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24 Marzo 2023


Osservatorio Corte EDU: febbraio 2023

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



 

A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Francesca Vitarelli (artt. 3 e 10 Cedu) e Gaia Caneschi (artt. 5, 14 e 6 Cedu, art. 1 Prot. 12).

 

In febbraio abbiamo selezionato pronunce relative a: vittimizzazione secondaria di un minorenne in procedimento per abusi sessuali (art. 3 Cedu); detenzione di persona transgender ai soli fini di identificazione (art. 5 e 14 Cedu); sanzioni pecuniarie nei confronti di emittente televisiva per il contenuto sessista di una trasmissione (art. 10 Cedu); tutela di un “whistleblower” (art. 10 Cedu); utilizzabilità in udienza di varianti linguistiche riconosciute (art. 1 Prot. 12, art. 6 Cedu).

 

 

ART. 3 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, 7 febbraio 2023, B. c. Russia

Trattamenti inumani e degradanti – Mancata protezione dell’integrità personale di una minore vulnerabile in un procedimento penale relativo ad abusi sessuali – Vittimizzazione secondaria – Assenza di disposizioni di diritto interno che tutelino i minori vittime di reati – Obblighi positivi – Violazione

La ricorrente lamentava la violazione dell’art. 3 sotto il profilo sostanziale in relazione al divieto di trattamenti inumani o degradanti nonché dell’art. 13 quanto al diritto ad un ricorso effettivo, denunciando di essere stata sottoposta a vittimizzazione secondaria nel corso di un procedimento penale per abusi sessuali da lei subiti nella minore età. In particolare, sosteneva che, non avendo le autorità preso in considerazione la sua particolare vulnerabilità in quanto minore vittima di abusi sessuali, le avevano causato traumi e sofferenze supplementari (§ 46-52). La Corte Edu ribadisce che tra gli obblighi positivi previsti dall’articolo 3 CEDU vi è la tutela dei diritti delle vittime nei procedimenti penali (Corte Edu, sez. II, 9 febbraio 2021, N.Ç. v. Turchia, §§ 95 and 101; Corte Edu, Grande Camera, X e Altri v. Bulgaria, 2 febbraio 2021, § 192) e esamina il caso in tenendo conto anche del diritto internazionale applicabile e in particolare della "Convenzione del Consiglio d'Europa sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento sessuale e gli abusi sessuali" (Convenzione di Lanzarote). Ciò premesso, la Corte osserva che la ricorrente è stata interrogata ripetutamente, da quattro diversi investigatori, tre dei quali erano uomini. Ciò in contrasto con la Convenzione di Lanzarote, che raccomanda che tutti gli interrogatori di minori siano condotti dalla stessa persona. Inoltre, i 12 colloqui si sono svolti in uffici ordinari e non in locali appositamente predisposti per i colloqui con minori e non vi era alcuna prova che gli investigatori fossero stati formati per intervistare minori, mentre l’articolo 36 della medesima Convenzione raccomanda un’adeguata formazione sui diritti dei minori vittime di abusi sessuali di tutte le persone coinvolte nel procedimento, in particolare giudici, pubblici ministeri e avvocati (§ 53-69). La Corte ha concluso che le autorità russe hanno mostrato un totale disinteresse per le sofferenze della ricorrente, soggetto estremamente vulnerabile a causa della sua giovane età, della tragica situazione familiare, dell’inserimento in un orfanotrofio e dei presunti abusi sessuali. Le autorità non hanno protetto la sua integrità personale nel corso del procedimento penale, causando la sua vittimizzazione secondaria. C’è stata quindi una violazione dell'articolo 3 della Convenzione (§ 70-72). (Francesca Vitarelli)

Riferimenti bibliografici: D. Sibilio, Secondo la Corte europea lo Stato ha il dovere di proteggere i minorenni vulnerabili...anche da se stessi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2/2018, p. 982 ss.

