Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Mario Nicolini (artt. 2, 3 e 14 Cedu) e Serena Chionna (artt. 6 e 8 Cedu).
In marzo abbiamo selezionato pronunce relative a: protezione di vittime di violenza di genere (artt. 2 e 14 Cedu); suicidio di militare a seguito di comportamenti vessatori da parte dei commilitoni (artt. 2 e 3 Cedu); diritto di difesa e accusa penale non formalizzata (art. 6 Cedu); arresto per inottemperanza all’ordine di espulsione eseguito all’interno dell’abitazione senza autorizzazione giudiziaria (art. 8 Cedu); diritto alla corrispondenza dei detenuti (art. 8 Cedu).
ART. 2 CEDU
C. eur. dir. uomo, Sez. III, 22 marzo 2022, Filippovy c. Russia
Inadempimento degli obblighi di adozione dell’approntamento di adeguati strumenti di protezione della vita di un militare suicidatosi a seguito di vessazioni subite dai coscritti – Ineffettività delle investigazioni relative alla morte
I ricorrenti, genitori di un militare russo in servizio di leva obbligatoria morto suicida, si dolevano innanzi alla Corte EDU denunciando la violazione dell’art. 2 CEDU per la mancata protezione da parte della Federazione Russa dei membri delle Forze armate contro trattamenti degradanti commessi da loro commilitoni nel corso di un prolungato periodo di tempo. La vicenda traeva origine da un episodio di grave vessazione subito dalla vittima ad opera di un suo commilitone nel lontano 2006 e dalla stessa regolarmente denunciato ai superiori. A fronte di ciò, le autorità militari non provvedevano ad assumere misure adeguate, ma, anzi, ripartivano gli incarichi militari in modo tale che i commilitoni, venuti a conoscenza della pregressa denuncia, assumessero nei confronti della vittima un atteggiamento ritorsivo ed aggressivo a fronte del quale nessuna iniziativa veniva assunta dai superiori stessi, che, anzi, tendevano a minimizzare e, in qualche caso, nascondere gli episodi di violenza denunciati (§§ 5-7). A seguito del suicidio del militare, veniva aperta un’inchiesta per istigazione al suicidio nell’ambito della quale i superiori dichiaravano di non aver riscontrato significative anomalie nel comportamento della vittima (§§ 16ss.). Nel determinarsi su tale violazione, la Corte osserva preliminarmente che l’ordinamento militare dello Stato prevede sistemi di valutazione ed assistenza psicologica cui sono demandate valutazioni sulle attitudini del personale militare (§ 71) anche al fine di prevenire comportamenti autolesionistici o suicidari e che nel caso di specie il soggetto non si era avvalso di tali servizi di assistenza, né apparivano manifeste deficienze strutturali cui ricondurre il suicidio dello stesso (§ 72). Tuttavia, vengono riscontrate carenze in termini di assenza di specifiche procedure volte a salvaguardare la vita di soggetti che siano vittime di atteggiamenti di bullismo o maltrattamenti all’interno delle forze armate o che si siano decisi a denunciare tali condotte: in particolare, si rileva che essi non sono adeguatamente protetti contro possibili ritorsioni a loro danno (§ 73). Tale valutazione non si fonda su considerazioni di astratta adeguatezza degli strumenti normativi approntati, ma su una valutazione in concreto del loro funzionamento alla luce della quale dev’essere dato di riscontrare un effettivo danno alla persona (§ 74). Tale danno viene riscontrato, nel caso di specie, alla luce della cattiva gestione degli incarichi affidati alla vittima da parte dei suoi superiori nell’ambito dell’organizzazione militare da cui è derivata un’indebita esposizione a ritorsioni ed atteggiamenti vessatori (§§ 75-76). Tali obblighi di protezione vengono in particolare declinati nel contesto del servizio di leva militare obbligatorio, nell’ambito del quale l’ordinamento è gravato di particolari obblighi di protezione con il solo limite dell’imprevedibilità dei comportamenti dei militari stessi, non prevenibili nemmeno con l’approntamento di adeguati strumenti di tutela. Nel caso di specie, la Corte ritiene provato (§ 79) che le autorità fossero a