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27 Maggio 2021


Sull’attribuzione all’albergatore della qualifica di incaricato di pubblico servizio, prima del decreto rilancio: un disallineamento nella giurisprudenza di legittimità?

Cass., Sez. VI, sent. 13 ottobre 2020 (dep. 11 maggio 2021), n. 18320, Pres. Fidelbo, rel. Giordano



1. Non sempre all’albergatore tenuto a versare al Comune l’imposta di soggiorno può essere riconosciuta – in relazione al periodo precedente al d.l. 34/2020 – la qualifica di incaricato di pubblico servizio agli effetti della legge penale, poiché tale veste giuridica dipende dal contenuto che assume il regolamento con cui l’ente locale disciplina i compiti e i doveri dell’albergatore stesso, oltre che dalle effettive caratteristiche dell’attività che questi svolge in concreto.

È questa l’indicazione essenziale che si trae dalla sentenza allegata, con la quale la Cassazione introduce un ulteriore elemento di distinguo nel dibattito già articolato e non sempre lineare circa i profili di responsabilità penale del gestore della struttura alberghiera per omesso versamento delle somme riscosse dai clienti a titolo di imposta di soggiorno.

 

2. Di fronte al problema della qualificazione di tale fattispecie concreta, l’attenzione degli interpreti è stata da ultimo monopolizzata dagli effetti intertemporali del “decreto rilancio” (il già citato d.l. 34/2020): dato che il legislatore per il futuro ha definito espressamente l’albergatore come responsabile d’imposta e per sanzionarne l’inadempimento ha previsto un apposito illecito amministrativo, a tale modifica può riconoscersi portata di abolitio criminis, con effetto retroattivo ex art. 2 c. 2 c.p., per fatti altrimenti ritenuti punibili a titolo di peculato? A questo proposito, è noto come si sia andato affermando in Cassazione un netto orientamento favorevole a mantenere ferma la rilevanza penale dei fatti pregressi[1].

La materia del contendere poggia appunto sul presupposto che – sino all’entrata in vigore del decreto rilancio – all’albergatore dovesse attribuirsi natura di incaricato di pubblico servizio e che la sua condotta, avente carattere appropriativo, potesse ricondursi al delitto di cui all’art. 314 c.p. Presupposto largamente condiviso, se non sostanzialmente pacifico, almeno nella prassi, come dimostrato attraverso una compiuta panoramica del quadro giurisprudenziale rilevante da parte della stessa Cassazione in una recente sentenza con cui ha ribadito l’indirizzo contrario all’abolitio criminis[2].

La decisione in esame sembrerebbe invece aprire una breccia nella posizione compatta emersa dai più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità; conviene però sin d’ora precisare i confini di tale – potenziale – contrasto. La sentenza riguarda sì un fatto di omesso versamento dell’imposta di soggiorno anteriore al decreto rilancio, ma non concerne profili di successione di leggi nel tempo: la fattispecie viene giudicata alla stregua della normativa vigente prima del 19 maggio 2020. Da questo punto di vista, non sembrano esserci frizioni con l’indirizzo espresso dalla Cassazione che esclude l’applicabilità dell’art. 2 c.p.

È invece il presupposto della controversia di diritto intertemporale a essere implicitamente messo in dubbio: il riconoscimento pressoché indefettibile della qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo all’albergatore che riscuote dai clienti l’imposta di soggiorno.

Esaminiamo di seguito le motivazioni della sentenza per saggiare gli argomenti, l’effettiva portata e il possibile impatto di questo revirement.

 

3. L’imputato, titolare di un’impresa individuale che gestisce una struttura ricettiva, ricorreva avverso la sentenza di patteggiamento per il delitto di peculato emessa dal g.u.p. di Siena in relazione alla contestazione di omesso versamento al comune di Poggibonsi dell’imposta di soggiorno dovuta nel periodo 2014-2017.

Il primo e principale motivo di ricorso denunciava l’errata qualificazione giuridica del fatto e sollecitava la Corte a svolgere una nuova valutazione alla luce delle disposizioni del regolamento con cui l’ente locale disciplinava i rapporti tra sé e gli albergatori, individuando «mansioni [e] funzioni svolte dal gestore della struttura nell’attività di riscossione dell’imposta e del [suo] versamento» al Comune medesimo.

