Cass. sez. VI sent.24 gennaio 2024 (dep. 27 febbraio 2024) n. 8630, pres. De Amicis, rel. Di Geronimo
1. Con la sentenza che si annota, la Corte di cassazione torna a pronunciarsi in materia di provvedimenti da adottare in caso di trasgressione alle prescrizioni cautelari da parte dell’indagato o imputato.
Più precisamente, nel caso di specie, i giudici di legittimità hanno ritenuto inammissibile il ricorso sulla base del principio secondo cui l’evasione «dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari, ove non ritenuta di lieve entità, determina la revoca obbligatoria degli arresti domiciliari, seguita dal ripristino della custodia cautelare in carcere senza che al giudice sia riconosciuto un potere di rivalutazione delle esigenze cautelari».
Seppure coerente con la lettera dell’art. 276 c.p.p., la conclusione cui perviene la pronuncia in esame disvela numerosi profili di criticità della disciplina normativa per comprendere i quali pare opportuno analizzare sistematicamente il contenuto della disposizione in esame.
Come noto, il comma 1 di quest’ultima stabilisce che «in caso di trasgressione alle prescrizioni inerenti a una misura cautelare, il giudice può disporre la sostituzione o il cumulo con altra più grave, tenuto conto dell'entità, dei motivi e delle circostanze della violazione». In altre parole, pur a fronte di simili violazioni, la norma rimette al giudice una valutazione in concreto dell’effettiva gravità del fatto, e dunque della «opportunità di un inasprimento del trattamento cautelare»[1] che non potrà verificarsi sulla base della mera costatazione della «violazione degli obblighi imposti»[2].
Tale regola trova ulteriore specificazione nel comma 1-bis del richiamato art. 276 c.p.p. in tema di trasgressione delle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare diversa dalla custodia cautelare in carcere da parte dell’imputato che versa in particolari condizioni di salute[3]. Pure per queste ipotesi, l’uso dell’espressione “può disporre” o della congiunzione “anche” inducono a ritenere che la modificazione in pejus della misura cautelare non segue «automaticamente all’accertamento della trasgressione ma viene all’esito di un giudizio di bilanciamento comparativo»[4] tra le esigenze cautelari e la tutela delle condizioni di salute dell’interessato.
Di ben altro tenore è, infine, il comma 1-ter della medesima disposizione, il quale introduce una inedita deroga alla disciplina stabilita dal comma 1 per le ipotesi di trasgressione alle prescrizioni concernenti il divieto di allontanamento dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari[5]. Innestata all’interno dell’articolato codicistico dall’art. 16 del d.l. 24 novembre 2000, n. 341[6] convertito con modificazioni dalla l. 19 gennaio 2001, n. 4[7], il citato comma 1-ter della disposizione de qua stabiliva che il giudice, a fronte di simili inottemperanze, avrebbe sempre dovuto disporre «la revoca della misura e la sostituzione con la custodia cautelare in carcere». Per tale via si era, di fatto, soppressa ogni discrezionalità valutativa del giudice[8] relativa alla «concreta valutazione circa l’attuale pericolosità dell’interessato e l’eventuale adeguatezza perdurante di misure alternative alla carcerazione»[9].
A fronte delle inevitabili situazioni di irragionevolezza connesse all’applicazione indiscriminata del nuovo meccanismo sostitutivo, il legislatore ha interpolato il comma 1-ter dell’art. 276 c.p.p. mediante l’art. 5 della legge 16 aprile 2015, n. 47[10] inserendo, nella parte finale della disposizione, l’equivoco inciso «salvo che il fatto sia di lieve entità».
2. Alla luce di un simile quadro normativo può agevolmente comprendersi come i giudici della Corte di cassazione non abbiano potuto far altro che acclarare la corretta applicazione della disciplina normativa dichiarando, conseguenzialmente, inammissibile il ricorso.