 

ARTT. 5 e 14 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 7 febbraio 2023, Dugan c. Turchia

Legittimità della limitazione della libertà personale – detenzione breve di persona transgender a fini di identificazione – violazione

La ricorrente, persona transgender, veniva fermata per interruzione del traffico stradale mentre era intenta ad attrarre clienti per prostituirsi. Condotta presso la stazione di polizia e lì trattenuta per circa due ore per lo svolgimento delle procedure di identificazione, lamentava l’arbitraria limitazione della propria libertà personale e la violazione del divieto di discriminazione per ragioni di orientamento sessuale. Nei provvedimenti emessi all’esito delle impugnazioni presentate avverso la multa irrogata per interruzione del traffico, i tribunali escludevano che la detenzione provvisoria traesse origine, come invece ritenuto dalla ricorrente, da motivi legati alla sua identità sessuale. Tuttavia, uno dei giudici della Corte costituzionale adita, nella sua opinione dissenziente, sottolineava che non è una pratica comune quella di condurre le persone presso la stazione di polizia per lo svolgimento di un’identificazione che avrebbe potuto facilmente essere compiuta in loco (§ 13). Nella propria pronuncia, la Corte europea ha preliminarmente affrontato il tema della privazione della libertà personale ai sensi dell’art. 5 Cedu, e cioè se tale potesse essere considerata la detenzione provvisoria di due ore della ricorrente. Richiamando i suoi precedenti in argomento, la Corte ha affermato che la distinzione tra “privazione” e “restrizione” della libertà si riverbera esclusivamente sul grado di intensità della limitazione e non sulla sostanza: nel caso di specie, la ricorrente era stata portata presso la stazione di polizia contro la sua volontà e non aveva avuto la possibilità di allontanarsi senza l’autorizzazione. Ha pertanto stabilito la Corte che quando è presente un elemento di coercizione, nonostante la breve durata della detenzione, esso è identificativo di una privazione della libertà personale (§ 37). È stato quindi affrontato il tema della legittimità della privazione della libertà, essendo quello previsto dall’art. 5 § 1 Cedu un elenco tassativo di eccezioni ammesse. Esclusa la ricorrenza nel caso di specie delle situazioni di cui alle lett. a), d), e) e f) dell’art. 5 § 1 Cedu, occorreva verificare l’eventuale riconducibilità della fattispecie alle lett. b) o c) della medesima previsione. Con riferimento al secondo periodo della lett. b), che ammette privazioni della libertà «allo scopo di garantire l’esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge», la Corte ha osservato che la procedura di identificazione volta alla verifica del fatto che la ricorrente fosse o meno ricercata dalla polizia è un controllo che si opera interrogando una banca-dati e che, quindi, può essere fatto senza la necessità di condurre la persona alla stazione di polizia (§ 42); inoltre, dal fascicolo non era emerso che si fosse reso necessario l’accompagnamento coattivo per impedire il procrastinarsi dell’interruzione del traffico. Neppure poteva dirsi, dall’esame degli atti, che la ricorrente si fosse rifiutata di fornire informazioni circa la propria identità o di cooperare con la polizia. Quanto al rimanente quesito se la limitazione della libertà potesse essere ricondotta alla lett. c) dell’art. 5 § 1 Cedu, la Corte europea ha considerato decisiva la circostanza che la ricorrente era stata tradotta presso la stazione di polizia per una verifica di tipo amministrativo e per la notifica di una multa per interruzione del traffico: nessun procedimento penale era stato avviato a suo carico, né il pubblico ministero era stato informato dei fatti (§ 46). Non potendo essere ascritta né alla lett. b) né alla lett. c) dell’art. 5 § 1 Cedu, la limitazione della libertà personale posta in essere dalla polizia è stata giudicata ingiustificata. Con riferimento alla violazione del divieto di discriminazione, benché coscienti delle difficoltà, i giudici di Strasburgo hanno preliminarmente ricordato l’applicazione del principio secondo cui incombe sul ricorrente l’onere di provare il trattamento discriminatorio subito. Nel caso di specie, si è osservato che la ricorrente non aveva intrapreso alcuna azione civile o amministrativa, né aveva avviato iniziative penali contro la polizia, limitandosi a chiedere l’annullamento della multa, e neppure aveva argomentato sull’eventuale presenza di ostacoli per azionare rimedi giurisdizionali: questo ha impedito alla Corte di valutare se le autorità interne avessero effettuato un’indagine effettiva a questo riguardo (§ 55) e, di conseguenza, ha reso impossibile stabilire se l’identità sessuale della ricorrente avesse giocato un ruolo nella vicenda. (Gaia Caneschi)

Riferimenti bibliografici: P. Concolino, Accompagnamento coattivo di polizia finalizzato all’identificazione e ricorso effettivo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, p. 1359.