La Corte nota come il giudice del merito abbia motivato la configurabilità del peculato alla luce delle rilevanti pronunce della Corte dei conti e delle Sezioni unite (in assenza di estremi non se ne può avere la certezza, ma si tratta verosimilmente delle decisioni citate ampiamente da Cass. 18105/21). Subito dopo, lo stesso collegio richiama recenti precedenti delle Sezioni semplici (del 2018-2019) per illustrare la posizione ‘tradizionale’ della giurisprudenza di legittimità in ordine ai requisiti per la sussistenza del delitto di cui all’art. 314 e in particolare per l’attribuzione della qualifica di incaricato di pubblico servizio all’albergatore: l’estraneità di quest’ultimo al rapporto tributario, intercorrente tra Comune e cliente della struttura ricettiva; lo svolgimento di compiti strumentali all’esazione del tributo; anche a prescindere dalla titolarità di un incarico formale conferito dall’ente locale, l’effettiva materiale riscossione della somma dal cliente, nel contesto di una attività disciplinata da norme di diritto pubblico (quelle istitutive dell’imposta).

Nella sentenza in esame, la Corte ritiene invece che l’indagine non possa arrestarsi alla verifica di questi elementi, ma sia necessario approfondire un dato ulteriore, definito di «rilievo decisivo»: il contenuto dei regolamenti adottati dagli enti locali ai sensi della fonte primaria che rappresenta la base normativa del tributo (il riferimento è al c. 3 dell’art. 4 d.l. 23/2011).

Il senso di questo accertamento viene riassunto dalla considerazione che segue: è pur vero che il regolamento non potrebbe comunque incidere sul rapporto tributario avente ad oggetto l’imposta di soggiorno (attribuendo all’albergatore un’ipotetica veste di “responsabile d’imposta”); tuttavia, la sua analisi è utile perché consentirebbe di rivelare, «nella prospettiva funzionale oggettiva che caratterizza la qualificazione del soggetto attivo del reato incaricato di pubblico servizio, i connotati pubblicistici dell’attività svolta dal gestore della struttura sia nella fase di riscossione che in quella di versamento dell’imposta».

Di qui l’importanza, nel caso di specie, delle previsioni del regolamento del Comune di Poggibonsi, che la Corte passa a esaminare. Tra le norme che pongono a carico dell’albergatore obblighi dichiarativi, fissano i termini per il pagamento e comminano sanzioni amministrative per il caso di inadempimento, spicca la disposizione con cui si stabilisce che il gestore della struttura «risponda “direttamente” del corretto e integrale versamento [dell’imposta] al Comune» (citiamo qui la motivazione, che sul punto parafrasa il regolamento, senza riportarlo testualmente).

Nell’interpretazione data dalla Corte, il significato di una norma del genere è quello di configurare «in capo al gestore della struttura un obbligo “diretto”, ergo, lo individua come debitore in proprio di somme nei confronti dell’Ente»; ed è in funzione di questa veste giuridica che andrebbero lette le previsioni connesse in tema di obblighi dichiarativi e sanzioni di natura «tipicamente tributaria».

Il dato normativo è invece carente, a giudizio della Corte, quando si tenta di ricavarne indici per ravvisare nell’attività dell’albergatore i «connotati pubblicistici», anche in senso alto, cui dovrebbe essere subordinato il riconoscimento della qualifica di incaricato di pubblico servizio.

Infatti, «nella fase di determinazione e versamento dell’importo dovuto», l’albergatore non sembra disporre di veri e propri poteri, assumendo piuttosto una posizione di soggezione rispetto ai poteri di accertamento e controllo che spettano al Comune.

Neppure «nella fase in cui il gestore della struttura procede all’incasso dell’imposta» la sua attività presenterebbe profili di rilevanza pubblicistica. Qui l’argomento addotto dalla Corte fa leva sulla previsione della citata “responsabilità diretta”, che precluderebbe la possibilità di configurare in capo al medesimo il ruolo di “agente contabile”, su cui la giurisprudenza consuetamente fonda la qualifica dell’albergatore come incaricato di pubblico servizio. La ragione di tale «incompatibilità ontologica» starebbe nel fatto che, se il gestore della struttura risponde “direttamente” del versamento dell’imposta, ciò implica «che le somme dovute dall’esercente appartengono al suo patrimonio e non a quello del Comune, sicché risulta difficile configurare il “maneggio di denaro pubblico”»: ricorrerebbe, in altri termini, lo schema dell’inadempimento di un obbligo di pagamento, piuttosto che di consegnare alla pubblica amministrazione una res, il denaro, che già le appartiene.