Il perno su cui fa leva l’impianto tecnico-argomentativo della sentenza in commento è rappresentato dall’affermazione del principio di generale obbligatorietà della revoca degli arresti domiciliari nei casi di violazione delle prescrizioni concernenti il divieto di allontanamento dal luogo di esecuzione della misura, a cui fa da corollario l’assenza di un autonomo potere di rivalutazione del giudice dell’aggravamento[11]. Secondo quanto rilevato dal decidente, la mancanza di un sindacato autonomo del magistrato chiamato a modificare in pejus la misura cautelare non rende necessario compiere la valutazione di idoneità degli arresti domiciliari con strumenti elettronici di controllo a distanza ex art. 275-bis c.p.p. Nella prospettiva avallata dagli estensori della pronuncia che si annota, infatti, la disposizione da ultimo richiamata– di portata generale – deve ritenersi derogata dalla disposizione speciale prevista per i soli casi di violazione degli arresti domiciliari.
Seppure “obbligata” dal dettato normativo, la soluzione cui perviene la sentenza in esame non riesce a colmare le criticità di una disciplina che, in realtà, evidenzia profili di debolezza sotto il profilo costituzionale. A quest’ultimo riguardo non può essere trascurato che il Giudice delle Leggi ha già avuto modo, nel 2002, di pronunciarsi[12] sulla tenuta costituzionale del sistema derogatorio previsto dal comma 1-ter dell’art. 276 c.p.p., ritenendo infondate le questioni sollevate.
Nella prospettiva privilegiata dalla Consulta, infatti, «mentre la sussistenza in concreto di una o più delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge (an della cautela) non può, per definizione, prescindere dall’accertamento – di volta in volta – della loro effettiva ricorrenza, non può invece ritenersi soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice l’apprezzamento del tipo di misura in concreto rilevata come necessaria (il quomodo della tutela), ben potendo tale scelta essere effettuata in termini generali dal legislatore» pur nel rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti. Secondo tale lettura, dunque, la norma impugnata integrerebbe a tutti gli effetti un caso di «presunzione di inadeguatezza di ogni misura coercitiva diversa dalla custodia cautelare in carcere una volta che la meno afflittiva misura degli arresti domiciliari si sia rivelata insufficiente allo scopo, per la trasgressione del suo contenuto essenziale».
La soluzione avallata dalla Corte costituzionale, volta ad affidare alla scelta insindacabile del legislatore il vaglio in ordine al «tipo di misura in concreto rilevata come necessaria»[13], non sembra perfettamente in linea con il principio, più volte sottolineato dalla stessa Consulta, del «minor sacrificio necessario»[14] il quale impone di contenere la compressione della libertà dell’indagato o imputato «entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto»[15]. Il precipitato di tale postulato risiede, per un verso, nella strutturazione di un sistema de libertate secondo il modello della pluralità graduata, e, per altro verso, nella conseguenziale e progressiva individualizzazione della coercizione cautelare. Le condizioni e i presupposti per l’applicazione di una misura restrittiva della libertà personale devono essere apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta, alla stregua dei principi di adeguatezza, proporzionalità e, appunto, minor sacrificio.
A tale sistema si sottraggono le ipotesi in cui è possibile sostituire alla discrezionalità dell’organo giudicante un meccanismo presuntivo identificabile in una regola iuris stabilita dal legislatore per la generalità dei casi, sulla base del principio dell’id quod plerumque accidit[16].
In altre parole, congegni presuntivi operanti in tema di limitazioni della libertà personale vengono ritenuti “tollerabili” dall’ordinamento nella misura in cui siano in grado di superare «il duplice test di razionalità e non arbitrarietà, inteso a verificarne la rispondenza a massime di esperienza generalizzate»[17].
Con particolare riguardo al caso che ci occupa, nonostante il carattere sovra inclusivo che inevitabilmente contraddistingue ogni meccanismo presuntivo, non sembra rispondere al parametro della prevalenza statistica il precetto di cui al comma 1-ter dell’art. 276 c.p.p. basato sulla regola di giudizio secondo cui nella quasi totalità dei casi, solo la misura custodiale in carcere risulti adeguata e proporzionata a soddisfare l’aggravamento delle esigenze cautelari determinato dall’evasione. Da tale specifico angolo visuale può, conseguenzialmente, cogliersi l’aporia cognitiva che caratterizza l’imperversare di fenomeni presuntivi. Nel dettaglio non passa inosservato il rilievo per cui tali meccanismi ereditano «quello che costituisce il carattere più problematico delle massime di esperienza»[18] e cioè quello di venire sconfessate in nuce in ragione «delle ipotesi particolari che le stesse intendono regolare»[19].
