C. Ass. Massa, sent. 27 luglio 2020 (dep. 2 settembre 2020), Pres. est. De Mattia, imp. Cappato e Schett
1. Il deposito delle motivazioni della Corte d’assise di Massa nel caso Trentini, a seguito della pronuncia di assoluzione già oggetto di commento in questa Rivista[1], suscita interesse non tanto quale esempio – del tutto lineare – di applicazione dei principi sanciti dalla Corte costituzionale a fatti precedenti la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 580 c.p., quanto perché consente di osservare una prima elaborazione da parte della giurisprudenza ordinaria in merito ai confini di liceità dell’aiuto al suicidio – questione ben più delicata e destinata a rilevare anche per fatti futuri.
2. È un dato comunemente riconosciuto che la Corte costituzionale abbia tracciato l’area di “non punibilità” delle condotte di agevolazione del suicidio altrui facendo astrazione di alcune circostanze fattuali salienti della vicenda concreta – il caso Antoniani – da cui era originato il giudizio a quo[2].
Questo rapporto di derivazione, emerso già nell’ordinanza 207/2018 e confermato dalla sentenza 242/2019, si coglie in particolare nell’insieme dei requisiti che descrivono la condizione del paziente che è lecito aiutare a darsi la morte.
Fin da subito l’assetto risultante ha destato perplessità tra i commentatori, che hanno messo in luce la difficoltà, se non l’impossibilità, di ravvisare gli estremi di tutti tali requisiti in altre situazioni che pure, sul piano sostanziale, sembrano assimilabili ai casi prefigurati dalla Corte e quindi meritevoli di analoga considerazione favorevole. Da questo punto di vista, i rilievi critici hanno investito principalmente il requisito di cui alla lett. c), secondo l’elencazione di cui all’ord. 207, ossia l’essere il paziente sottoposto a trattamenti di sostegno vitale[3].
Si comprende quindi perché, dopo la decisione della Consulta e la quasi consequenziale sentenza di assoluzione nel procedimento instaurato a Milano per la morte di Antoniani, l’attenzione si sia presto rivolta alla Corte d’assise di Massa, dove lo stesso Marco Cappato e Mina Welby erano imputati ex art. 580 c.p. per aver rafforzato e agevolato l’esecuzione del proposito suicidario di Davide Trentini – malato irreversibile straziato da dolori intollerabili, il quale però, a differenza di DjFabo, non era dipendente da un respiratore artificiale o da altri macchinari, cosicché, secondo una opinione diffusa, non avrebbe appunto soddisfatto il requisito di cui alla lett. c)[4].
A conclusioni diverse da quelle attese giunge ora la Corte d’assise, ritenendo sussistente anche in questo caso la nuova ipotesi di non punibilità: al centro delle motivazioni, una interpretazione estensiva o, alternativamente, analogica (sono prospettate entrambe le soluzioni) della “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale”.
3. La vicenda di Davide Trentini, come accennato, sotto vari aspetti è tristemente simile a quella, più nota, che ha coinvolto Fabiano Antoniani.
Se quest’ultimo era rimasto tetraplegico e cieco a seguito di un incidente stradale, Trentini era invece affetto da sclerosi multipla. La malattia, diagnosticata nel 1993, gli aveva inizialmente consentito di lavorare e coltivare una relazione; dopo alcuni anni, tuttavia, i medici e i familiari non avevano potuto che constatare un’evoluzione nel decorso (non più “remittente recidivante” ma “secondariamente progressivo”), segnato da un grave peggioramento, con difficoltà nella deambulazione e cadute, fino alla perdita della capacità di equilibrio e di movimento autonomo nelle attività più elementari (alzarsi dal letto, mangiare, usare il bagno). Quando i numerosi farmaci assunti si erano rivelati inefficaci per tenere sotto controllo il progredire della malattia, con l’aiuto di un medico specialista della terapia del dolore la cura era stata convertita e incentrata sul contenimento dei sintomi dolorosi, attraverso la somministrazione prima di cannabinoidi e poi, in aggiunta, di un oppioide (il Fentanil) molto più potente della morfina. Raggiunto il dosaggio massimo tollerabile, tuttavia, Trentini aveva continuato a lamentare dolore acuto, chiedendo insistentemente “qualcosa di più forte”.
Intorno al 2015, dunque, il paziente versava in una condizione di paralisi muscolare pressoché totale, scosso soltanto da spasmi dolorosi diffusi e incoercibili. In questo periodo, secondo le convergenti testimonianze della madre, della sorella e dell’ex fidanzata, Trentini aveva iniziato a pensare al suicidio, ritenendolo l’unica via per liberarsi dalle sofferenze fisiche patite. Dapprima aveva preso in considerazione la possibilità di gettarsi dalla finestra, per poi abbandonare l’idea a causa della difficoltà di movimento e per il timore, abitando al secondo piano, di non morire nell’impatto (“perché” – si sarebbe anche chiesto – “dovrei infliggermi una morte così terrificante?”). Su internet aveva quindi scoperto autonomamente la possibilità di accedere a una procedura di suicidio assistito in Svizzera.
Poiché i primi contatti con alcune strutture si erano rivelati infruttuosi per ragioni logistiche, nell’estate del 2016 Trentini aveva chiesto supporto all’associazione di Marco Cappato e Wilhelmine Schett (nota anche come Mina Welby). Nonostante i ripetuti tentativi di dissuaderlo, da parte di questi ultimi e dei parenti, egli era stato irremovibile. Preso atto della sua volontà, Cappato aveva avviato una campagna su internet per raccogliere parte del denaro necessario, mentre Schett, parlando il tedesco, lo aveva aiutato a riprendere i contatti con una delle cliniche da lui stesso già individuate e a completare in tempi rapidi gli adempimenti burocratici. Il 12 aprile 2017, accompagnato da Schett a bordo di un’ambulanza, nascondendo ai volontari la reale finalità del viaggio, Trentini aveva raggiunto la clinica. Qui si era svolta la procedura prevista dalla legge elvetica, interamente filmata: due colloqui con i medici, uno il giorno dell’arrivo e uno il giorno successivo, quando, dopo una rinnovata manifestazione di volontà, Trentini – incapace di tenere in mano anche un bicchiere – tramite un congegno meccanico aveva innescato l’iniezione letale.