In sé considerata, la cornice normativa porta dunque a negare la qualifica di incaricato di pubblico servizio. All’assenza di indici astratti non ha però supplito, afferma la Corte, neppure il giudice del merito al momento di indagare i possibili tratti di rilevanza pubblicistica dell’attività dell’albergatore alla luce dei compiti da questi svolti in concreto. L’onere di motivazione non può infatti ritenersi assolto dal riferimento all’«operazione di calcolo dell’imposta dovuta» o al «rilascio della quietanza di pagamento», posto che tali attività non rappresentano estrinsecazione di funzioni pubblicistiche e che il “pubblico servizio”, ai sensi dell’art. 358 c.p., non può comunque risolversi in «semplici mansioni d’ordine [o] prestazione di opera meramente materiale» – quali, in specie, la destinazione delle somme riscosse all’ente pubblico.

È la necessità di riesaminare e meglio motivare tale profilo – «l’esercizio di poteri pubblicistici e [i] contenuti pubblicistici che eventualmente connotano» l’attività dell’albergatore –, che giustifica in definitiva l’annullamento della decisione di merito con rinvio al Tribunale di Siena.

 

* * *

 

4. Volendo svolgere alcune riflessioni a prima lettura, ci sembra utile fornire qualche ulteriore dato di carattere cronologico, per contestualizzare la sentenza.

La data dell’udienza fissata originariamente per la discussione del ricorso era anteriore all’approvazione del decreto rilancio ma, in seguito a un rinvio per l’emergenza Covid, la decisione è stata assunta dopo l’entrata in vigore del decreto stesso. La Corte in effetti richiama incidentalmente l’art. 180 del d.l. 34/2020 solo per escludere che all’assetto da questo introdotto – la definizione dell’albergatore come “responsabile d’imposta” – potesse giungersi per via interpretativa già prima di tale novità normativa. Resta aperto il dubbio se con un simile incedere, ossia citando il decreto ma non ponendosi la questione (peraltro in mancanza di specifica sollecitazione difensiva), la Corte abbia anche finito per escludere – implicitamente – l’effetto retroattivo della novella. In ogni caso, come accennato, non emerge da questa decisione alcun elemento per ritenere incrinato l’uniforme indirizzo di legittimità contrario a riconoscere una abolitio criminis conseguente al decreto rilancio.

Ancora, vale la pena notare come la sentenza in commento, nonostante il deposito molto recente, sia stata deliberata in data anteriore al deposito – a ottobre 2020 – della prima[3] delle tre decisioni di legittimità che si sono pronunciate sui profili di successione di leggi nel tempo; pronunce delle quali non potevano essere note le motivazioni, neppure – questo è il punto – nella parte in cui ribadiscono i criteri che dovrebbero presiedere all’accertamento della qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo all’albergatore. Si spiega così perché le più recenti sentenze citate sul punto risalgono al 2019, nonostante nel frattempo la giurisprudenza di legittimità abbia fatto più di un passo in avanti: vuoi nel senso del consolidamento, come testimonia lo sforzo argomentativo della citata sentenza n. 18105/21 (depositata un giorno prima della sentenza in esame), che dedica varie pagine alla questione specifica che ci interessa; vuoi in funzione chiarificatrice, come quella svolta dalle Sezioni unite che, nel decidere la diversa questione della qualifica del gestore e del concessionario di apparecchi da gioco, hanno fornito alcune indicazioni rilevanti circa i caratteri della figura dell’agente contabile e dell’incaricato di pubblico servizio ai fini del delitto di peculato[4].

È allora con questo acquis giurisprudenziale, stratificato e ormai nutrito, che andrebbero confrontate le motivazioni della Cassazione per verificarne la tenuta anche nell’attualità.