Se, difatti, l’allontanamento volontario dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari può rappresentare l’indice di una generale «insofferenza alle prescrizioni da parte della persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari»[20], ciò non implica sic et simpliciter l’automatica inadeguatezza di altre misure cautelari o di particolari modalità di esecuzione delle stesse, soprattutto in seguito all’introduzione di meccanismi elettronici di controllo previsti dall’art. 275-bis c.p.p.[21]
Introdotta dal d.l. n. 341/2000, convertito con modificazioni dalla l. n. 4/2001, tale disposizione prevede la possibilità di impiegare strumenti di controllo elettronici al fine di «verificare l’effettivo rispetto delle prescrizioni imposte dal giudice nell’applicazione della misura degli arresti domiciliari o dell’esecuzione domiciliare»[22].
Proprio allo scopo di perseguire tale finalità di rafforzamento delle modalità di controllo, mediante la legge 16 aprile 2015, n.47, il legislatore ha introdotto nel testo dell’art. 275 c.p.p. il comma 3-bis che obbliga il giudice ad «indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’art. 275-bis, comma 1», nella maturata consapevolezza che gli arresti domiciliari con cd. braccialetto elettronico possano garantire un livello intermedio di esigenze cautelari tra quelle che verrebbero soddisfatte mediante il ricorso custodia cautelare in carcere e quelle integrate dall’impiego degli arresti domiciliari senza modalità di controllo elettronico.
A riguardo non può non rilevarsi come sia proprio la predisposizione in capo all’autorità giudiziaria procedente di un simile onere motivazionale, unitamente alla più volte rimarcata extrema ratio della custodia cautelare in carcere, ad imporre un vaglio ancor più incisivo in tema di effettiva aderenza alla «logica della pluralità graduata»[23] in sede cautelare.
Da tale specifico angolo visuale, appare evidente, anche alla luce delle richiamate modifiche legislative, come l’operatività del generale gradualismo cautelare impone di privilegiare modalità di esecuzione alternative alla semplice misura intramuraria.
La conclusione appena patrocinata, oltre a garantire una complessiva ragionevolezza del sistema, appare in linea con l’esigenza di porre rimedio al «dramma tutto italiano del sovraffollamento carcerario»[24].A riguardo, infatti, non si può far a meno di rilevare come, nello stigmatizzare le problematiche condizioni detentive negli istituti penitenziari italiani, in più occasioni[25]i giudici di Strasburgo hanno avuto modo di far riferimento all’elevato numero di detenuti in attesa di una condanna definitiva. Tale contesto resta pressocché immutato allo stato attuale, dove risultano essere più di 9000 i detenuti in attesa di primo giudizio e circa 6000 quelli in attesa di una condanna definitiva[26].
3. La ritenuta irragionevolezza del meccanismo presuntivo in esame, oltre a porsi in contrasto con i principi che governano il sistema cautelare, determina, in via conseguenziale, ulteriori profili di censura della disciplina anche sotto il profilo costituzionale.
Non può sfuggire come la disciplina richiamata si ponga in contrasto con il canone di uguaglianza codificato all’art. 3 Cost. e ciò per differenti ordini di motivi. In primo luogo, in ragione dell’ingiustificato differente trattamento che si verrebbe a determinare rispetto a coloro che sono sottoposti ad altra misura cautelare personale diversa dagli arresti domiciliari in carcere e per le quali il giudice può e non deve disporre la sostituzione o il cumulo con altra misura più grave.
In secondo luogo in virtù dell’irragionevole disparità di trattamento con riguardo all’obbligo di motivazione circa la possibilità che le esigenze cautelari possano essere garantite, nel caso di specie, mediante il ricorso a strumenti elettronici di controllo. Non può, a tal riguardo, trascurarsi come tale obbligo motivazionale, pienamente operante per tutte le ipotesi di misure cautelari, non risulta contemplato per le ipotesi di violazione delle prescrizioni in tema di arresti domiciliari.