 

ART. 10 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. V., 9 febbraio 2023, C8 c. Francia

Libertà di espressione – Sanzioni pecuniarie nei confronti di una emittente televisiva da parte dell’autorità nazionale francese per la radiodiffusione – Contenuti lesivi dell’immagine delle donne e stigmatizzanti per l’orientamento sessuale della persona – Impatto negativo su un pubblico giovane – Ripetute violazioni da parte della società richiedente dei suoi obblighi etici – Ampio margine di discrezionalità da parte dello Stato – Sanzione proporzionata – Non violazione.

Il ricorrente, l’emittente televisiva francese C8, lamentava la violazione dell’art. 10 CEDU da parte della Francia, in relazione a due decisioni dell’autorità nazionale francese per la radiodiffusione che avevano imposto severe sanzioni pecuniarie al suo canale televisivo per i contenuti sessisti di un programma. In particolare, il ricorrente riteneva che le sanzioni subite non fossero “necessarie in una società democratica” (§ 49-57). La Corte Edu ha anzitutto osservato che i contenuti erano stati trasmessi nell’ambito di un programma televisivo strettamente orientato all’intrattenimento, il cui unico obiettivo era quello di attirare un pubblico il più ampio possibile a fini commerciali. Il filmato denunciato non conteneva, dunque, informazioni, opinioni o idee ai sensi dell’articolo 10 della Convenzione e non aveva contribuito in alcun modo a un dibattito su un argomento di interesse pubblico. In questi casi, la Corte ricorda che può trovare applicazione l’art. 10 CEDU ma lo Stato dispone di un ampio margine di apprezzamento (Corte Edu, 30 gennaio 2018, Sekmadienis Ltd. v. Lituania § 76). (§ 45-48). Ciò posto, occorre considerare che il contenuto era lesivo dell’immagine delle donne e stigmatizzante nei confronti delle persone a causa del loro orientamento sessuale, tale da compromettere la tutela della vita privata, dell’immagine, dell’onore o della reputazione. L’ingerenza dell’autorità governativa era quindi legittima ai sensi dell’art. 10 co. 2 CEDU, tendendo conto anche del necessario bilanciamento con il diritto al rispetto della vita privata e familiare ai sensi dell’art. 8 CEDU (§ 74- 82). La Corte è quindi giunta alla conclusione che, considerando anche l’impatto del filmato in particolare sugli spettatori più giovani e i precedenti della società ricorrente in materia di violazioni regolamentari, le garanzie procedurali di cui aveva goduto nell’ordinamento interno e l’ampio margine di discrezionalità da concedere allo Stato convenuto, le sanzioni imposte alla società ricorrente non hanno violato il suo diritto alla libertà di espressione (§ 95-104). (Francesca Vitarelli)

 

C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 14 febbraio 2023, Halet c. Lussemburgo

Libertà di espressione – Rivelazioni ai media in violazione del segreto professionale – Whistleblowing – Perfezionamento dei criteri “Guja” elaborati dalla Corte Edu per la tutela del whistelblower – Bilanciamento in concreto tra interessi – Effetti pregiudizievoli per la privacy dell’azienda – Prevalenza dell’interesse pubblico – Natura sproporzionata della condanna penale – Chilling effect sulla libertà di espressione – Violazione.