 

5. Senza poter qui procedere a un’analisi sistematica di tutti i precedenti rilevanti, possiamo per semplicità avvalerci della ricostruzione compiuta dalla sentenza n. 18105/2021, in cui come detto si dà conto con estese citazioni testuali del diritto vivente risultante dall’elaborazione del giudice ordinario, amministrativo e contabile.

Limitandoci ai punti più rilevanti, se ne ricava che: secondo quanto statuito dalle Cassazione civile a Sezioni unite, in veste di corte regolatrice di giurisdizione, nel 2001[5] e poi ancora nel 2010[6], è conforme all’art. 103 Cost. una «nozione allargata» di “agente contabile”, laddove un soggetto maneggi denaro che pertiene alla relazione tra l’ente pubblico e un terzo; con specifico riferimento alla posizione dell’albergatore, posta la natura pubblica della res nella disponibilità di costui, il titolo in base al quale è svolta la gestione del bene o del denaro è irrilevante, potendo anche mancare del tutto; secondo quanto stabilito dalle Sezioni riunite della Corte dei conti nel 2016[7], sussiste un rapporto di servizio tra ente locale e albergatore, da qualificare come agente contabile, laddove il secondo svolga compiti di riscossione e versamento a favore del primo dell’imposta di soggiorno, tanto più che trattandosi di imposta di scopo al denaro può riconoscersi carattere pubblico; la Cassazione penale nel 2018[8] ha riconosciuto «connotazione pubblicistica» all’attività dell’albergatore « per il suo diretto collegamento al preminente interesse generale alla riscossione delle entrate tributarie dell’ente locale»; la qualifica di “agente contabile” del soggetto (in particolare, il concessionario di rete di apparecchi da gioco) «deputato istituzionalmente al maneggio di denaro pubblico» è stata da ultimo accolta, anche ai fini della configurabilità del delitto di peculato, dalle Sezioni unite penali nel 2021[9].

Ora, di fronte a questo panorama, ci sembra che la sentenza in esame sollevi almeno due questioni problematiche: a) se ed eventualmente a che condizioni il regolamento comunale possa incidere sulla natura pubblica del denaro, assunta come presupposto indefettibile dall’orientamento dominante; b) se e in che misura i requisiti per l’attribuzione all’albergatore della qualifica di agente contabile – pacifica per la Corte dei conti e anche per le Sezioni unite, ai fini del riparto di giurisdizione – possano consentire di ritenere integrata anche la qualifica di incaricato di pubblico servizio ai sensi dell’art. 358 c.p.

 

5.1. Muoviamo dalla premessa che la scelta da parte della Cassazione di richiamare all’attenzione dell’interprete i contenuti concreti del regolamento comunale pare di per sé coerente con il sistema e con le altre decisioni della Cassazione in materia. Il regolamento contribuisce a comporre la disciplina pubblicistica pertinente: è la norma primaria istitutiva dell’imposta di soggiorno che attribuisce ai comuni il potere di adottare tali atti con cui «disporre ulteriori modalità applicative del tributo nonché prevedere esenzioni o riduzioni per particolari fattispecie o per determinati periodi di tempo» (art. 4 c. 3 d.l. 23/2011). A buon diritto, dunque, il regolamento interessa anche il penalista, quale norma extra-penale con evidenti risvolti ai fini dell’applicazione al caso concreto della fattispecie incriminatrice di cui si ipotizza la configurabilità: senza, si noti, che ciò implichi alcuna violazione del principio di riserva di legge, se – come pare corretto – si riconosce a tali norme, alla pari di quelle di rango primario che pure disciplinano il rapporto tributario, natura non integratrice del precetto.

In relazione al problema sub a), allora, ciò che sembra opinabile è piuttosto l’interpretazione che la Corte dà del regolamento comunale richiamato, e soprattutto le conseguenze che ritiene di trarne in ordine alla natura delle somme dovute e non versate dall’albergatore all’ente locale.

Il punto critico sta nel collegare alla previsione regolamentare per cui l’albergatore “risponde direttamente” del versamento dell’imposta al Comune la costituzione in capo al medesimo albergatore di un “debito di somme proprie nei confronti dell’ente”, collaterale al rapporto tributario tra Comune e cliente.