Da ultimo, in virtù dell’altrettanto irragionevole privazione del potere-dovere del giudice di adeguare sempre la misura cautelare alle esigenze che la sorreggono nel caso concreto e di garantirne la proporzione rispetto alle esigenze del fatto.
Come noto, infatti, nel disporre la cautela, il magistrato procedente deve necessariamente tenere conto della «specifica idoneità di ciascuna» rapportandola «alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto» in aderenza al principio di adeguatezza, codificato all’art. 275, comma 1 c.p.p. La logica implicazione di tale criterio è che ad essere scelta dovrà essere «la misura meno gravosa per l’imputato tra quelle di per sé idonee a fronteggiare le esigenze [cautelari]»[27]. Gli stessi giudici di legittimità evidenziano, a riguardo, come tali criteri operino «tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale»[28].
Alla luce dei rilievi che precedono, con buona pace di quanto acriticamente affermato dal giudicante, risulta evidente come il principio di stretta necessità della custodia cautelare in carcere in caso di evasione dai domiciliari si ponga in posizione sostanzialmente antitetica rispetto al criterio di adeguatezza cautelare.
A suscitare rilevanti incertezze è la circostanza che l’organo decidente, chiamato ad aggravare la misura cautelare, veda irrimediabilmente compressa la propria libertà valutativa, «eterodiretta dalla presunzione stabilita dalla legge»[29]. L’utilizzo disinvolto di paradigmi presuntivi rischia, difatti, di risolversi, per un verso «in una vera e propria ipertrofia funzionale della cautela, complicando ulteriormente il fragile rapporto tra le garanzie di libertà dell’individuo ed istanze di difesa sociale»[30], per altro verso in una irrimediabile «destrutturazione»[31] della fattispecie cautelare.
Non può, poi, passare inosservato il conseguenziale contrasto con l’art. 13 Cost. Il modello evidenziato, infatti, si traduce sul piano pratico in una totale vanificazione del principio del minor sacrificio necessario, imponendo una compressione della libertà personale dell’indagato o dell’imputato oltremodo gravosa, superiore a quella minima che, nelle circostanze concrete, può risultare necessaria e sufficiente al fine di soddisfare le esigenze cautelari.
L’impiego di paradigmi presuntivi– come quello contemplato all’art. 276, comma 1-ter, c.p.p. – intaccherebbe poi, in modo irrimediabile, il diritto di difendersi provando. Come può agevolmente comprendersi, infatti, la notevole riduzione del thema disputandum, ingenerata dall’impiego di fenomenologie presuntive, comporta per il diritto di difesa l’inevitabile privazione dello stesso oggetto del contendere[32].La radicale semplificazione assiologica conseguente all’impiego di paradigmi presuntivi, difatti, inibisce le facoltà difensive in ragione del quadro probatorio precostituito di cui il giudice non può far altro che limitarsi a prenderne atto.
A fare da cornice ad una siffatta disciplina è, infine, l’infelice formulazione letterale che caratterizza la disposizione in esame. Il comma 1-ter dell’art. 276 c.p.p. infatti, dispone che la revoca della misura degli arresti domiciliari e la successiva sostituzione con la custodia cautelare in carcere – salvo i casi di lieve entità del fatto – avvenga nei soli casi di trasgressione alle prescrizioni concernenti il divieto di allontanarsi «dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora». Ne deriva mutatis mutandis che il meccanismo sanzionatorio contemplato dalla norma analizzata non potrebbe trovare applicazione per le ipotesi di evasione dagli altri luoghi specificati all’art. 284 c.p.p. come quelli di assistenza o cura[33]. Se così fosse, infatti, si violerebbe la riserva di legge assoluta contemplata all’art. 13, comma 2 Cost[34]. Una simile disciplina, pertanto, renderebbe l’art. 276 comma 1-ter costituzionalmente illegittimo in virtù dell’irragionevole disparità di trattamento che viene, nei fatti, a realizzarsi[35].
4. Su un simile contesto operativo non pare aver alcun impatto migliorativo, l’introduzione nel comma 1-ter dell’art. 276 c.p.p. dell’inciso «salvo che il fatto sia di lieve entità».