4. Per questi fatti Cappato e Schett erano chiamati a rispondere, in concorso tra loro, delle due fattispecie previste dall’art. 580 c.p.: il rafforzamento dell’altrui proposito suicidario e l’agevolazione della sua esecuzione.
Per quanto riguarda la condotta istigatoria, la Corte d’assise, similmente a quanto verificatosi nel caso Antoniani, ha buon gioco nell’escludere la sussistenza del fatto.
Le prove testimoniali (deposizioni della madre, della sorella e dell’ex fidanzata) convergono nel descrivere la decisione come risultato di un processo deliberativo libero e autonomo in tutte le sue fasi: il proposito era sorto da una riflessione spontanea ed era stato coltivato senza condizionamenti esterni (anzi, nonostante i numerosi tentativi di indurlo a desistere), tanto che la volontà poteva dirsi formata pienamente già prima che Trentini si rivolgesse ai due imputati, come questi avevano potuto constatare prima nelle comunicazioni a distanza poi con incontri di persona, in cui peraltro si erano spesi nel tentativo di fargli cambiare idea. Anche le modalità esecutive erano il frutto di una riflessione propria del solo Trentini, che addirittura aveva già individuato la clinica in cui poi sarebbe avvenuto il decesso, avvalendosi dell’apporto di Cappato e Schett solo per superare alcune difficoltà organizzative e per velocizzare la procedura.
5. Queste ragioni inducono invece a ritenere integrata, altrettanto pacificamente, la fattispecie di agevolazione materiale. La Corte d’assise non dedica particolare attenzione a questo profilo, in effetti incontroverso nel caso di specie: tuttavia, con specifico riferimento alla condotta di Cappato, che sembra qui aver svolto un ruolo secondario, può desumersi dalle motivazioni che sia stata implicitamente accolta la tesi che – facendo leva sul dato testuale dell’art. 580 – attribuisce rilievo a qualsiasi contributo dotato di efficacia causale rispetto all’evento morte, anche se posto in essere in un momento non strettamente contiguo all’esecuzione del suicidio (in linea dunque con la lettura data in passato dalla Cassazione[5] e più di recente dalla Corte d’assise di Milano nel caso Antoniani[6], contro l’interpretazione restrittiva emersa talora nella giurisprudenza di merito[7]).
L’assoluzione dipende allora dalla possibilità di ritenere sussistente l’ipotesi di “non punibilità” introdotta dalla sent. 242/2019, che la Corte d’assise qualifica come causa di giustificazione (senza ulteriori precisazioni).
6. Trattandosi di un fatto anteriore alla declaratoria di illegittimità, nella cui commissione è stato impossibile rispettare la procedura ora richiesta dalla Corte costituzionale, la prima questione – come detto, non problematica – consiste nella verifica del rispetto di “garanzie sostanzialmente equivalenti” a quelle offerte dagli artt. 1 e 2 della l. 219/17.
La scansione del giudizio ora svolto dai giudici è in tutto simile a quella già seguita dalla Corte d’assise di Milano, e ricalca le indicazioni fornite in motivazione dalla sent. 242 (§ 7 del “considerato in diritto”). Ferma la necessità che ricorrano i requisiti sostanziali di cui alle lettere a)-d) di cui all’ord. 207, deve accertarsi, in sintesi: i) che tali requisiti siano state oggetto di accertamento medico; ii) che l’interessato abbia manifestato una volontà univoca; iii) che questi abbia ricevuto adeguata informazione sul proprio stato di salute e sulle soluzioni alternative disponibili.
Pressoché tutte queste condizioni sono evidentemente soddisfatte nel caso in esame.
i) Per quando riguarda le condizioni del paziente, i certificati medici, rilasciati anche da un struttura ospedaliera pubblica, attestano, direttamente o indirettamente, che Trentini era affetto da malattia irreversibile (requisito sub a), tale essendo la prognosi associata alla sclerosi multipla; che pativa una sofferenza fisica intollerabile (requisito sub b), resa palese dalla prescrizione di antidolorifici sempre più potenti eppure progressivamente inadeguati, nonché dalle reazioni del paziente, “ridotto a un punto che se ti copri col lenzuolo senti dolore” (nelle parole di un medico) e alla ricerca costante di analgesici; che conservava la capacità di compiere decisioni libere e consapevoli (requisito sub d), circostanza in effetti compatibile con la malattia da cui era affetto, rivelata in positivo dalla razionalità con cui aveva gestito la fase terminale della sua esistenza e presumibilmente accertata dai medici in occasione dei colloqui (peraltro filmati) presso la clinica svizzera. Esamineremo nel prossimo paragrafo il – decisivo – requisito sub c).
ii) La fermezza e la serietà dell’intento suicidario emergono da tutte le risultanze istruttorie: dalle ripetute, financo insistenti manifestazioni del desiderio di uccidersi, ribadito anche negli attimi precedenti il suicidio, alla resistenza a ogni tentativo esterno di dissuasione, dalla programmazione ponderata delle modalità di morte alla manifestazione di apprezzamento e quasi di invidia per la sorte di DjFabo, una volta appreso del suo decesso in Svizzera nel febbraio 2017 (“beato lui, lui ce l’ha fatta” ricorda di avergli sentito dire la madre).
iii) Parimenti innegabile la piena informazione sulle caratteristiche della patologia (ben descritte nei certificati medici di volta in volta rilasciati in cui si comunicano al paziente diagnosi e prognosi, e confermate dai vari medici consultati dallo stesso), sulle cure in atto e sulla loro natura palliativa, nonché sulle strade alternative alla procedura di suicidio assistito – che nel caso di specie consistevano nella prosecuzione della terapia del dolore, la quale però aveva già raggiunto il livello massimo tollerabile senza che ne seguisse un arresto respiratorio. In verità, dalle motivazioni non risulta che a Trentini fosse stata proposta la sedazione palliativa profonda, ma può comunque notarsi che nel corso dell’esame l’imputata Schett ha riferito di come in Svizzera i medici avessero proposto a Trentini “un aiuto diverso sul piano della terapia del dolore”, vedendosi però opporre un netto rifiuto.
