Sez. un. 28 settembre 2023 (dep. 14 dicembre 2023), n. 49935, Pres. Cassano, rel. Messini D'Agostini
1. Chiamate a dirimere un contrasto di giurisprudenza, le Sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno affermato che, «ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l’aumento di pena per la recidiva che integri una circostanza aggravante ad effetto speciale non rileva se la stessa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione previsto per il reato come originariamente contestato» (Cass., sez. un., 28 settembre 2023, Domingo).
Si è ritenuto infatti che «l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva del reato, previsto dall'art. 129 c.p.p., se correttamente e tempestivamente adempiuto dal giudice, preclude al pubblico ministero la possibilità stessa di procedere alla contestazione suppletiva, mancando lo stesso segmento processuale nel quale esercitare la facoltà».
In realtà, come si chiarisce nella sentenza, il contrasto giurisprudenziale nasceva dalla «contrapposizione fra natura dichiarativa e natura costitutiva della contestazione della recidiva». Più precisamente, secondo alcune decisioni la contestazione della recidiva «avrebbe natura meramente ricognitiva e non costitutiva, considerato che ogni circostanza è preesistente rispetto alla contestazione e ontologicamente indipendente da essa»; sicché «il fenomeno dell'incidenza sui termini di prescrizione non può che essere ricollegato alla preesistenza della condizione soggettiva medesima» (Cass., sez. V, 2 luglio 2019, Cassarino). Mentre altre decisioni «sono fondate sul presupposto della natura costitutiva della contestazione dell'aggravante, che non rappresenta un mero status desumibile dal certificato penale ovvero dal contenuto dei provvedimenti di condanna»; sicché «la natura costitutiva della contestazione della recidiva non consente di tener conto, ai fini del calcolo dei termini di prescrizione, dell'aumento di pena derivante dalla recidiva medesima ove questa non sia stata contestata prima dello spirare del tempo necessario a prescrivere il reato nella forma non aggravata» (Cass., sez. V, 10 settembre 2019, B.).
2. Le Sezioni unite, premesso che è fuorviante la «contrapposizione fra natura dichiarativa e natura costitutiva della contestazione della recidiva», riconoscono, citando Cass., sez. V, 2 luglio 2019, Cassarino, che la contestazione, «per la recidiva come per le circostanze aggravanti in generale, ha natura ricognitiva, dimostrativa, cioè, della scelta, da parte della pubblica accusa, di attribuire rilevanza ad una condizione soggettiva preesistente dell'imputato ovvero ad una connotazione specifica del fatto-reato, cui corrisponde una facoltà di scelta da parte del giudice, di ritenere o meno rilevante, dal punto di vista delle conseguenze in termini di determinazione della pena, la contestazione stessa, nonché, specularmente, le facoltà previste per l'imputato in funzione dell'esercizio della propria difesa».
La Corte sceglie tuttavia di fondare le proprie conclusioni sull’art. 129 c.p.p., orientando l’obiettivo non più sull’iniziativa del pubblico ministero, vale a dire sull’integrazione della contestazione, bensì sull’intervento del giudice, vale a dire sulla decisione in ordine al fatto contestato.
Le Sezioni unite escludono certo che sia in discussione «la facoltà da parte del pubblico ministero di procedere alla contestazione suppletiva della recidiva, che peraltro non richiede l'autorizzazione del giudice (nei casi di cui all'art. 517 cod. proc. pen. «il pubblico ministero contesta all'imputato» una circostanza aggravante), a differenza di quanto previsto per la contestazione del fatto nuovo, in presenza dei presupposti previsti dall'art. 518, comma 2, del codice di rito». Ma affermano che, qualora la causa di estinzione del reato (non aggravato dalla recidiva) fosse già maturata prima della contestazione integrativa, il giudice, attesa la «precedenza dell’applicazione dell’art. 129 c.p.p. su altri eventuali provvedimenti decisionali adottabili», ha il dovere di riconoscere “ora per allora” l’intervenuta estinzione del reato.