Le motivazioni, che evidentemente riflettono la consapevolezza del collegio circa la delicatezza del discrimine, in almeno due punti precisano come tale interpretazione non equivalga a ravvisare nella norma l’attribuzione all’albergatore della qualifica di “responsabile d’imposta” o comunque un ampliamento del novero dei soggetti passivi del tributo.

Nonostante questo avvertimento, di fronte a una disposizione del genere le strade percorribili per l’interprete sembrano ridursi a due.

In una prima prospettiva – che pare quella accolta dalla Corte (cfr. pag. 5) – può ritenersi che il Comune abbia configurato un nuovo obbligo di pagamento nei confronti dell’albergatore. Ma di questa previsione bisognerebbe verificare la legittimità alla luce della riserva di legge (relativa) di cui all’art. 23 Cost., dovendo la facoltà impositiva dell’ente locale fondarsi su un parametro normativo di rango primario; parametro che per la tipologia di fatti che qui rileva sembra mancare, posto che per giudizio unanime l’art. 4 individua nel cliente l’unico soggetto passivo dell’imposta, e non constano basi normative ulteriori. Sicché in questa prima linea di pensiero ci si dovrebbe piuttosto interrogare intorno al potere del giudice penale di disapplicare il regolamento, in quanto atto amministrativo illegittimo (in contrasto con la legge) o, preferibilmente, in quanto atto normativo recessivo in base al principio gerarchico.

Nella prospettiva alternativa, verso la quale si è risospinti dalle suddette esigenze di rispetto dei principi, il Comune non ha configurato un nuovo obbligo di contribuzione. Ma allora il denaro al cui pagamento è obbligato è pur sempre quello che il cliente ha versato alla struttura perché fosse destinato all’ente pubblico: sicché è ben possibile continuare a predicare la natura pubblicistica del denaro (la somma fin dall’origine spetta e appartiene alla pubblica amministrazione) e la qualifica di agente contabile in capo all’albergatore, come fa l’orientamento dominante, rispetto al quale non emergono elementi idonei a determinarne il superamento.

La formulazione del regolamento comunale in questione, per quanto enfatica (“l’albergatore… risponde direttamente del corretto e integrale versamento del tributo”), è d’altronde compatibile con una lettura diversa da quella sostenuta dalla Cassazione, che valga a riportare l’atto nei binari della legittimità: la norma, letta insieme alle altre previsioni del regolamento, può intendersi più semplicemente come volta a rafforzare la doverosità di compiti inerenti all’incarico di riscossione e conferito al gestore della struttura (in linea con i margini di manovra consentiti all’ente locale nella configurazione della disciplina attuativa della legge); ancora, potrebbe semmai ritenersi che con tale locuzione sia evocata, più che una responsabilità patrimoniale da inadempimento, la rilevanza delle violazioni ai fini dell’applicazione di sanzioni pubblicistiche, tra cui la sanzione amministrativa prevista dallo stesso regolamento.

 

5.2. Anche ove si accetti, come crediamo, che il regolamento comunale contempla l’albergatore quale addetto alla riscossione dell’imposta di soggiorno, può sorgere il problema sub b), adombrato dalla sentenza in esame nella parte finale della motivazione: se cioè l’attività di conteggio, accantonamento e riversamento dell’imposta possa integrare la prestazione di un pubblico servizio, ex art. 358 c.p., necessaria per individuare nell’albergatore il soggetto attivo del peculato. In altre parole, sulla scorta di quanto detto sopra, il quesito è se l’agente contabile sia anche un incaricato di pubblico servizio.

Si tratta di un profilo non compiutamente affrontato nelle sentenze espressive dell’orientamento favorevole a configurare per casi del genere il delitto di peculato, quasi che la prima qualifica determinasse ex se la seconda.

Nella sentenza in esame, come visto, la Corte propende per una risponda negativa, e infatti demanda al giudice del merito lo svolgimento di nuovi accertamenti in fatto per la ricerca di indici di “pubblicità” ulteriori.

