Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Cecilia Pagella (artt. 2, 8 e 10 Cedu) e Michele Pisati (artt. 5, 6 e 8 Cedu).
In maggio abbiamo selezionato pronunce relative a: minacce e obblighi di protezione della vita (art. 2 Cedu); controllo sui presupposti procedurali della detenzione (art. 5 Cedu); ingiustificata esclusione del pubblico dall’udienza (art. 6 Cedu); intercettazioni di massa (due pronunce, una delle quali relativo al caso Snowden) (art. 8 Cedu); stereotipi sessisti e vittimizzazione secondaria (art. 8 Cedu); whistleblowing (art. 10 Cedu).
ART. 2 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, 11 maggio 2021, Penati c. Italia.
Denuncia di abusi e minacce da parte dell'ex compagno – richiesta di protezione – omicidio – effettività e imparzialità delle indagini – non violazione.
Nel caso all'esame della Corte, una donna si rivolgeva insistentemente alla polizia e all'autorità giudiziaria per denunciare le minacce e gli abusi fisici e verbali subiti dall'ex compagno e per ricevere protezione per sé e per il figlio di otto anni, nei cui confronti il padre (tossicodipendente, affetto da un disturbo bipolare e profondamente depresso) aveva mostrato in più occasioni un atteggiamento morboso e non tutelante. Solo dopo alcuni anni dal primo contatto della donna con le autorità, il Tribunale dei minori richiedeva l'intervento dei servizi sociali, disponendo inoltre che entrambi i genitori si sottoponessero a un percorso di sostegno psicologico e che il bambino incontrasse il padre alla presenza di un assistente sociale. La scelta di accordare fiducia all'uomo si rivela tragicamente errata: durante un incontro "protetto", approfittando della temporanea assenza dell'assistente sociale, Y.B. uccideva il figlio e si toglieva la vita. Le Corti interne escludevano la responsabilità degli assistenti sociali, ritenendo che su di loro non gravasse alcun obbligo di impedire il delitto: la decisione del Tribunale dei minori (che la parte civile riteneva fonte della posizione di garanzia) poneva, infatti, a carico degli assistenti esclusivamente doveri di sostegno educativo e psicologico, sanciti per porre rimedio a una situazione di conflittualità tra i genitori, mentre non prevedeva alcun dovere di protezione dell'integrità fisica del minore (che, infatti, ad avviso degli esperti, non era in pericolo) (§ 126). La Corte europea dei diritti dell'uomo esclude la violazione dell'art. 2 della CEDU sotto il profilo procedurale, ritenendo che le autorità giudiziarie italiane avessero assolto all'obbligo di condurre indagini scrupolose, approfondite e imparziali onde accertare se sui vari attori coinvolti gravassero obblighi di protezione della vita e dell'integrità fisica del minore, e se tali obblighi fossero stati adempiuti: durante le tre fasi del giudizio – durato complessivamente quattro anni – erano state ascoltate le deposizioni di numerosi testimoni nonché della stessa parte civile, erano state condotte due autopsie su entrambi i corpi e un esame tossicologico su Y.B., erano stati raccolti i rapporti degli assistenti sociali ed erano stati assunti gli esiti delle perizie psicologiche condotte sull'assassino (§ 184-187). La Corte puntualizza, in conclusione, che l'esito assolutorio del giudizio non è sufficiente per affermare che le indagini non siano state condotte accuratamente (§ 190). (Cecilia Pagella)
Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L'Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 3/2017; B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli organi inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 4/2020.
ART. 5 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. III, 18 maggio 2021, Manzano Diaz c. Belgio
Diritto alla libertà e alla sicurezza – controllo di legalità della detenzione – presupposti procedurali – non violazione.