7. La questione più rilevante, si è detto, ruota intorno al requisito sub c), cioè l’essere il paziente sottoposto a trattamenti di sostegno vitale.
Si è pure visto che Trentini, a differenza di Antoniani, non era dipendente da macchine che ne sostenessero le funzioni vitali (in particolare, la ventilazione), né si alimentava per via parenterale.
Ciò però non equivale – afferma la Corte d’assise nel cuore delle motivazioni (p. 30-31) – a una carenza del requisito in esame. Sarebbe infatti errato interpretare la regula iuris formulata dalla Corte costituzionale alla luce della vicenda concreta in cui ha trovato origine e prima applicazione. Il vero punto di riferimento, alla base della declaratoria di illegittimità dell’art. 580 c.p. (sono citati due capoversi del § 8 dell’ord. 207/2018), è piuttosto la disciplina di cui alla l. 219/17, nella parte in cui riconosce al paziente il diritto di rifiutare e interrompere qualsiasi “trattamento sanitario”. Secondo la Corte d’assise, tale locuzione, di portata generale, è idonea a ricomprendere ogni intervento «realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici» (oltre a nutrizione e idratazione artificiali, per espressa previsione normativa).
La conseguenza, ai fini dell’interpretazione del requisito sub c), è che «la dipendenza da “trattamenti di sostegno vitale” non significa necessariamente ed esclusivamente “dipendenza da una macchina”»: possono anzi venire in rilievo tutti i trattamenti sanitari – come appena definiti – «interrompendo i quali si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida».
8. A questo punto, nell’accertamento in fatto del requisito considerato assume un peso significativo, se non dirimente, la testimonianza del consulente tecnico della difesa, il dottor Riccio, che ha fornito alcune informazioni aggiuntive rispetto a quanto già dichiarato dalla madre di Trentini in occasione di precedenti deposizioni (senza che ciò infici la sua attendibilità, ritiene la Corte d’assise).
L’apporto conoscitivo specialistico del dottor Riccio ha infatti permesso di evidenziare una duplice forma di dipendenza di Trentini, nel senso sopra chiarito.
Vi era in primo luogo una dipendenza dai farmaci: la stabilità del paziente si reggeva infatti su un delicato equilibrio nel loro dosaggio, non solo di quelli antidolorifici (la cui riduzione, facendo aumentare gli spasmi, avrebbe peggiorato la funzione respiratoria), ma anche di quelli antipertensivi (senza i quali si sarebbe prodotto uno scompenso cardiaco).
Una seconda dipendenza – che in effetti, a differenza della precedente, non troverebbe riscontro diretto in altre deposizioni – era riconducibile alla compromissione della funzione della defecazione nel corso dell’ultimo anno di vita del paziente: poiché la progressiva paralisi della muscolatura (anche intestinale) aveva causato una stipsi cronica, si erano resi necessari interventi periodici, a cadenza settimanale, di evacuazione manuale finalizzati a evitare occlusioni, potenzialmente fatali. Un trattamento “assistenziale” (così lo definisce la sentenza) la cui mancanza, ancora una volta, sarebbe stata incompatibile con la sopravvivenza.
9. Non è peraltro questa l’unica strada che la Corte d’assise ritiene percorribile per inquadrare la vicenda in esame nella nuova ipotesi di non punibilità, dandosi la possibilità di giungere alla medesima conclusione anche senza tenere conto delle dichiarazioni del dott. Riccio.
Argomento alla base di questa lettura alternativa è la praticabilità di una applicazione analogica del requisito di cui alla lett. c), sul presupposto che questo, in quanto elemento costitutivo di una scriminante e destinato a operare in bonam partem (oltre che privo di natura eccezionale), sarebbe sottratto al divieto di analogia, corollario del principio di legalità ex art. 25, secondo comma, Cost.
Per questa via (p. 35-36), la liceità dell’aiuto al suicidio prestato a chi versa in condizione di dipendenza da trattamenti sanitari vitali dovrebbe ugualmente affermarsi qualora a beneficiarne sia un paziente che richiede l’assistenza continua di un altro soggetto nello svolgimento delle attività più elementari della vita biologica («l’alimentazione, i minimi indispensabili movimenti, la defecazione e la minzione»). Sussiste nei due casi considerati identità di ratio, data l’omogeneità delle situazioni sostanziali: l’incapacità della persona di attendere autonomamente a bisogni indispensabili per la sopravvivenza, e il pregiudizio che a questa deriverebbe, sia pure in tempi non brevi, in assenza di supporti esterni, «siano essi cose o persone».
Questo lo scenario che si osserva negli ultimi anni di vita di Trentini, basandosi anche solo sulle testimonianze dei familiari: impossibilitato ad alzarsi da solo dal letto, se non al prezzo di rischiare rovinose cadute (come quella che, nel 2016, gli aveva procurato varie fratture), e infine incapace persino di tenere in mano un cucchiaio o un bicchiere, era costretto a ricorrere all’aiuto costante di altri (gli operatori sanitari e la madre) per nutrirsi e per andare in bagno. Ancora una volta, dunque, una situazione di “dipendenza” da sostegni “vitali” che consentirebbe di ritenere il fatto scriminato alle condizioni stabilite dalla Corte costituzionale.
In conclusione, pertanto, la Corte d’assise assolve gli imputati anche per la condotta di aiuto al suicidio con la formula «perché il fatto non costituisce reato».
* * *
10. La pronuncia della Corte d’assise di Massa rappresenta la prima applicazione, oltre il “caso Antoniani”, del dispositivo della “sentenza Antoniani”, e, di conseguenza, è la prima a confrontarsi con l’esigenza di una sua interpretazione.