Anche questo passaggio, ad avviso di chi scrive, si espone ad alcuni rilievi, che riguardano in particolare i requisiti necessari per integrare, già in astratto, la figura dell’incaricato di pubblico servizio. Premessa dalla Corte la dichiarata adesione alla concezione funzionale-oggettiva – che superando il dato del rapporto di servizio tra privato ed ente pubblico dà rilievo ai caratteri dell’attività concretamente svolta dal primo –, la nozione di pubblico servizio poi enunciata pare eccessivamente restrittiva. Tra i criteri su cui la Corte pone l’accento vi è infatti l’esercizio da parte del gestore della struttura di «poteri pubblicistici»; il criterio è indicato anche tra quelli che dovrebbero guidare il nuovo accertamento in sede di merito, e lo stesso collegio ne fa uso in sentenza, laddove ritiene insufficiente il richiamo al rilascio della quietanza al cliente per qualificare l’albergatore come incaricato di pubblico servizio, sul presupposto che da tale attività «esula qualsivoglia funzione certificativa».

Applicare tale parametro, tuttavia, significherebbe probabilmente pretendere troppo: verrebbe assottigliato, se non travalicato, il confine che separa l’incarico di pubblico servizio dal pubblico ufficiale, posto che la delimitazione del primo rispetto al secondo viene marcata, in negativo, dall’essere il soggetto privo dei poteri tipici della pubblica funzione (tra i quali appunto, ad esempio, i poteri certificativi).

A ben vedere, a un estremo opposto si colloca il criterio – espressamente impiegato dalla Cassazione in uno dei pochi precedenti che si sono soffermati sul punto, risalente al 2018 e sopra citato[10] – che porta a ravvisare l’esercizio di un pubblico servizio purché l’attività svolta abbia natura “ausiliaria”, “accessoria” o “strumentale” al perseguimento di finalità pubblicistiche. In effetti la dottrina prevalente[11] critica l’indeterminatezza di un parametro simile, avvertendone l’incapacità selettiva e mettendo in guardia contro il rischio che per tale via si faccia rivivere la concezione soggettiva.

Una via mediana sembra percorribile, mantenendo aderenza al dato normativo dell’art. 358 c.p. e giungendo ancora alla soluzione positiva già prevalente. Nei casi in esame potrebbe operare in modo soddisfacente il criterio di disciplina, in forza del quale deve verificarsi la circostanza che l’attività svolta (definita in negativo dalla mancanza di esercizio di pubbliche funzioni) sia regolata da norme di diritto pubblico. Alla stregua di questo parametro, dunque, non solo i compiti dell’albergatore possono dirsi con tutta evidenza strumentali alla riscossione dell’imposta da parte dell’ente pubblico, cioè alla attuazione dei poteri di imposizione ed esazione spettanti alla p.a.; ma è altresì chiaro che l’attività dell’albergatore si inserisce in un quadro normativo – in specie di fonte regolamentare – che ne disciplina i compiti sotto molteplici profili (es. obblighi dichiarativi e di rendicontazione) in funzione dell’esercizio, da parte dell’ente pubblico, di poteri autoritativi (es. potere di controllo e sanzionatorio).

Resterebbe solo da verificare, a questo punto, l’applicazione del criterio che, sempre in negativo, definisce il limite inferiore dell’incaricato di pubblico servizio, distinguendolo dall’area dell’irrilevanza penalistica: l’esercizio di mansioni d’ordine o la prestazione d’opera materiale. La soluzione può non apparire scontata, come dimostra ancora una volta la Corte nell’escludere valenza pubblicistica, questa volta, al calcolo dell’imposta dovuta dal cliente (la giurisprudenza tradizionale non sembra invece essersi posta seriamente un problema del genere). Tuttavia, richiamando le considerazioni svolte appena sopra, riteniamo difficile affermare che i compiti svolti in concreto dall’albergatore si risolvono in mero dispiego di energia fisica con effetti confinati al piano materiale, laddove invece richiedere e ricevere un pagamento, onde riversarne le somme a un terzo – per non parlare dell’adempimento degli obblighi dichiarativi connessi – paiono esibire una ben diversa consistenza giuridica[12].