Nel porre in essere tale interpolazione il legislatore si era posto nel solco dell’interpretazione fornita della Corte costituzionale con cui la stessa aveva aperto «un varco»[36] alla necessaria previsione di un apprezzamento quanto più concreto ed attuale dell’effettiva lesività della condotta[37]. L’inserimento della “clausola di salvezza” della lieve entità, rappresenta, tuttavia, «compromesso foriero di equivoci applicativi»[38].
Giova preliminarmente rilevare che la portata derogatoria della disciplina contenuta nel comma 1-ter dell’art. 276 c.p.p. può cogliersi solo e nella misura in cui si esclude «che il giudice possa provvedere ad un apprezzamento discrezionale delle violazioni commesse», come previsto nella formulazione antecedente all’intervento di riforma. L’inserimento di un necessario apprezzamento dell’entità delle violazioni commesse rende difficile comprendere quale sia, in concreto, il tratto derogatorio della disciplina analizzata a meno di non voler ritenere, con una palese alterazione del tenore letterale della disposizione, che la natura derogatoria della disposizione riguardi anche i parametri della valutazione giudiziale. A ben guardare, infatti, ai sensi del primo comma dell’art. 276 c.p.p. il giudice è chiamato ad esprimere una valutazione circa l’effettiva portata della trasgressione sulla base «dell’entità dei motivi e delle circostanze della violazione». Al contrario, ai sensi del “derogatorio” comma 1-ter, il giudice è chiamato ad apprezzare la sola «entità» della violazione. Così facendo, tuttavia, si giungerebbe a ritenere che un episodio di trasgressione minima, pur se determinata da motivi allarmanti, potrebbe, almeno in teoria, non comportare più la sostituzione degli arresti domiciliari con la custodia in carcere[39]. Per evitare di giungere a tali epiloghi, parte della dottrina[40], ha inteso ritenere applicabili, anche alla valutazione circa la lievità del fatto, gli stessi parametri operanti nel primo comma della disposizione. Così facendo, tuttavia, risulterebbe ancor più complesso stabilire in cosa risieda la “specialità” della disciplina contenuta al comma 1-ter.
A suscitare non poche perplessità è poi la circostanza, sottolineata nella pronuncia in esame, secondo cui «una volta accertata la trasgressione» non sia riconosciuto al giudice un potere di rivalutazione delle esigenze cautelari in quanto il canone della lesività opererebbe solo sull’an della violazione. La valutazione circa la lieve entità del fatto verrebbe a risolversi «in un semplice accertamento della mera presenza o no della trasgressione»[41], vanificando qualsiasi valutazione in tema di lieve entità del fatto. Al contrario, infatti, deve guardarsi con maggior favore all’indirizzo disatteso dagli estensori della pronuncia in commento, che, seppur minoritario, richiede al giudice una «valutazione in concreto della condotta di trasgressione»[42] risultando maggiormente rispettoso del canone di adeguatezza cautelare.
Alla luce dei rilievi che precedono si può con facilità comprende come il ricorso al parametro della lieve entità si configuri come particolarmente problematico «data l’incertezza che lo contraddistingue e, di conseguenza, il rischio di un’applicazione dello stesso che assegna al giudice un’eccessiva discrezionalità […] in grado di produrre esiti diversificati (e irragionevoli) pur a fronte di situazioni identiche»[43]. Incertezza acuita dall’impossibilità di ritenere assimilabile tale parametro a quelli della “particolare tenuità del fatto” ex art. 131-bis c.p. o alla “particolare tenuità” evocata dall’art. 73, comma 5 D.P.R. 309/1990[44]. Sarebbe stato senz’altro consigliabile l’impiego di una formulazione letterale maggiormente chiara anche in ragione del fatto che il parametro della lieve entità, rappresenta, a tutti gli effetti, l’unico «limite operativo alla doverosa revoca e sostituzione della misura domiciliare»[45].
