magistratura tarantina (da ultimo attraverso il provvedimento in esame) nella ricostruzione (o forse dovremmo dire nella definizione) dei margini di rischio che l’ordinamento è disposto a tollerare in nome di esigenze produttive di carattere strategico. Anzi, forse è proprio questo ordine di riflessioni, che pure in questa sede ci si può soltanto limitare ad abbozzare, il lascito più significativo (e per certi aspetti preoccupante) della tormentata vicenda che ruota attorno alla facoltà d’uso dell’altoforno sequestrato nell’ormai lontano 2015 e che nondimeno ha continuato a marciare fino ad oggi.

Come è noto, il tema del rischio consentito attraversa fin dalle origini l’intera vicenda giudiziaria dell’Ilva di Taranto: il delicato bilanciamento tra il diritto alla salute di lavoratori e residenti, da un lato, e le esigenze produttive ed occupazionali, dall’altro lato, ha prodotto a partire dal 2012 (quando cioè l’acciaieria è stata posta sotto sequestro preventivo nell’ambito del “filone ambientale”) una fitta legislazione “salva-Ilva”, il cui fil rouge è rappresentato dal tentativo dei Governi che via via si sono succeduti di cristallizzare ex lege punti di equilibrio provvisori, volti a garantire continuità all’esercizio dell’attività industriale, scandendo al contempo una tabella di marcia (non priva di criticità, specie in punto di mancato rispetto delle relative tempistiche) protesa verso il risanamento ambientale.

La vicenda dell’altoforno ha, per certi aspetti, finito per rovesciare questo rapporto tra Governo e potere giudiziario. Il primo, dopo la sentenza della Consulta che nel 2018 ha bocciato la legislazione “salva-Ilva” in materia di sicurezza sul lavoro (sent. n. 58 del 2018), sembra avere rinunciato in tale settore al modus operandi della decretazione provvisoria (che invece tuttora garantisce la continuità della produzione sterilizzando il sequestro preventivo disposto per i reati ambientali). La magistratura, dal canto suo, concedendo una facoltà d’uso dell'altoforno che ormai si protrae “provvisoriamente” dal 2015, ha finito per farsi carico della definizione del quantum di rischio tollerabile per gli adetti a determinate mansioni dell'area a caldo.

È vero che l’art. 85 disp. att. c.p.p. affida proprio alla giurisdizione il delicato compito di valutare l’an della restituzione della res sequestrata, nonché di prescrivere tempi e modalità della riduzione del periculum in mora ad essa connesso; ma – si badi – tale facoltà trova nella stessa disposizione codicistica un preciso limite, nel senso che laddove le prescrizioni non siano portate a termine entro i tempi previsti, la procedura restitutoria non può considerarsi perfezionata e gli effetti ablatori del sequestro devono logicamente riespandersi. Ciò non preclude, in linea di principio, che vengano concesse delle proroghe per portare a compimento le prescrizioni; ma al contempo è evidente che i tempi supplementari non possano allungarsi sine die, o comunque per una durata macroscopicamente superiore a quanto originariamente concesso, poiché ciò finirebbe per contraddire la ratio stessa dell’istituto, intimamente allacciata alla sua provvisorietà. Rispetto al caso di specie, anche ammettendo (come rilevato dal Riesame) che le tempistiche dettate dalla Procura nel 2015 non si riferissero all’effettiva realizzazione delle opere di automazione bensì soltanto alla loro progettazione, nessuno ha mai ipotizzato tempistiche di realizzazione anche solo avvicinabili agli oltre quattro anni ormai trascorsi ed ai più di cinque che trascorreranno per effetto della proroga da ultimo concessa.

Proprio qui si rinviene, ad avviso di chi scrive, il principale punto debole dell’ordinanza in commento, rappresentato dal passaggio in cui essa cancella espressamente la rilevanza del rischio trascorso, definendolo “inesistente”: un’affermazione forse scontata dal punto di vista fenomenologico (un rischio che non si concretizza è come se non fosse mai esistito), ma assai problematica sotto il profilo giuridico, nella misura in cui non tiene conto del fatto che – come poc’anzi ricordato – l’inutile trascorrere del tempo, senza cioè che le prescrizione impartite vengano completamente attuate, non può non accompagnarsi – prima o poi – alla revoca del beneficio. L’impressione, in altre parole, è che soltanto espungendo il fattore temporale dal giudizio di bilanciamento il Riesame abbia potuto ritenere che la concessione dell’ennesima proroga corrispondesse ad un nuovo punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze. Così facendo, tuttavia, il collegio si è sganciato dai binari dell’art. 85 disp. att. c.p.p e si è allontanato dal paradigma della discrezionalità tecnica, ancorata a sicuri riferimenti normativi, proprio della giurisdizione in senso stretto; per avventurarsi su sentieri ontologicamente più vicini a quei contemperamenti costi-benefici spettanti al legislatore (e che in effetti in più occasioni il governo ha effettuato attraverso la decretazione d’urgenza “salva-Ilva”). Ancora una volta, dunque, le vicende dell’Ilva lasciano le proprie tracce sull’accidentato terreno dove il diritto penale incontra il principio di separazione dei poteri, suscitando interrogativi destinati, per ora, a rimanere senza risposta: per quanto tempo ancora si potrà prorogare l’esercizio di lavorazioni oggettivamente insicure? Può esistere un’area di rischio “consentito in via giudiziaria”? E soprattutto: chi dovrebbe rispondere di eventuali incidenti che malauguratamente dovessero verificarsi nelle more dell’adeguamento, eventi dei quali tutto si potrà dire fuorché che non fossero prevedibili in concreto?

 

[1] Si rinvia, per tale diversa impostazione, alle pp. 8-15 del provvedimento riformato.