In definitiva, la sentenza in esame mostra un palpabile scetticismo verso le possibilità concrete di continuare a ravvisare nell’albergatore tenuto a riscuotere l’imposta di soggiorno – prima del decreto rilancio – un incaricato di pubblico servizio, argomentando sulla base di una lettura particolarmente esigente del dato normativo (primario e secondario) nonché dei presupposti di fatto rilevanti; gli argomenti spesi possono certo sollecitare la riflessione su aspetti finora rimasti in secondo piano, ma, al di là di alcune precisazioni, non sembra che ne emergano sufficienti ragioni per rimeditare la tesi tradizionale, favorevole a configurare la responsabilità dell’albergatore a titolo di peculato. Ad ogni modo, per i fatti di omesso versamento realizzati prima del 19 maggio 2020 si profila un significativo contenzioso de residuo in sede penale, stando alle indicazioni fornite dalla Cassazione in punto di diritto intertemporale: è facile prevedere che non mancherà l’occasione per ulteriori, autorevoli conferme, da parte della giurisprudenza di legittimità, della ricostruzione sin qui dominante.

 

6. C’è un interessante riferimento, in chiusura delle motivazioni, che fornisce lo spunto per una considerazione finale. Nel disporre l’annullamento con rinvio, la Corte osserva che, nell’ipotesi in cui fosse poi riscontrata l’esistenza degli estremi del peculato, e in particolare dei requisiti dell’incaricato di pubblico servizio, il giudice del merito dovrebbe porsi il problema «della consapevolezza del gestore della struttura alberghiera sulle funzioni e sui poteri pubblici esercitati, e quindi del correlativo elemento psicologico del reato di peculato».

La sentenza si pone qui il problema della colpevolezza dell’agente. Prendendo alla lettera le parole della Corte, è significativo che la prospettiva di un possibile errore dell’albergatore non sia ricollegata a un problema di conoscibilità della legge penale (rilevante ai sensi dell’art. 5 c.p.), ma venga ricondotto, appunto, sul terreno dell’«elemento psicologico del reato», e quindi implicitamente all’ambito dell’art. 47 c.p. In particolare, sebbene non venga specificato, riteniamo che il riferimento debba essere al comma 3 dell’art. 47, che disciplina i casi di errore sul fatto derivante da errore (di diritto) su norma extra-penale.

Questa scelta di campo è del tutto coerente con la premessa secondo cui il regolamento rileva al fine di ravvisare la sussistenza in concreto degli estremi degli elementi costitutivi del delitto di peculato (la qualifica di incaricato di pubblico servizio e la condotta appropriativa), mentre non contribuisce in alcun modo a delinearne la fattispecie astratta: premessa che qui resta implicita e che invece è ampiamente esplicitata da tutte le sentenze della Cassazione che da ultimo hanno ritenuto le «norme che regolamento l’imposta di soggiorno e il rapporto tra il gestore della struttura ricettizia e l’ente comunale» (sia la fonte primaria che, a cascata, i regolamenti attuativi, giocoforza anche quelli locali) norme richiamate da un elemento normativo del precetto penale, inidonee a integrare quest’ultimo[13].

Senonché, è noto e spesso sottolineato dalla dottrina[14], come la giurisprudenza mostri al riguardo un atteggiamento non uniforme e almeno apparentemente contraddittorio: di fronte a norme richiamate da elementi normativi della fattispecie, da un lato – ai fini della successione di leggi penali nel tempo – le considera norme non integratrici e dunque esclude l’applicazione dell’art. 2 c.p., dall’altro lato – ai fini della disciplina dell’errore – con valutazione opposta esclude che esse possano considerarsi “leggi diverse dalla legge penale”, cui applicare l’art. 47 c. 3, sottoponendole al più rigoroso trattamento riservato dall’art. 5 all’errore sul precetto[15]. Con la conseguenza che, sul piano pratico, la soluzione adottata finisce per rivelarsi sempre quella più sfavorevole per il reo.

Nel caso dell’albergatore, quanto ai profili di diritto intertemporale, la Cassazione si impegna ora nell’affermare la natura non integratrice della disciplina tributaria di riferimento, presupposto in forza del quale esclude la retroattività in bonam delle modifiche apportate dal decreto rilancio alla disciplina medesima. Pertanto, a rigore, dallo stesso presupposto dovrebbe discendere la necessità di applicare all’albergatore anche la più favorevole regola in punto di elemento soggettivo cui allude la sentenza in esame, con un correlato ampliamento dei margini di difesa per l’imputato: ai sensi dell’art. 47 c. 3 il difetto di conoscenza o l’errata comprensione della normativa richiamata sarebbe sufficiente, di per sé, a escludere il dolo e quindi la responsabilità dell’albergatore, senza necessità di valutare la l’inevitabilità (e dunque la scusabilità) di tale errore, come invece richiederebbe l’art. 5.