Il ricorrente, ritenuto socialmente pericoloso, lamenta la violazione delle garanzie procedurali stabilite dall’art. 5 comma 4 CEDU nel corso del giudizio di cassazione sulla legittimità del suo internamento in una struttura di cura psichiatrica. Il primo motivo di doglianza riguarda la condotta del consigliere relatore della Corte di cassazione belga, il quale ha trasmesso la bozza di sentenza soltanto all’avvocato generale presso la Corte di cassazione, e non anche al ricorrente medesimo. Il secondo motivo concerne l’aver preso conoscenza delle conclusioni dell’avvocato generale, peraltro in forma orale, soltanto all’udienza, e non preventivamente (§ 42). La Corte edu, nell’esaminare il ricorso, svolge alcune importanti premesse. In primis, è ribadito che, a mente dell’art. 5 CEDU, i giudizi di controllo sulla privazione della libertà personale, oltre la necessaria giurisdizionalità, esigono il contraddittorio e la parità delle armi (§§ 38-41). In secondo luogo, la Corte chiarisce il ruolo istituzionale, nel diritto belga, dell’avvocato generale presso la Corte di cassazione, il quale non è parte processuale, svolgendo, secondo la più stretta obiettività, un compito di ausilio ai giudici di legittimità e di vigilanza sull’unità degli orientamenti giurisprudenziali (§ 43). Ne deriva, per i giudici di Strasburgo, l’impossibilità di applicare, con riguardo a tale soggetto, il principio di parità fra le parti invocato dal ricorrente (§ 44). Inoltre, la Corte edu soggiunge che la bozza di sentenza non è idonea a influenzare la decisione finale, in quanto rappresenta un documento di lavoro interno, coperto dal segreto e non soggetto al principio del contraddittorio (§ 46). Infine, si rileva che la mancata conoscenza, in anticipo, delle conclusioni dell’avvocato generale non ha prodotto alcun pregiudizio in capo al ricorrente, dal momento che anche i giudici di legittimità e il pubblico hanno conosciuto le posizioni dell’avvocato generale soltanto in udienza e in forma esclusivamente orale (§ 50). Tutto ciò premesso, è coerente la conclusione della Corte nel senso del rigetto del ricorso. (Michele Pisati)
Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Impugnazioni de libertate e garanzie minime dell’equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 968; L. Pressacco, Latitanza e “giusto processo cautelare”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 363.
ART. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. III, 11 maggio 2021, Kilin c. Russia
Equità processuale – diritto a una pubblica udienza – ingiustificata esclusione del pubblico – violazione.
La Corte di appello russa esclude la presenza di giornalisti e pubblico dall’udienza per esigenze di protezione dei soggetti processuali desunte, in via esclusiva, dalla gravità del titolo di reato per cui si procede (§ 21). Il ricorrente, accusato nel procedimento a quo, lamenta la violazione dell’art. 6 comma 1 CEDU (§ 97). In via preliminare, la Corte e.d.u. ribadisce che la pubblicità dello svolgimento processuale, nel proteggere le parti – in primis, l’accusato – da una giustizia segreta sottratta al controllo della collettività, risulta funzionale alla realizzazione dell’equo processo. In questo contesto, l’interdizione, alla stampa e al pubblico, dell’accesso alle aule d’udienza può essere ammessa solamente, in via d’eccezione, per la tutela di interessi generali (la morale, l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale), interessi di singoli soggetti (la protezione dei minori o la riservatezza delle parti) ovvero nella misura giudicata strettamente necessaria dal giudice, allorché la pubblicità possa pregiudicare gli interessi della giustizia (§ 106). Nell’applicare tali princìpi consolidati al caso di specie, i giudici di Strasburgo ritengono non giustificata l’esclusione dei giornalisti e del pubblico e accolgono il ricorso. In particolare, la Corte afferma che, in assenza di ulteriori e più concrete istanze di protezione di coloro che partecipano al giudizio, il titolo del reato non è, di per sé, base sufficiente a fondare l’interdizione della pubblicità delle udienze (§ 109). (Michele Pisati)
ART. 8 CEDU
C. eur. dir. uomo, 25 maggio 2021, Grande Camera, Big Brother Watch e al. c. Regno Unito.
Caso Snowden – Intercettazioni di massa – criteri per valutare la legittimità dettati per le intercettazioni mirate – necessità di adeguamento all'evoluzione tecnologica – violazione.