Non giunge come imprevisto che, dato il suo valore normativo, il dictum della Consulta, tanto quanto se non ancor più delle commentatissime motivazioni, entri nel circuito delle consuete operazioni ermeneutiche.
Il ruolo di apripista era spettato, in verità, alla Corte d’assise di Milano[8]: tuttavia, in quell’occasione i giudici avevano riscontrato de plano i requisiti sostanziali di liceità, avevano concentrato l’indagine sulla sussistenza delle garanzie procedurali “sostanzialmente equivalenti” (questione allora nuovissima ma comunque non seriamente controversa) e avevano superato forse l’unico problema giuridico – la natura della “non punibilità” dei fatti di aiuto al suicidio[9] – ritenendo che potesse interessare «più gli studiosi del diritto penale che pubblici ministeri, avvocati e giudici»[10].
Senza condividere la radicalità dell’affermazione, ci sembra che la sentenza in esame confermi come la prassi non sia particolarmente attratta dalla questione – si è detto della presa di posizione a favore della scriminante senza specifiche motivazioni –, il che in effetti può spiegarsi con la limitata rilevanza che l’adesione all’una o all’altra soluzione assume nelle specifiche vicende di cui ci occupiamo. Pare invece apprezzabile la scelta della Corte d’assise di Massa di indirizzare i maggiori sforzi interpretativi verso un problema assai più concreto e pressante, una volta fuoriusciti dal caso Antoniani, cioè il reale perimetro delle condizioni sostanziali richieste perché il paziente possa ottenere un lecito aiuto al suicidio. Si tratta, in altri termini, di tracciare il confine tra chi, anche in futuro, potrà ottenere l’accesso a una procedura di suicidio medicalmente assistito e chi ne resterà fuori.
11. Da questo punto di vista, al centro del caso in esame sta il più volte menzionato requisito di cui alla lett. c), a tenore del quale l’aiuto al suicidio è “non punibile” solo se prestato su richiesta a una persona capace di intendere e di volere che, oltre ad essere affetto da una patologia irreversibile che gli causa sofferenze intollerabili, è «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».
Ora, sul punto la Corte d’assise di Massa enuncia un principio che appare senz’altro condivisibile: la nozione di “trattamento di sostegno vitale” non può essere limitata alle sole forme di dipendenza da macchinari. Precisazione essenziale nel caso di specie, e a ben vedere, almeno col senno di poi, di immediato buon senso oltre che del tutto compatibile con una interpretazione letterale, tanto che sarebbe stato più arduo sostenere la tesi contraria.
Quel che sembra particolarmente convincente, allora, è l’argomentazione della Corte d’assise, ossia il riferimento alla l. 219/17, poiché consente di portare in superficie quello che, ad avviso di chi scrive, è il nodo del ragionamento svolto dalla Consulta per affermare l’incostituzionalità del divieto assoluto di aiuto al suicidio[11]. Leggendo nelle pieghe dell’ord. 207 – in cui è stata ravvisata e motivata l’illegittimità poi dichiarata con la sent. 242 – il contrasto con i parametri costituzionali rilevanti deriva non solo dalla valorizzazione del principio di autodeterminazione terapeutica, ma anche, e forse soprattutto, da un giudizio di ragionevolezza, ex art. 3 Cost.[12], che assume come termine di confronto la disciplina prevista dalla citata l. 219. Quest’ultima, come noto, ha positivizzato il diritto del paziente di rifiutare e interrompere trattamenti sanitari, anche se necessari per la sopravvivenza. A fronte di tale dato, la logica[13] della Corte costituzionale era parsa essenzialmente la seguente: se ormai si ammette che, in base alla l. 219, un medico possa lecitamente attivarsi per interrompere i trattamenti al fine di assecondare la richiesta del paziente che desidera morire, è irragionevole continuare a ritenere illecita – nelle medesime situazioni – una condotta di agevolazione al suicidio (fornire un farmaco letale che il paziente provvederà ad assumere in autonomia)[14].
Se questo è il riferimento, tale situazione si verifica ogniqualvolta in cui il paziente già potrebbe determinarsi alla morte esercitando il diritto di rinuncia alle cure salvavita – da cui il requisito sub c). Ma per tali ipotesi, che per convenzione possiamo definire di “eutanasia passiva”, non si è mai concepita la possibilità di distinguere a seconda delle caratteristiche del trattamento o della terapia (salvo le incertezze su nutrizione e idratazione artificiale, qui non pertinenti e peraltro ormai risolte dal legislatore). Può ottenere la morte il paziente che rifiuta le trasfusioni, un intervento chirurgico o un farmaco, che chiede di staccare il ventilatore, etc., perché in ogni caso resta immutato il nucleo del diritto esercitato, cioè l’autodeterminazione terapeutica, sintesi di diritto alla salute e libertà personale: così può ottenere la morte ogni persona che, pur ammalata, chiede che non gli siano più messe “le mani addosso”. Lo stesso non può che valere, allora, quando si va a interpretare il requisito sub c).
In definitiva, la sentenza in esame precisa opportunamente un aspetto che sin qui forse era soltanto rimasto in ombra, a causa della centralità che nella vicenda Antoniani hanno avuto le contingenze del caso concreto; su altro fronte, poi, conferma il valore della l. 219 non solo come “cristallizzazione” di una elaborazione giurisprudenziale e dottrinale consolidata, ma anche in chiave sistematica, con funzione orientativa dell’interprete di fronte a questioni nuove.
11. Quanto detto riguarda appunto la nozione di “trattamenti” di sostegno vitale. Maggiori problemi sorgono, invece, quando ci si fermi a considerare, come pure fatto dalla Corte d’assise, il significato da attribuire alla circostanza che questi debbano avere natura “vitale”.
Qui, richiamando sinteticamente il ragionamento che abbiamo svolto in altra sede[15], ci sembra opportuno precisare che due sono le interpretazioni possibili – con l’avvertenza che il confine che le separa assomiglia più a una zona grigia che a una linea netta.