conoscenza della diffusione di pratiche vessatorie nell’ambito delle forze armate e che fra i rischi conseguenti a tali comportamenti vi fosse anche quello del suicidio, specialmente in considerazione del fatto che la vittima si era decisa a denunciare un proprio commilitone esponendosi con ciò ad atteggiamenti ritorsivi a suo danno, e dovendo, per questo, essere protetto come soggetto vulnerabile. Tuttavia, pur a fronte di tale consapevolezza, viene riscontrata una inerzia pressoché totale da parte delle autorità competenti rispetto all’assunzione di adeguate misure protettive (§ 80), sostanzialmente affidate ai soli trasferimenti senza che, peraltro, essi garantissero un’effettiva separazione fra la vittima e gli altri coscritti che erano a conoscenza della pregressa denuncia da lui formulata (§ 81), e rispetto alla quale non è stata adeguatamente garantita la confidenzialità (§ 83). Si rileva, inoltre, che al soggetto non è stata fornita adeguata assistenza psicologica (§ 84). In base a ciò, viene ritenuta la violazione dell’art. 2, ribadendo che ai fini di tale giudizio non sia necessaria la prova che l’adozione di adeguate misure avrebbe con certezza prevenuto la morte del soggetto, essendo sufficiente, invece, la prova che esse avrebbero ridotto o mitigato tale rischio (§ 86). La violazione del diritto alla vita è argomentata anche sulla base di considerazioni procedurali (§§ 89ss.) in ragione della carenza di effettive indagini sulla morte, caratterizzate da adeguati requisiti di oggettività, imparzialità, trasparenza e tempestività con adeguato coinvolgimento anche delle vittime. Viene ravvisata, in particolare, una carenza di trasparenza riverberatasi in un’infettiva tutela delle vittime (§ 92): ai parenti del militare, infatti, non veniva riconosciuta tale qualifica ed essi erano perciò indebitamente privati della possibilità di un’efficace interlocuzione con gli organi inquirenti. Si ravvisa, inoltre, che nessuna indagine effettiva era stata condotta sul piano delle vessazioni endemiche che caratterizzavano la vita militare in cui era coinvolta la vittima essendosi essa limitata ad accertare le dinamiche di un singolo episodio di colluttazione con un altro commilitone (§ 93). Per i profili relativi alla violazione dell’art. 3, v. infra. (Mario Nicolini)
C. Eur. Dir. Uomo, Sez. IV, 22 marzo 2022, Y. e altri c. Bulgaria
Mancata protezione di una donna assassinata dal marito nonostante le sue numerose precedenti segnalazioni di episodi di violenza – inadeguatezza delle misure preventive – omesso controllo sulle misure preventive adottate
Le ricorrenti, madre e figlie di una donna bulgara uccisa dal marito dopo numerosi episodi di violenza domestica protrattisi per vari mesi, ricorrevano alla Corte EDU denunciando la violazione dell’art. 2 CEDU per l’inerzia delle autorità nazionali nel fornire tutela preventiva e dolendosi di come tale comportamento omissivo rispecchiasse un atteggiamento di generale tolleranza da parte della pubblica autorità verso episodi di violenza contro le donne e fosse, perciò, da considerarsi discriminatorio. Nei due anni precedenti all’omicidio della donna, ella aveva adito numerose volte la pubblica autorità per denunciare condotte minacciose da parte del marito in più occasioni, e, ciò non ostante, le forze dell’ordine non si erano mai seriamente attivate per la tutela della sua incolumità, omettendo qualsiasi tipo di accertamento finalizzato a vagliare adeguatamente la consistenza delle minacce nonché l’effettiva pericolosità dell’uomo, senza adeguatamente agire per dare esecuzione all’ordine di protezione con divieto di allontanamento emesso dalla Corte Distrettuale di Sofia a carico dell’uomo. La vicenda si inserisce nel peculiare contesto politico-criminale della Bulgaria, la cui Corte costituzionale (§ 73) aveva negato la legittimità costituzionale della Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere, ancora non ratificata nonostante la raccomandazione del Parlamento europeo in tal senso (§ 74) e le Osservazioni