In definitiva ciò che può agevolmente rilevarsi è la macroscopica irragionevolezza sistematica di una deroga al principio della discrezionalità giudiziale che rimane, nei fatti, l’unica garanzia idonea a soddisfare a pieno i richiamati principi del «minor sacrificio necessario» e della «coercizione cautelare minima». Proprio in considerazione di tali rilievi appaiono senz’altro condivisibili le indicazioni fornite al riguardo dalla «Commissione di studio presso l’Ufficio legislativo per elaborare proposte di interventi in tema di processo penale» costituita con decreto del 10 giugno 2013. Nel dettaglio, infatti, con l’obiettivo di ridurre al minimo l’impiego di anomali automatismi cautelari, la Commissione aveva, infatti, indicato quale unica via praticabile quella dell’abrogazione dell’intero comma 1-ter dell’art. 276 c.p.p. Così facendo si sarebbe senz’altro riusciti a restituire all’organo giudicante il potere di «valutare caso per caso la gravità della violazione in rapporto alle esigenze cautelari»[46], come già previsto nei casi di violazione di qualsiasi altra misura cautelare al di fuori degli arresti domiciliari.
[1] In tal senso G. Leo, Sul ripristino della custodia in carcere nel caso di evasione del soggetto in stato di arresti domiciliari, in Dir. pen. e proc. fasc. 10/2008, p. 1257.
[2] Così G. Spangher, sub art. 276, in A. Giarda – G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, II, Wolters Kluwer, 2023, p.146.
[3] Comma introdotto dall’art. 2, L. 12 luglio 1999 n. 231 recante «Disposizioni in materia di esecuzione della pena, di misure di sicurezza e di misure cautelari nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria o da altra malattia particolarmente grave», in G.U.19 luglio 1999, n.167.
[4] Così G. Spangher, sub art. 276, in A. Giarda – G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, cit., p. 151.
[5] La legge 24 novembre 2023, n. 168 recante «Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica» in G.U. n.275 del 24 novembre 2023 ha introdotto l’inciso «in caso di manomissione dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici di controllo di cui all'articolo 275 bis, anche quando applicati ai sensi degli articoli 282 bis e 282 ter».
[6] Decreto Legge 24 novembre 2000, n. 341 recante «Disposizioni urgenti per l'efficacia e l'efficienza dell'Amministrazione della giustizia».
[7] Legge19 gennaio 2001, n. 4, recante «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, recante disposizioni urgenti per l'efficacia e l'efficienza dell'Amministrazione della giustizia» in G.U. n. 16 del 20 gennaio 2001.
[8] In tal senso G. Leo, Sul ripristino della custodia in carcere nel caso di evasione del soggetto in stato di arresti domiciliari, cit., p. 1257.
[9] V. G. Leo, Sul ripristino della custodia in carcere nel caso di evasione del soggetto in stato di arresti domiciliari, cit., p. 1257.
[10] Legge 16 aprile 2015, n. 47 recante «modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità» in G.U. 23 aprile 2015, n. 94. Per approfondimenti sul tema v. T. Bene (a cura di), Il rinnovamento delle misure cautelari - analisi della legge n.47 del 16 aprile 2015, Giappichelli, 2015; G. Spangher, Un restyling per le misure cautelari, in Dir. pen. e proc., fasc. 5/2015, p.529 ss.
[11] Il riferimento è a Cass., Sez. IV, sent. 2 gennaio 2018, n.32 secondo cui «secondo univoca e costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, in tema di arresti domiciliari, la trasgressione delle prescrizioni concernente l’allontanamento volontario del soggetto dal luogo di esecuzione della misura comporta che il giudice, accertata la trasgressione, revochi gli arresti domiciliari e disponga automaticamente la custodia in carcere, senza che gli sia riconosciuto un potere di rivalutazione delle esigenze cautelari», ed ancora Cass., sez. II, sent. 29 ottobre 2019, n. 43940 secondo cui «la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affrontare la questione relativa al rapporto tra istituto dell’aggravamento, disciplinato nella peculiare forma della doverosa revoca degli arresti domiciliari nelle ipotesi previste dall’art. 276 c.p.p., comma 1-ter, e il divieto di applicazione della misura della custodia in carcere nei confronti dei soggetti tenuti in via diretta, o perché impediti i rispettivi coniugi, nel prestare assistenza ai figli minori, affermando il principio della legittimità della sostituzione della misura degli arresti domiciliari, con quella della custodia cautelare in carcere, in ipotesi di trasgressione delle prescrizioni imposte, anche nei confronti dei soggetti di cui all’art. 275 c.p.p., comma 4 senza necessità di verificare la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, osservando in particolare che la violazione del divieto di allontanarsi dalla propria abitazione rende oggettivamente prive di rilievo le particolari condizioni personali che giustificano la misura meno afflittiva in quanto risulta evidente che esse non impediscono comunque l’elusione delle cautele imposte».