Di trattamento di sostegno vitale può accogliersi, in astratto, una nozione “restrittiva”, in cui rientrano solo i trattamenti senza i quali la morte sopraggiunge pressoché immediata. Ciò avviene soprattutto in presenza di macchinari (ventilatore artificiale per tutti), ed è forse questo un altro motivo per cui si è spesso pensato istintivamente ai trattamenti meccanici come equivalente di trattamenti di sostengo vitale.
Questa lettura è coerente con il riferimento ai casi già riconducibili alla l. 219: è verosimile che un paziente scelga di darsi la morte rinunciando alle terapie soltanto quando la sopravvivenza è così legata al trattamento che, interrotto questo, segue dopo poco anche il decesso.
D’altra parte, però, è proprio in situazioni diverse da quelle descritte che assume un ruolo autonomo l’aiuto al suicidio, cioè un intervento esterno di agevolazione che valga ad accelerare il decorso letale, altrimenti più lento, che si avrebbe sospendendo il trattamento, e che il paziente giudica intollerabile[16]. Prova ne è che né Antoniani né Trentini, pur potendo, avrebbero accettato di morire semplicemente interrompendo le terapie, ritenendola opzione niente affatto equivalente al suicidio assistito: conclusione evidente, nel caso in esame, ponendo mente al fatto che, senza manovre di evacuazione periodica, la vita di Trentini si sarebbe potuta concludere con una “rottura da scoppio del colon”[17].
Se dunque questo – «finire un po’ prima»[18] – è il bisogno avvertito dai pazienti, per soddisfare il quale è prevedibile che in concreto sia richiesto l’aiuto al suicidio, già all’indomani della sentenza della Corte costituzionale era emersa l’esigenza di adottare una nozione “estensiva”[19] di trattamenti di sostegno vitale, posto che la lettura “restrittiva” porterebbe a escludere, con una singola contraddizione, proprio coloro che più ne trarrebbero utilità pratica.
La Corte d’assise di Massa sembra ora imboccare decisamente questa strada. Lo si ricava dalla ripetuta affermazione per cui deve ritenersi “trattamento di sostegno vitale” (a noi interessa quest’ultimo aggettivo) “qualsiasi trattamento sanitario interrompendo il quale si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida” (a noi interessa quest’ultimo inciso).
Una nozione, al contrario della precedente, potenzialmente molto lata, cui sarebbero riconducibili, facendo alcuni esempi tratti dal caso di specie, farmaci per il controllo della pressione e manovre manuali di evacuazione[20] (senza le quali, evidentemente, Trentini avrebbe potuto sopravvivere almeno una settimana e forse oltre).
Tale scelta interpretativa appare idonea a risolvere la singola vicenda in modo soddisfacente, da un lato mantenendosi coerente con il dispositivo di incostituzionalità e dall’altro riportando nell’area del penalmente lecito un fatto che non si vedrebbe motivo per disciplinare diversamente da quello preso a modello dalla Corte costituzionale.
12. In realtà, proseguendo su questa strada, la nozione “estensiva” potrebbe essere ulteriormente dilatata: ad esempio, con un rigido approccio condizionalistico, potrebbero ritenersi vitali tutti i trattamenti che garantiscono al paziente una aspettativa di vita anche solo di poco più lunga rispetto a quella naturale.
Sarebbe un agevole espediente teorico per includere tra quanti possono beneficiare di un lecito aiuto a morire anche categorie di pazienti – in primis i malati oncologici – che difficilmente, almeno a prima lettura, rientrerebbero tra quanti beneficiano di “sostegni vitali” e che pure, come rivelano esperienze estere, sarebbero tra i più propensi a ricorrere al suicidio assistito[21]: in base a una interpretazione estensiva, come non ritenere vitale la chemioterapia che, pur senza offrire reali speranze di cura, potrebbe dare al paziente alcuni mesi di vita in più?
O ancora – e qui lo spunto è offerto dalla Corte d’assise –, se il nucleo essenziale del requisito in esame si risolve nel fatto che la sopravvivenza dipenda da un aiuto esterno, qualsiasi situazione di non autosufficienza, notoriamente frequente nella sempre crescente popolazione anziana del nostro Paese, potrebbe fondare la liceità del fatto (beninteso, insieme agli altri requisiti sostanziali).
Iniziano però a intravedersi le falle che si aprono adottando questa prospettiva.
Una prima obiezione, ci sembra, è che per sostenere un progressivo ampliamento in via interpretativa non potrebbe richiamarsi l’analogia, come invece ritenuto possibile dalla Corte d’assise.
Vero infatti che qui si ragiona di applicare una norma a favore del reo, e che le scriminanti, in linea di principio, sono espressione di principi generali dell’ordinamento; tuttavia, ricorre pur sempre l’ulteriore limite che, secondo la teoria generale, si oppone all’interpretazione analogica, ossia la non intenzionalità della lacuna che si vuole colmare[22]. Potrà discutersi, non senza grandi incertezze, della minore o maggiore ampiezza della nozione di “trattamento di sostegno vitale”, ma alla luce delle motivazioni della Corte costituzionale e dell’origine del requisito in esame sembra di poter affermare senza timore di smentita che tale nozione è stata concepita con esclusivo riferimento ai trattamenti di natura sanitaria; con qualche dubbio in più, si potrebbe anche sostenere che con la previsione del requisito sub c) si siano volute escludere proprio le situazioni descritte sopra in questo paragrafo (di nuovo, come esempio si pensi ai malati oncologici, salvo forse quelli nello stadio terminale più avanzato)[23].
In breve, è chiaro che la Consulta ha considerato specificamente alcune situazioni e altre ne ha, così, implicitamente ma volutamente escluse[24]: a prescindere da dove si collochi il confine, ne discende che tale scelta negativa non potrebbe essere superata argomentando per analogia. È allora evidente che, allo stato, comunque non potrebbe arrivarsi ad ammettere illimitatamente l’aiuto a morire per il solo fatto che si riscontri un qualche “aiuto a vivere” (sia pure a fronte di malattie irreversibili e di sofferenze intollerabili).