Il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 10 in relazione alla sanzione penale inflittagli per violazione del segreto professionale, da lui considerata un’interferenza sproporzionata con il suo diritto alla libertà di espressione, sotto il particolare profilo della tutela del whistleblower. In particolare, il ricorrente aveva diffuso alla stampa informazioni riservate della società di consulenza in materia fiscale per la quale lavorava, che riguardavano accordi fiscali molto vantaggiosi tra la società - che agiva per conto di multinazionali - e le autorità fiscali lussemburghesi, ed era stato condannato dalla Corte nazionale  al pagamento di una sanzione penale pecuniaria di 1000 euro per aver causato al suo datore di lavoro un danno ritenuto superiore all’interesse generale alla diffusione della notizia (§ 64-80). La Corte ha sottolineato che, ad oggi, non vi è una nozione giuridica univoca di “whistleblower”. Pertanto, la questione se un individuo che afferma di essere un whistleblower abbia o meno diritto alla protezione offerta dall’articolo 10 della Convenzione richiede un attento bilanciamento che tenga conto delle circostanze del caso concreto, del contesto in cui si è verificato e dei vari interessi in gioco. A questo proposito, la Corte ha applicato nel caso di specie i criteri definiti nella sentenza Guja v. Moldavia (Corte Edu, Grande Camera, 12 febbraio 2008, Guja c. Moldavia) al fine di valutare se e, in caso affermativo, in quale misura, un soggetto che riveli informazioni riservate ottenute nell’ambito di un rapporto di lavoro possa invocare a sua tutela l’articolo 10 CEDU. In più, consapevole della sempre maggiore attenzione rivolta al fenomeno del whistleblowing - in considerazione del ruolo fondamentale che può svolgere in una società democratica - e degli sviluppi che si sono verificati dopo la sentenza Guja nel 2008, la Corte ha ritenuto opportuno confermare e consolidare  i principi stabiliti nella suddetta sentenza  in materia di protezione degli informatori, affinando i criteri per il bilanciamento degli interessi in gioco alla luce dell’attuale normativa europea e internazionale (§ 113-154). In conclusione, la Corte, dopo aver ponderato i vari interessi in gioco e tenuto conto della natura e della gravità della sanzione, nonché del chilling effect sulla libertà di espressione del ricorrente e di qualsiasi altro potenziale whistleblower, ha concluso che l’interferenza con il suo diritto alla libertà di espressione, in particolare alla libertà di informazione, non era “necessaria in una società democratica”. Ne consegue che vi è stata una violazione dell'articolo 10 della Convenzione (§ 155-207). (Francesca Vitarelli)

 

ARTT. 1 PROT. 12 e 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 7 febbraio 2023, Paun Jovanović c. Serbia

Divieto di discriminazione – ingiustificato divieto di utilizzare in udienza una variante linguistica ufficialmente riconosciuta – obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali – violazione

Il ricorso riguarda l’utilizzo, nell’ambito di un procedimento giudiziario, di due varianti della lingua serba («ekavian» e «ljekavian»), entrambe ufficialmente riconosciute dallo Stato convenuto. Nel corso di un’udienza di un processo penale, il ricorrente, in veste di difensore dell’imputato, nell’esaminare un testimone, si rivolgeva a lui utilizzando la variante linguistica «ljekavian», ma veniva interrotto dal giudice che gli rammentava la necessità di utilizzare la lingua ufficiale, senza che, peraltro, analogo richiamo venisse rivolto al difensore della vittima, che aveva impiegato invece la variante «ekavian». Dinanzi al richiamo ricevuto, il ricorrente chiedeva ed otteneva che venisse riportato nel verbale d’udienza – seppure in forma sintetica – l’accaduto. Nel procedimento azionato dal ricorrente dinanzi al consiglio giudiziario, il giudice forniva una differente ricostruzione dei fatti, sostenendo che non di discriminazione si era trattato, ma della semplice richiesta di riformulare la domanda a beneficio del testimone che non l’aveva compresa. Ritenendo comunque di essere stato discriminato per l’utilizzo della variante montenegrina della lingua serba, il ricorrente presentava anche un’impugnazione dinanzi alla Corte costituzionale, che rigettava il ricorso per ragioni di rito (assenza di una «azione individuale» nei confronti del ricorrente). Basando il proprio convincimento sul verbale d’udienza, la Corte europea ha sottolineato che il richiamo indirizzato al ricorrente implicasse comunque che la lingua da egli utilizzata non fosse ammessa indistintamente, a differenza di quanto accaduto nei confronti della variante linguistica impiegata dall’altro difensore (§ 83). Tra l’altro, nel verbale veniva chiaramente riportata la richiesta di utilizzare la variante linguistica “ufficiale” (come se quella «ljekavian» non fosse riconosciuta come tale). Comparando la posizione dei due difensori nel presente caso, che possono essere considerati persone in una situazione analoga ai fini del giudizio sulla discriminazione, e richiamando il riconoscimento ufficiale delle due varianti della lingua serba, la Corte ha dunque riconosciuto la violazione dell’art. 1 Prot. n. 12 Cedu. Con riguardo alla doglianza relativa all’aver la Corte costituzionale interna omesso di motivare in ordine al rigetto dell’impugnazione, i giudici di Strasburgo hanno in effetti rilevato la mancanza di argomentazioni relative alla carenza dei presupposti, non essendo stato spiegato, in particolare, perché la condotta del giudice non potesse essere considerata una «azione individuale» nel significato attribuito dalla Carta costituzionale (§ 105). Per tali motivi, è stata riscontrata anche la violazione dell’art. 6 § 1 Cedu. (Gaia Caneschi)