Secondo quanto rivelato nel 2013 da Edward Snowden, i servizi di intelligence britannici (Government Communications Headquarters, in seguito GCHQ), avevano messo in atto un imponente programma di intercettazioni di massa chiamato TEMPORA, che aveva consentito al Governo di raccogliere e immagazzinare un'enorme quantità d'informazioni attraverso tre canali: intercettazione diretta da parte del GCHQ; acquisto delle informazioni intercettate dal Governo degli Stati Uniti (e in particolare dalla National Security Agency – NSA) nell'ambito dei programmi PRISM e Upstream; acquisto delle informazioni intercettate da società private di telecomunicazioni. I ricorrenti – giornalisti e ONG che sospettavano di essere stati sottoposti a intercettazione – lamentavano che tutte le procedure descritte violassero gli artt. 8 e 10 della Convenzione. Tradizionalmente, la giurisprudenza CEDU applica sei criteri – originariamente dettati per le intercettazioni mirate – anche per valutare la compatibilità dei regimi di intercettazione di massa con l'art. 8: la natura degli illeciti per accertare i quali è consentito ricorrere a tali strumenti investigativi; l'individuazione delle categorie di persone assoggettabili ad essi; la durata; la procedura prescritta per l'esame, l'utilizzo e la conservazione dei dati; le precauzioni da adottare ai fini di comunicare i dati ad altri; le circostanze che ne impongono la distruzione (§ 274). L'intercettazione mirata e quella di massa, tuttavia, si distinguono per natura e obiettivi: l'intercettazione in massa si concentra sulle comunicazioni che oltrepassano i confini statali (§ 344); inoltre, le intercettazioni mirate vengono solitamente disposte nell'ambito di un'indagine penale, mentre quelle di massa sono utilizzate dagli Stati per garantire la sicurezza (sventare attacchi informatici e terroristici, porre in essere attività di controspionaggio...) (§ 345). Al fine di assicurare che il regime di intercettazioni di massa non si risolva in una violazione dell'art. 8, allora, le garanzie “minime” dettate dalla Corte con riguardo alle intercettazioni mirate devono essere integrate con criteri ulteriori: che la legge indichi per quali motivi e in quali circostanze un'intercettazione di massa possa essere disposta; che la misura sia necessaria e proporzionata agli scopi perseguiti, nonché autorizzata da un'autorità indipendente, incaricata anche della supervisione sulla procedura; che siano previsti meccanismi di ricorso avverso le misure disposte (§ 361). Per finire, è necessario stabilire a quali condizioni le informazioni raccolte possano essere trasferite, e sarà consentito procedere allo scambio solo qualora lo Stato destinatario ponga in essere tutele adeguate a prevenire gli abusi (§ 362). Quanto al regime di intercettazione disposto dal GCHQ, la Corte riscontra una violazione dell'art. 8, in quanto non era prevista un'autorità indipendente che vagliasse sulla procedura disposta (§ 425). Ritiene, al contrario, che il regime di acquisto delle informazioni raccolte dai servizi segreti statunitensi non si ponesse in contrasto con l'art. 8 CEDU, in quanto esistevano norme chiare che stabilivano le circostanze e le condizioni a cui tale scambio di informazioni poteva essere richiesto, meccanismi per garantire che una simile procedura non fosse lo strumento per aggirare le garanzie previste a livello interno e garanzie adeguate per l'esame, l'utilizzo, la conservazione, la trasmissione, la distruzione dei dati raccolti (§ 508); inoltre, la procedura era sottoposta all'autorizzazione di un'autorità indipendente britannica e soggetta a controllo ex post (§ 512). Infine, la Corte ritiene che violasse l'art. 8 la richiesta di informazioni rivolta dal Regno Unito a compagnie private di telecomunicazioni: il diritto interno non individuava, infatti, i «gravi illeciti» per svelare i quali le informazioni avrebbero potuto essere richieste e non prevedeva alcun controllo da parte di un'autorità indipendente (§ 519). Dalle violazioni dell'art. 8 discendeva, rispetto alle intercettazioni disposte nei confronti dei giornalisti, quella dell'art. 10. (Cecilia Pagella)
Riferimenti bibliografici: V. Vasta, Tracciamento elettronico e tabulati telefonici: anche l'Italia a rischio condanna? In Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 2/2018; F. Ertola, Mass surveillance e diritto alla privacy, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 1/2019; M. Pisati, Full collection of data e diritto di difesa, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 4/2019
C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 25 maggio 2021, Centrum för rättvisa c. Svezia
Diritto al rispetto della vita privata – intercettazioni di massa – violazione.