Peraltro, ci sembra scivoloso – per usare un termine non casuale – invocare un criterio di eadem ratio per spostare in via interpretativa i confini della punibilità nella materia del fine vita: sussistono in effetti molte buone ragioni a favore di una parificazione giuridica delle ipotesi di eutanasia, anche oltre le forme riconducili all’art. 580, ma trattasi di operazione riservata al legislatore o alla Corte costituzionale, che non potrebbe certo essere realizzata in sede applicativa dal giudice ordinario.
In conclusione, non è un rischio da sottovalutare che la pur meritoria strada dell’interpretazione estensiva conduca, se realmente percorsa, a una sostanziale interpretatio abrogans del requisito in esame (come potrebbe avvenire portando all’estremo il concetto della “dipendenza farmacologica”), se non a vere e proprie interpretazioni contra legem (come quelle viste sopra) – in entrambi i casi con la possibilità concreta di soluzioni variabili a seconda del giudicante.
13. Le difficoltà che nella sentenza affiorano soltanto, ma che in futuro potrebbero riproporsi con maggiore urgenza, ci sembrano riconducibili a un problema di fondo: la stessa previsione, da parte della Corte costituzionale, del requisito del “trattamento di sostegno vitale”.
Per quanto la si dilati, infatti, ogni possibile interpretazione correttiva dovrà continuare a richiedere che il paziente sia sottoposto a una qualche forma di trattamento.
Come si è cercato di dimostrare in altra sede[25], ciò risulta contraddittorio rispetto alla finalità di tutela dei diritti fondamentali – autodeterminazione e dignità – che la Corte costituzionale afferma di voler perseguire con la “non punibilità” dei terzi che prestano l’aiuto al suicidio.
Rispetto a tale finalità, e ai bisogni concreti che vi stanno alla base, il requisito in esame pare privo di reale capacità selettiva[26]: il diritto del paziente di scegliere la modalità medica (non il “terrificante” salto dalla finestra) per liberarsi dalle sofferenze, anche a costo di perdere la vita, nonché il diritto a sottrarsi a un decorso letale lento e ritenuto lesivo della propria idea di dignità, configurano posizioni soggettive ed esigenze di tutela del tutto insensibili alla circostanza che lo stesso paziente sia sottoposto a un qualche trattamento. Né questa circostanza sembra incidere sulle esigenze alla base della persistente legittimità dell’incriminazione generale dei fatti di aiuto al suicidio, ossia la tutela delle persone fragili e vulnerabili.
Certamente, qualora il trattamento fosse tanto vitale (si passi l’espressione) da consentire la morte immediata, il paziente avrebbe a pronta disposizione un modo rapido per congedarsi dalla vita, e non ci sarebbe nessuna compressione dei suoi diritti. Ma si è visto – i casi Antoniani e Trentini sono qui a dimostrarlo – che spesso non è così, ed è in situazioni del genere che la stessa Corte costituzionale ha ritenuto di dover rimediare a un vulnus di tutela.
Ciò che davvero sembra dirimente, sempre nella prospettiva dei diritti fondamentali del paziente, è piuttosto la malattia – e la sofferenza che ne deriva[27] –, non il trattamento che essa riceve, che potrà semmai rilevare come indice della gravità o dello stadio di avanzamento della patologia, ma che per il resto è «evenienza estrinseca e occasionale»[28].
D’altra parte, oggi esiste (ed esisteva già al tempo della prima decisione della Corte) un preciso dato normativo per ritenere irragionevole continuare a prendere che il paziente sia sottoposto a un trattamento, quale che sia: si tratta, ancora una volta, della l. 219, che all’art. 1 c. 5 riconosce alla persona il diritto di rifiutare, sin dall’inizio, qualsiasi trattamento, anche di sostegno vitale (sia in senso stretto sia in senso lato) – persino la terapia del dolore, possiamo precisare, prendendo spunto da una notazione della Corte costituzionale tedesca nella recente sentenza in materia[29]. Con il paradosso che allo stato, per accedere al suicidio assistito, un paziente che avesse da sempre rifiutato qualsiasi cura dovrebbe prima chiedere di essere sottoposto a un trattamento per poi, subito dopo, rinunciarvi[30].
Non può escludersi che, attraverso il requisito in esame, si sia voluta esprimere una diversa esigenza di disciplina, cioè riservare il suicidio assistito soltanto a pazienti ormai tendenzialmente prossimi al decesso per cause naturali[31] o comunque la cui malattia, di per sé, porterebbe a un esito letale – il che, a rigore, non sarebbe implicazione necessaria di una patologia soltanto “irreversibile”, come richiesta dalla lett. a) (si pensi a malattie neurologiche che comportano dolore cronico)[32]. Allora, però, anche ammesso di voler mantenere una simile logica limitativa, sarebbe forse più lineare integrare il primo requisito oppure inserire un requisito ulteriore e diverso (ad es. calibrato sull’aspettativa di vita del paziente[33]), in ogni caso eliminando un vincolo ambiguo – unicum a livello internazionale nella disciplina del suicidio assistito[34] – che, in definitiva, espone al rischio non tanto di paradossi, ma di ingiustizie sostanziali.
Posto che la proposizione di una nuova questione di legittimità, (anche) ai sensi dell’art. 3 Cost., pare un’opzione tutt’altro che insostenibile[35], sul punto ci si attenderebbe semmai un intervento del legislatore, quando decidesse di regolare la materia. La Corte si è infatti limitata a rimuovere una situazione di illegittima compressione dei diritti del malato, attenendosi a una prospettiva minimale; niente esclude che il Parlamento, nell’esercizio della propria discrezionalità politica, possa ampliare ancora i confini della liceità. Ma, come noto, su questo fronte la notte è ancora molto lunga.
[1] C. Cupelli, I confini di liceità dell'agevolazione al suicidio e il ruolo del legislatore. Brevi note a margine della nuova sentenza di assoluzione di Marco Cappato e Mina Welby, in questa Rivista, 3 agosto 2020.