[12] Corte cost., Ord. 6 marzo 2002, n.40. In senso analogo anche Corte cost., sent. 21 luglio 2010, n. 265 per approfondimenti si vedano P. Tonini, La Consulta pone limiti alla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, in Dir. pen. proc., fasc. 8/2010, p. 949 ss.; G. Di Chiara, Custodia in carcere e presunzioni assolute di adeguatezza, in Dir. pen. e proc., fasc. 10/2010, p.1150
[13] Cfr. Corte cost. ord. 6 marzo 2002, n. 40.
[14] Cfr. Corte cost., sent. 22 luglio 2005, n. 299.
[15] V. Corte cost., sent. 21 luglio 2010, n. 265.
[16] Per tutte v. Corte cost., sent. 16 aprile 2010, n. 139.
[17] V. F. Centorame, Presunzioni di pericolosità e coercizione cautelare, Giappichelli, 2016, p.186.
[18] Così F. Centorame, Presunzioni di pericolosità e coercizione cautelare, cit. p. 58.
[19] Ibidem.
[20] V. Corte cost. ord. 6 marzo 2002, n. 40.
[21] Per approfondimenti v. S. Bellino, Riflessioni sul ricorso al braccialetto elettronico, in Dir. pen. e proc. fasc. 4/2017, p.490 ss.; M.T. Sturla, Braccialetto elettronico - Arresti domiciliari e “braccialetto elettronico”: una questione ancora aperta, in Giur. It. fasc. 2/2016 p.470 ss.
[22] Così M. Pittiruti, Le modalità di controllo elettronico negli arresti domiciliari e nell’esecuzione della detenzione domiciliare, in R. Del Coco – L. Marafioti – N. Pisani (a cura di), Emergenza carceri radici remote e recenti soluzioni normative. Atti del convegno, Teramo, 6 marzo 2014, Giappichelli, 2014 p.98.
[23] Così N. Galantini, “Diritti cautelari” e restrizione della libertà personale nella logica della proporzionalità, in sistemapenale.it, 30 giugno 2022.
[24] V. R. Del Coco, Il sovraffollamento carcerario e l’ultimatum di Strasburgo, in R. Del Coco – L. Marafioti – N. Pisani (a cura di), Emergenza carceri radici remote e recenti soluzioni normative. Atti del convegno, Teramo, 6 marzo 2014, cit.p.15
[25] Il riferimento è a Corte eur. dir. uomo, Sez II, 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia per un commento alla sentenza si faccia riferimento a M. Bortolato, Sovraffollamento carcerario e trattamenti disumani o degradanti. La CEDU condanna l'Italia per le condizioni dei detenuti, in Quest. Giust. Fasc. 5/2009, p. 111 ss.; Corte eur. dir. uomo, Sez II 8 gennaio 2013, Torreggiani ed aa. c. Italia, per un commento alla sentenza v. F. Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro un anno, in Dir. pen. cont., 9 gennaio 2013.
[26] Secondo quanto rilevato dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - Ufficio del Capo del Dipartimento - Sezione Statistica, al 30 aprile 2024, i detenuti in attesa di primo giudizio risultano essere complessivamente 9409, mentre i detenuti condannati non definitivi pari a 6278 (https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST1402558).
[27] Così V. Grevi – M. Ceresa-Gastaldo, Misure cautelari, in M. Bargis, Compendio di procedura penale, XI ed., Wolters Kluwer, 2023, p. 371.
[28] V. Cass. Sez. II, sent. 24 marzo 2022, n.10383
[29] V. F. Centorame, Presunzioni di pericolosità e coercizione cautelare, cit. p. 103.
[30] Così F. Centorame, Presunzioni di pericolosità e coercizione cautelare, cit. p. 102.
[31] In tal senso F. Centorame, Presunzioni di pericolosità e coercizione cautelare, cit. p. 109.
[32] In tal senso F. Centorame, Presunzioni di pericolosità e coercizione cautelare, cit. p. 146.