Quando affermano che l'obbligo del giudice di procedere immediatamente alla dichiarazione di estinzione del reato preclude al pubblico ministero la possibilità stessa di procedere alla contestazione suppletiva, le Sezioni unite non ipotizzano dunque l’inammissibilità della sua richiesta ex art. 517 c.p.p., ma piuttosto la mancanza di un’occasione per l’esercizio di questo potere, a causa dell’inesistenza stessa di idoneo «segmento processuale». Sarebbe allora un’impossibilità di fatto, non di diritto, a precludere l’integrazione della contestazione.
3. Tuttavia questa conclusione è in contraddizione con la premessa che, pur essendo preclusa al giudice qualsiasi ulteriore attività processuale (qualsiasi accertamento o approfondimento), è pur sempre necessario che la decisione intervenga nel contraddittorio delle parti, con l’ovvio coinvolgimento anche del pubblico ministero oltre che dell’imputato. E se il pubblico ministero interviene, ha ovviamente anche l’occasione per applicare l’art. 517 c.p.p., con un’iniziativa non sindacabile preventivamente dal giudice.
In realtà le sezioni unite affermano ora che solo «in situazioni non agevolmente risolvibili il giudice potrà anche sollecitare un preventivo contraddittorio specifico sul punto». Ma Cass., sez. un., 25 gennaio 2005, De Rosa, cui la corte dichiara di volersi uniformare, ha ben chiarito che «l'art. 129 c.p.p. non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore ed autonomo rispetto a quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l'epilogo proscioglitivo nelle varie fasi e nei diversi gradi del processo - artt. 425, 469, 529, 530 e 531 stesso codice -, ma enuncia una regola di condotta rivolta al giudice che, operando in ogni stato e grado del processo, presuppone un esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio».
Il giudice non potrebbe dunque pronunciarsi ex abrupto a norma dell’art. 129 c.p.p., senza coinvolgere le parti.
Sicché non potrà mai mancare l’occasione per l’esercizio da parte del pubblico ministero del potere di integrare la contestazione, che non potrà certo essergli precluso dal giudice, come le stesse Sezioni unite riconoscono. E una volta che questo potere sia stato validamente esercitato, il giudice dovrà pronunciarsi sulla imputazione da ultimo contestata, non certo sull’imputazione originaria ormai superata.
L’esigenza di «correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza» (art. 521 c.p.p.) impone al giudice pronunciarsi sull’intero fatto che risulti validamente contestato all’imputato. È priva di qualsiasi fondamento, ed è appunto smentita da Cass., sez. un., 25 gennaio 2005, De Rosa, l’idea che l’art. 129 c.p.p. possa legittimare il giudice a pronunciarsi “ora per allora” su un’imputazione che non è più attuale.
Palesemente contraddittoria è anche l’affermazione che «la omessa pronuncia della doverosa sentenza liberatoria da parte del giudice non può creare un pregiudizio all'imputato che di detta decisione avrebbe dovuto beneficiare, facendo "rivivere", a seguito della contestazione suppletiva della recidiva qualificata, un reato per il quale era già spirato il termine massimo di prescrizione, causa di estinzione che il giudicante avrebbe dovuto riconoscere e che, "ora per allora", va riconosciuta e dichiarata».
Se infatti, come la corte riconosce, la contestazione per qualsiasi aggravante ha natura ricognitiva di una situazione di fatto, l’integrazione della contestazione ex art. 517 c.p.p. non può far “rivivere” il reato, che non s’era estinto affatto in quanto già connotabile come aggravato indipendentemente dalla contestazione. Come la corte ha lungamente (e forse superfluamente) ribadito, il giudice non può ritenere un’aggravante non contestata dal pubblico ministero. Ma ciò non esclude che l’aggravante esista indipendentemente dalla contestazione. È vero che l’eventuale difetto di contestazione dell’aggravante esistente in fatto non giustificherebbe la trasmissione degli atti al pubblico ministero a norma dell’art. 521 comma 2 c.p.p. (C. cost. n. 230/2022). Ma la contestazione integrativa consente appunto di accertare che il reato non è estinto.
Il principio enunciato da Cass., sez. un., 28 settembre 2023, Domingo, è dunque palesemente erroneo. E la Corte di cassazione farebbe bene a correggerlo quanto prima.