[2] Si vedano i contributi, sia di penalisti sia di costituzionalisti, raccolti in F.S. Marini – C. Cupelli (a cura di), Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, ESI, 2019. Una impressione confermata dalla dottrina in sede di commento della sentenza 242 del 2019: per tutti si vedano le riflessioni di G. Fiandaca, Fino a che punto è condivisibile la soluzione costituzionale del caso Cappato?, in disCrimen, 3 febbraio 2020, p. 2-3; F. Palazzo, La sentenza Cappato può dirsi storica?, in Politica del diritto, 1/2020, p. 12.
[3] Le voci critiche sono ormai numerose: in relazione all’ord. 207/2018, sia consentito il rinvio a F. Lazzeri, La Corte costituzionale traccia la via alla liceità delle condotte di aiuto al suicidio “medicalizzato”, in F.S. Marini – C. Cupelli (a cura di), Il caso Cappato, cit., p. 196 ss.; A. Vallini, Morire è non essere visto: la Corte costituzionale volge lo sguardo sulla realtà del suicidio assistito, in Dir. pen. proc., 6/2019, p. 816; dopo la sentenza 242/2019, cfr. G. Fiandaca, Fino a che punto è condivisibile, cit., p. 9; ampiamente M. Donini, Libera nos a malo. I diritti di disporre della propria vita per la neutralizzazione del male, in questa Rivista, 10 febbraio 2020, p. 15 ss.; tra i costituzionalisti G. Zagrebelsky, Aiuto al suicidio. Autonomia, libertà e dignità nel giudizio della Corte europea dei diritti umani, della Corte costituzionale italiana e di quella tedesca, in Leg. pen., 2 marzo 2020, p. 6 ss. In controtendenza il giudizio favorevole espresso da L. Eusebi, Il suicidio assistito dopo Corte cost. n. 242/2019. A prima lettura, in Corti Supreme e salute, 2/2019, p. 195-196.
[4] Cfr. C. Cupelli, Il caso (Cappato) è chiuso, ma la questione (agevolazione al suicidio) resta aperta, in questa Rivista, 6 febbraio 2020, par. 6, e da ultimo A. Vallini, Il “caso Cappato”: la Consulta autorizza e “disciplina” il suicidio assistito, in Giur. it., 5/2020, p. 1204.
[5] Cass., Sez. I, 6 febbraio 1998 (dep. 12 marzo), n. 3147, imp. Munaò, in Cass. pen., 1999, p. 871 ss., spec. p. 874, con nota di M.C. Bisacci.
[6] C. Ass. Milano, ord. 14 febbraio 2018, in Dir. pen. cont., 16 febbraio 2018, p. 4-5.
[7] Trib. Vicenza, sent. 14 ottobre 2015 (dep. 2 marzo 2016), in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2017, con nota di C. Silva.
[8] C. Ass. Milano, sent. 23 dicembre 2019 (dep. 30 gennaio 2020), in questa Rivista, 6 febbraio 2020, con nota di illustrazione e commento di C. Cupelli, Il caso (Cappato) è chiuso, cit.
[9] I termini del problema sono sintetizzati in C. Cupelli, Il caso (Cappato) è chiuso, cit., par. 5. Largamente prevalente la tesi della scriminante (procedurale, nozione su cui si sofferma A. Sessa, Fondamento e limiti del divieto di aiuto al suicidio: un nuovo statuto penale delle scriminanti nell’ordinanza della Consulta n. 207/2018, in F.S. Marini – C. Cupelli (a cura di), Il caso Cappato, cit., p. 337 ss.): all’indomani della sent. 247 si veda M. Donini, Libera nos a malo, cit., p. 13-14, e 21, nt. 25. La tesi della atipicità sembra accolta da C. Ass. Milano, sent. 23 dicembre 2019, cit., p. 16-17; per alcuni argomenti a favore cfr. P. Bernardoni, Ancora sul caso Cappato: qualche considerazione sulla "non punibilità" dell'aiuto al suicidio introdotta dalla Corte costituzionale, in questa Rivista, 26 febbraio 2020, spec. par. 6; in direzione simile, almeno in ottica de iure condendo, A. Nappi, Suicidio medicalmente assistito e omicidio del consenziente pietatis causa: problematiche ipotesi di tipicità penale, in Leg. pen., 23 settembre 2019, p. 35 ss.
[10] C. Ass. Milano, sent. 23 dicembre 2019, cit., p. 16.
[11] Per una esposizione più distesa della ricostruzione che segue può vedersi, volendo, F. Lazzeri, La Corte costituzionale traccia la vita, cit., p. 191 ss. e 195.
[12] Sulla scomparsa del parametro di cui all’art. 3 Cost. nella sent. 242 si richiamano i sospetti di G. Fiandaca, Fino a che punto è condivisibile?, cit., p. 10.
[13] Di confronto logico, piuttosto che assiologico, parla S. Seminara, L’art. 580 c.p. e il diritto di morire, in F.S. Marini – C. Cupelli (a cura di), Il caso Cappato, cit., p. 331.
[14] Prima dell’ord. 207/2018, questa soluzione era stata sostenuta in D. Pulitanò, Il diritto penale di fronte al suicidio, in Dir. pen. cont., 5/2018, p. 71. È ricostruzione accreditata, dopo l’ord. 207/2018, da G. Leo, Nuove strade per l’affermazione della legalità costituzionale in materia penale: la Consulta e il rinvio della decisione sulla fattispecie di aiuto al suicidio, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2019, p. 268, e, dopo la sent. 242/2019, da F. Palazzo, La sentenza Cappato può dirsi storica?, cit., p. 8-9.
[15] Sia consentito ancora il rinvio a F. Lazzeri, La Corte costituzionale traccia la via, cit., p. 197-198.
[16] Lo riconosce la stessa Corte costituzionale, come ora nota F. Giunta, L’insostenibile sofferenza del vivere. Le motivazioni della Corte costituzionale in materia di suicidio medicalmente assistito (sent. 242/2019), in disCrimen, 25 novembre 2019, p. 2-3.