Con due precisazioni. In primo luogo, tale ricostruzione potrà avere senso pratico soltanto ove la giurisprudenza non sostituisca, come talora accade, alla mera verifica dell’errore (di cui si accontenta l’art. 47 c. 3) un giudizio sulla “ragionevolezza” dell’errore, così finendo per riprodurre un criterio di ascrizione della responsabilità di tipo normativo, prescindendo dal contenuto psicologico reale proprio del dolo.

D’altra parte, l’adesione a un approccio più garantistico non significherebbe abdicare in toto alle esigenze di repressione e prevenzione. Vero che l’assenza di dolo di tutti gli elementi del fatto metterebbe fuori gioco l’applicazione del peculato, di cui non esiste versione colposa; ma non deve dimenticarsi la previsione dell’art. 47 c. 2 («L'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso»), in forza della quale potrebbero riscontrarsi nel fatto storico commesso gli estremi oggettivi e soggettivi di un’altra figura delittuosa – quale, emblematicamente, in caso di errore sulla qualifica soggettiva, il corrispondente reato comune: l’appropriazione indebita ex art. 646 c.p.

Anche per tutti questi motivi sarà interessante seguire gli sviluppi della prassi, onde verificare sino a che punto la giurisprudenza saprà tenere fede alle proprie premesse.

 

 

[1] Da ultimo Cass., Sez. VI, sent. 26 gennaio 2021 (dep. 10 maggio 2021), n. 18105, Pres. Petruzzellis, est. De Amicis, ric. Martinez: si rinvia alla nota di commento per la ricostruzione aggiornata dei termini della questione.

[2] Cass. 18105/2021, cit., p. 6-9.

[5] Cass. civ., Sez. un., sent. 15 marzo 2001, n. 12367, in CED Rv. 549579.

[6] Cass. civ., Sez. un., sent. 1 giugno 2010, n. 13330, in CED Rv. 613290.

[7] Corte dei conti, sent. 8 giugno 2015, dep. 22 settembre 2016, n. 22/2016.

[8] Cass., Sez. VI, sent. 17 maggio 2018, n. 32058, imp. Locane, in CED Rv. 273446 (l’estensore è il medesimo della citata sentenza 18105/2021).

[9] Cass., Sez. un., 6987/2021, cit., spec. par. 7.4, p. 19-20.

[10] Cass. 32058/2018, cit.

[11] Cfr. il quadro di sintesi in C. Benussi, sub art. 358, in E. Dolcini – G.L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, IV ed., Wolters Kluwer, 2015, spec. p. 1038-1039.

[12] Rispetto al “gestore” degli incassi degli apparecchi da gioco, di recente le Sezioni unite, ponendosi esplicitamente il problema del carattere meramente materiale delle funzioni da questo esercitate, lo hanno escluso valorizzando il fatto che le attività di manutenzione degli strumenti, di “scassettamento” del denaro e il suo trasferimento sono svolte da un soggetto che risulta destinatario di «penetranti obblighi di controllo, offerta di garanzie, tracciabilità» e dunque partecipa all’esercizio del pubblico servizio demandato primariamente al concessionario della rete e consistente nel controllo delle attività di gioco svolte in regime di monopolio statale (cfr. Sez. un. 6087/2021, cit., par. 10, p. 23-24).

[13] Cfr., da ultimo, Cass. 18105/2021, cit., par. 7.4, p. 15.

[14] Si veda G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, X ed., Giuffrè Francis Lefebvre, 2020, p. 369-370.

[15] Contra, all’esigenza di un trattamento unitario della categoria di norme evocata dall’art. 47 c. 3 hanno però fatto autorevolmente allusione le Sezioni unite Magera (sent. 27 settembre 2007, n. 2451/2008), richiamate peraltro sul punto da Cass., Sez. VI, 28.10.2020 (dep. 17.12.2020), n. 36317, Pres. Bricchetti, Rel. Calvanese, ric. Brugnoli.