[33] Cfr. art. 284, comma 1 c.p.p. secondo cui «con il provvedimento che dispone gli arresti domiciliari, il giudice prescrive all'imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza ovvero, ove istituita, da una casa famiglia protetta».
[34] V. art. 13, comma 2 Cost. in cui si rileva che «non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge».
[35] In tal senso E. Marzaduri, sub art. 16 l. 19 gennaio 2001, n. 4, in Legislazione pen., 2001, p.452.
[36] Così P. Borrelli, Una prima lettura delle novità della legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, in Dir. pen. cont., 3 giugno 2015, p. 15.
[37] Cfr. Corte Cost. Ord. 6 marzo 2002, n. 40 in cui la Consulta aveva rilevato come «una volta che alla nozione di allontanamento dalla propria abitazione si riconosciuta tale valenza rivelatrice in ordine alla sopravvenuta inadeguatezza degli arresti domiciliari, non è escluso che il fatto idoneo a giustificare la sostituzione della misura, tipizzato dal legislatore nella anzidetta formula normativa, possa essere apprezzato dal giudice in tutte le sue connotazioni strutturali e finalistiche per verificare se la condotta di trasgressione in concreto realizzata presenti quei caratteri di effettiva lesività alla cui stregua ritenere integrata la “violazione” che la norma impugnata assume a presupposto della sostituzione».
[38] In tal senso M. Daniele, I vizi degli automatismi cautelari persistenti nell’art. 275, comma 3, c.p.p., in Dir. pen e proc. fasc. 1/2016, p.119.
[39] Cfr. V. Pazienza, Le nuove disposizioni in tema di misure cautelari, Ufficio del massimario, settore penale, 6 maggio 2015, p.15
[40] Così F. Alonzi, Un primo timido passo verso la giusta direzione. Commento all'art. 5 legge 47/2015, in Legislazione pen., 1° dicembre 2015, p. 6, il quale rileva che tale apprezzamento «può essere agevolmente compiuto ricorrendo a quegli stessi parametri indicati nel comma 1 dell’art. 276 c.p.p. e forniti al giudice per misurare il valore delle infrazioni commesse quando si è sottoposti ad una tra le varie misure cautelari. In assenza di una previsione, nel comma 1-ter, che espressamente si occupa di quest’aspetto non sembrano sussistere ostacoli per dare rilievo, anche in caso di trasgressione alla prescrizione di non allontanarsi dal proprio domicilio, all’entità, ai motivi ed alle circostanze della violazione commessa».
[41] V. M. Daniele, I vizi degli automatismi cautelari persistenti nell’art. 275, comma 3, c.p.p., cit. p. 119
[42] Cfr. Cass., Sez.VI, sent. 28 maggio 2008, n. 21487.
[43] V. E.N. La Rocca Le nuove disposizioni in materia di misure cautelari personali (Ddl 1232b), in Arch. pen. 2015, n.2, p. 5.
[44] Così E.N. La Rocca, Le nuove disposizioni in materia di misure cautelari personali (Ddl 1232b), cit. p. 5, la quale rileva «ci si deve chiedere se la lieve entità del fatto in questo contesto possa essere assimilata al criterio della “particolare tenuità del fatto” che ai sensi del D.Lgs., n. 28 del 16 marzo 2015, esclude la punibilità o, piuttosto, a quello valorizzato nel Testo unico sugli stupefacenti (art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309 del 1990). Probabilmente risulterà impraticabile il ricorso alla “particolare tenuità del fatto” che inibisce non solo la punibilità ma, a monte, l’esercizio dell’azione penale. […] Anche la “particolare tenuità” di cui all’art. 73, comma 5, del D.P.R. n. 309 del 1990, così come interpretata dalla giurisprudenza, se potrebbe essere utilizzata nelle ipotesi in cui si proceda per quel delitto, lo stesso non potrebbe dirsi in tutti gli altri casi».
[45] V. Cass., Sez. II, sent. 29 ottobre 2019, n. 43940.
[46] Cfr. La relazione della sottocommissione in tema di misure cautelari istituita in senso alla commissione costituita con decreto del 10 giugno 2013 presso l’Ufficio legislativo, in Dir. pen. cont. 27 ottobre 2014.