[17] Un rifiuto di cure possibile, ma «inesigibile»: cfr. M. Donini, Libera nos a malo, cit., p. 17.
[18] Così formulato il desiderio che Zelinda esprime al prete nel celebre racconto di S. D’Arzo, Casa d’altri, in Casa d’altri e altri racconti, Einaudi, 2007, p. 47.
[19] Su cui vedi in particolare M. Donini, Libera nos a malo, cit., p. 18; si era ipotizza una simile lettura anche in F. Lazzeri, La Corte costituzionale traccia la via, cit., p. 199-200, anticipando però alcuni dei rilievi critici di cui infra in questo contributo.
[20] Anche la Corte d’assise di Milano, sent. 23 dicembre 2019, cit., nel verificare la sussistenza del requisito sub c) nel caso di Antoniani, aveva incidentalmente rilevato come questi non fosse autosufficiente, oltre che nella respirazione e nell’alimentazione, nell’evacuazione (p. 12).
[21] Efficace l’esempio dell’Olanda: nel 2018 su oltre 5.500 casi di eutanasia (suicidio assistito ma, per oltre il 95%, somministrazione del farmaco letale direttamente da parte del medico) in più di 4.000 – circa 3 su 4 – la richiesta proveniva da pazienti oncologici. Questi i dati contenuti nella relazione ufficiale più aggiornata pubblicata il 27 gennaio 2020 sul sito dei Regional Euthanasia Review Committees.
[22] G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di Diritto penale. Parte generale, IX ed., Giuffrè, 2020, p. 86.
[23] Sull’esistenza, de iure condito, di un confine estremo del requisito in esame, entro cui non sembrano rientrare, anche all’esito di una interpretazione estensiva, molti dei casi “analoghi ma diversi” qui descritti, si veda M. Donini, Libera nos a malo, cit., p. 18.
[24] Sul punto si rinvia al chiaro ragionamento di L. Eusebi, Il suicidio assistito dopo Corte cost. n. 242/2019, cit., p. 195-196, che ricava dal confronto che la Corte stabilisce con la l. 219 un elemento a favore della necessità (oltre che dell’opportunità) di una lettura soltanto restrittiva del requisito in esame. Per M. Romano, Aiuto al suicidio, rifiuto o rinuncia a trattamenti sanitari, eutanasia (sulle recenti pronunce della Corte costituzionale), in questa Rivista, 8 gennaio 2020, p. 7, addirittura la presenza di un trattamento artificiale salvavita «colloca quasi naturalmente l’aiuto ammissibile in una struttura clinica».
[25] Le considerazioni che seguono sono state esposte in F. Lazzeri, La Corte costituzionale traccia la vita, cit., p. 201 ss.
[26] La necessità di un trattamento vitale è per G. Fiandaca, Fino a che punto è condivisibile, cit., 9, «inidonea a fungere da ratio distinguendi di situazioni esistenziali che, in termini di comparazione valoriale, appaiono più simili che dissimili»; per M. Donini, Libera nos a malo, cit., è requisito «arbitrario» (p. 16), o comunque non supportato da adeguata «razionalità costruttiva» (p. 17). Estende il rilievo di un difetto di «necessità o razionalità intrinseca» a tutti i requisiti di cui alle lett. a)-c) G. Zagrebelsky, Aiuto al suicidio, cit., p. 7.
[27] Sulla sofferenza come «bussola che orienta in materia e che ha orientato fondamentalmente la Corte» pone l’accento F. Palazzo, La sentenza Cappato può dirsi storica?, in Politica del diritto, 1/2020, p. 11.
[28] G. Fiandaca, Fino a che punto è condivisibile, cit., p. 9.
[29] C. cost. federale tedesca, sent. 26 febbraio 2020, par. 299 (sentenza di cui può leggersi una sintesi pubblicata in questa Rivista, 28 febbraio 2020).
[30] È una obiezione che, in questi termini, sembra di recente aver trovato riscontro in una delle posizioni manifestate in seno al Comitato Nazionale per la Bioetica in occasione del Parere Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, 18 luglio 2019, p. 23; più di recente G. Zagrebelsky, Aiuto al suicidio, cit., p. 8.
[31] Di «problema della causalità […] temperato e bilanciato dalla Corte» parla suggestivamente R. Bartoli, Brevi riflessioni sul fine vita a partire dai concetti di uomo, individuo e persona, in disCrimen, 20 giugno 2019, p. 9.
[32] Una spiegazione ulteriore è quella sostenuta da F. Poggi, Il caso Cappato: la Corte costituzionale nelle strettoie tra uccidere e lasciar morire, cit., p. 89 ss., che, indirizzando la critica anche verso i requisiti sub a) e b), individua l’origine delle aporie cui conduce la selezione operata dalla Corte nell’essere questa rimasta «ancorata alla distinzione tra killing e letting die» (p. 92).
[33] In questa direzione sembrano orientate alcune proposte legislative (una di iniziativa popolare, presentata nel 2013, e una di iniziativa dell’on. Cecconi, presentata nel 2019) in cui si prevede come requisito – non è chiaro se concorrente o alternativo – la “prognosi infausta inferiore a diciotto mesi”: ne dà conto C. Cupelli, Il cammino parlamentare di riforma dell’aiuto al suicidio. Spunti e prospettive dal caso Cappato, fra Corte costituzionale e ritrosia legislativa, in Dir. pen. cont., 19 aprile 2019. Disegni di legge più recenti sembrano invece optare per la semplice eliminazione del requisito della sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale: ne è un esempio, da ultimo, – tra cui da ultimo, l’A.S. 1494 (a firma dell’on. Cirinnà e altri), presentato il 17 settembre 2019. Dopo l’assegnazione in commissione, tuttavia, non risulta ad oggi ancora iniziato l’esame.
[34] M. Donini, Libera nos a malo, cit., p. 16.
[35] Favorevole G. Zagrebelsky, Aiuto al suicidio, cit., p. 8.