La Corte e.d.u. interviene nella sua massima composizione sulla compatibilità, con il diritto al rispetto della vita privata, delle intercettazioni di massa effettuate per la tutela della sicurezza nazionale, prendendo in esame la legislazione svedese in materia. La Grande Camera muove, innanzi tutto, dal distinguo, su un piano generale, fra intercettazioni “mirate” (targeted interception), usate in via principale nelle indagini penali, e intercettazioni di massa (bulk interception), non riguardanti soggetti determinati e utilizzate anche – laddove non primariamente – per finalità di prevenzione e intelligence (§ 236). Poiché le intercettazioni di massa rappresentano una interferenza nella privatezza degli individui, garantita dall’art. 8 CEDU, la Corte sottolinea la necessità, per la legislazione nazionale, di stabilire con sufficiente chiarezza i presupposti per svolgere simili operazioni, onde evitare abusi e arbìtri da parte dell’autorità (§ 237). Più nello specifico, la Corte enumera le seguenti garanzie indefettibili: una autorizzazione preventiva proveniente da un soggetto indipendente, che valuti la necessità e la proporzionalità delle operazioni; un sistema di supervisione contestuale allo svolgimento delle operazioni; last, but not least, un meccanismo di controllo ex post facto sulla legittimità delle operazioni, esperibile da chi ritenga che le proprie comunicazioni siano state intercettate (§§ 262-275). In questo quadro di carattere generale, la Corte e.d.u., nell’accogliere le doglianze dei ricorrenti, evidenzia i fondamentali deficit della legislazione svedese, ossia l’assenza di regole chiare sulla distruzione del materiale intercettato, laddove non contenga dati personali (§ 342); la possibilità di trasmettere il materiale intercettato a Stati terzi senza tenere in considerazione la privacy degli individui interessati (§§ 326-330); nonché l’assenza di un effettivo meccanismo di controllo ex post facto sullo svolgimento delle operazioni (§§ 359-364). (Michele Pisati)
Riferimenti bibliografici: F. Ertola, Mass surveillance e diritto alla privacy, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 653.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 27 maggio 2021, J.L. c. Italia.
Violenza sessuale di gruppo – assoluzione basata su dettagli della vita privata della vittima senza alcun legame con i fatti da accertare – stereotipi sessisti – vittimizzazione secondaria – violazione.
La ricorrente, presunta vittima di violenza sessuale di gruppo, si rivolgeva alla Corte lamentando che, in seguito alla denuncia da lei presentata, era stata sottoposta a lunghi e traumatizzanti interrogatori presso i locali della polizia, durante i quali erano stati scandagliati i più intimi dettagli della sua vita privata, famigliare e sessuale, poi fatti oggetto di approfondito scrutinio durante le udienze pubbliche del processo, nonché posti a base della sentenza di assoluzione resa dalla Corte d'Appello di Firenze (ormai definitiva, in quanto non impugnata dal Pubblico Ministero). Quanto, in particolare, alla motivazione della sentenza di secondo grado, la ricorrente sostiene che i frequenti riferimenti alle sue abitudini sessuali e al suo stile di vita fornissero la dimostrazione che la Corte aveva inteso esprimere un giudizio sulla sua vita privata (ritenuta «anormale») più che sulla responsabilità penale degli imputati. L'atteggiamento delle autorità italiane configurerebbe – ad avviso della ricorrente –violazione dell'art. 8 CEDU, che prescrive particolare cautela durante i procedimenti penali aventi ad oggetto delitti sessuali: in tali contesti, le autorità procedenti devono adoperarsi al fine di proteggere la dignità e la riservatezza delle persone offese, per scongiurare il rischio di vittimizzazione secondaria. La decisione resa dalla Corte è articolata e può essere sinteticamente illustrata come segue: a) gli interrogatori condotti dalla polizia, per quanto indubbiamente dolorosi per la ricorrente, non sono in grado di rivelare un'attitudine intimidatoria o irrispettosa da parte delle forze dell'ordine, che hanno perseguito esclusivamente l'obiettivo di raccogliere tutti gli elementi utili alla ricostruzione dei fatti (§ 130); b) quanto al processo, ancorché la difesa degli imputati non abbia esitato, per screditare la presunta vittima, a interrogarla insistentemente su dettagli della sua vita personale e sulle sue abitudini sessuali senza alcun legame con i fatti contestati (una pratica, la Corte lo sottolinea, palesemente contraria non solo alle fonti sovranazionali ma anche al diritto penale italiano), il Presidente del collegio giudicante era sovente intervenuto per assicurare la correttezza dell'esame, aveva concesso alla ricorrente delle pause e aveva impedito l'ingresso in aula dei giornalisti; poiché anche il P.M. aveva sempre tenuto un atteggiamento rispettoso, non era possibile rimproverare alle autorità la condotta delle parti private nemmeno a titolo di omesso controllo (§ 131 e 133); c) viola, invece, l'art. 8 CEDU la motivazione della sentenza d'Appello che, nel soffermarsi su dettagli della vita della ricorrente senza alcun legame con i fatti di causa (solo a titolo di esempio: gli indumenti intimi di colore rosso indossati dalla ragazza, la sua bisessualità, i rapporti sessuali occasionali da lei intrattenuti con alcuni coetanei, la scelta di prendere parte a un cortometraggio nel quale impersonava una prostituta vittima di violenza sessuale) e nel prendere posizione sul suo stile di vita (ancora a titolo esemplificativo: il suo orientamento sessuale è definito «ambiguo»; la sua scelta di denunciare è ricondotta alla volontà di prendere le distanze da una condotta di vita «non lineare») (§ 136) veicola stereotipi sessisti che hanno lo scopo di minimizzare la violenza e di colpevolizzare chi la subisce, così avverando il rischio di vittimizzazione secondaria (§ 141). (Cecilia Pagella)
ART. 10 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. III, 11 maggio 2021, Halet c. Lussemburgo.
Diffusione di documenti riservati di un'azienda – whistleblowing – interesse pubblico alla conoscenza degli illeciti – pregiudizio alla società – proporzionalità delle sanzioni inflitte al denunciante – non violazione.
Nel 2012, una fuga di documenti riservati della società PricewaterhouseCoopers (PwC) rivelava la pratica degli ATAs (Advanced Tax Agreements), accordi fiscali vantaggiosi tra il governo lussemburghese e alcune multinazionali, dando avvio allo scandalo Luxleaks. Poco dopo, il ricorrente – H., ex dipendente di PwC – trasmetteva alla stampa altri documenti fiscali riservati, la cui diffusione alimentava l'interesse del pubblico per la vicenda. Condannato in Lussemburgo, H. si rivolgeva alla Corte europea, lamentando la violazione dell'art. 10 della Convenzione. Per accertarla, la Corte riprende i criteri elaborati dalla sentenza Guja c. Moldavia, avente specificamente ad oggetto la questione della denuncia, da parte del dipendente, di atti illeciti di cui lo stesso fosse venuto a conoscenza sul luogo di lavoro (una pratica ormai nota come whistleblowing). In base a tale giurisprudenza, per accertare se l'ingerenza nella libertà d'espressione del dipendente sia giustificata occorre tenere conto: dell'interesse pubblico soddisfatto dalla divulgazione delle informazioni; della loro autenticità; della disponibilità di altri canali attraverso i quali procedere alla diffusione; della buona fede del dipendente; dell'entità del danno subito dalla società o dall'ente di appartenenza, comparata al vantaggio conseguito dal pubblico mediante la diffusione della notizia; della gravità delle sanzioni inflitte al whistleblower (§ 85). Nel caso di specie, la Corte si sofferma in particolare sugli ultimi due criteri, alla luce dei quali giudica legittima l’ingerenza nella libertà d'espressione del ricorrente: in primo luogo, il pregiudizio causato all'immagine della società risultava superiore all'interesse pubblico alla diffusione, perché i documenti trasmessi alla stampa assomigliavano a quelli già resi noti in precedenza, così che le nuove informazioni, lungi dall'aver dato avvio a Luxleaks, contribuivano esclusivamente ad alimentare l'interesse per la vicenda (§ 109); inoltre, le pene inflitte al ricorrente, consistenti in un'ammenda scarsamente afflittiva, non erano idonee a dissuadere i dipendenti dal denunciare, in futuro, altri illeciti, invitandoli, più semplicemente, a riflettere sull'opportunità del loro gesto (§ 111). (Cecilia Pagella)