Conclusive del Comitato delle Nazioni Unite per l’Eliminazione della Discriminazioni contro le Donne (§ 75ss.) che rilevavano sul punto la presenza di vuoti di tutela, suggerendo al governo l’adozione di specifiche misure. La Corte ravvisa una violazione dell’art. 2 CEDU in rapporto all’inadeguata protezione garantita dalle autorità nazionali alla vita della donna. Sul punto si sottolinea che le autorità hanno gravemente sottovalutato la situazione di pericolo per l’incolumità della donna, omettendo di far fronte adeguatamente alle numerose segnalazioni inoltrate dalla stessa, sia in forma orale che per iscritto, contenenti esplicite e ben circostanziate richieste di far fronte ad una grave situazione di pericolo in atto, il cui deterioramento è sfociato nell’omicidio della donna da parte del suo ex marito-persecutore; si stigmatizzano, inoltre, le gravi omissioni di cui si è resa responsabile l’autorità di pubblica sicurezza rispetto ad ogni attività di controllo e sorveglianza sull’effettiva ottemperanza da parte dell’uomo agli ordini restrittivi emessi a suo carico (§ 90), senza nemmeno preoccuparsi di verificare che egli possedesse armi da fuoco (§ 100). Il giudizio di responsabilità si fonda sull’assunto che adeguate misure preventive avrebbero ragionevolmente potuto prevenire l’esito infausto a danno della donna (§ 106) qualora le circostanze del caso fossero state adeguatamente valutate dalle autorità di polizia (§ 105) anche in considerazione del fatto che sulla base degli stessi presupposti di fatto ad esse noti, l’autorità giurisdizionale bulgara si era risolta nel senso di adottare misure cautelari restrittive a protezione della donna. Per i profili relativi all'art. 14 Cedu, v. infra. (Mario Nicolini)
Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, 3, pp. 1192 ss.; B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. It. Dir. Pen. Proc., 2020, 4, pp. 2112 ss.
ART. 3 CEDU
C. eur. dir. uomo, Sez. III, 22 marzo 2022, Filippovy c. Russia
Mancata protezione di appartenenti alle forze armate contro trattamenti degradanti commessi da commilitoni protrattisi per un lungo periodo di tempo da cui derivava angoscia patologica – Inadeguate indagini sulle responsabilità dei superiori gerarchici in un contesto di generalizzate pratiche vessatorie endemiche alle forze armate russe
Per la sintesi dei fatti e i profili relativi al diritto alla vita, v. supra sub art. 2 Cedu. I ricorrenti si dolevano, altresì, della violazione dell’art. 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti). Nel decidere su tale profilo, la Corte richiama la necessità di un giudizio caso per che caso, che tenga conto della natura e del contesto in cui il trattamento degradante ha avuto luogo, della sua durata e dei suoi effetti sul corpo e sulla mente, nonché delle caratteristiche soggettive delle persone coinvolte: il fatto che nella generalità dei casi sia dato riscontrare una qualche forma di lesione fisica o un’intensa sofferenza mentale, non esime dal valutare che, anche in assenza di tali occorrenze, un atteggiamento vessatorio che leda gravemente l’umana dignità, e si dimostri capace di mettere a repentaglio la resistenza fisica o morale di chi lo subisce possa comunque essere sussunto dentro la nozione di tortura convenzionalmente rilevante (§ 96). Nel caso di specie, si riscontrano sia significativi e frequenti episodi di violenza fisica che continui insulti e vessazioni realizzate dai commilitoni, come si desume dalle continue e reiterate richieste di trasferimento avanzate da militare. Si richiama l’obbligo per ciascuno Stato aderente alla Convenzione di predisporre un adeguato quadro normativo e regolatorio che fornisca protezione contro trattamenti inumani e degradanti e comprenda, in presenza di circostanze univoche, l’adozione di specifici interventi di protezione di coloro che di tali trattamenti siano vittima. Alla luce di ciò, considerando la lunga durata del periodo di tempo in cui si sono succedute le richieste di trasferimento e la protratta esposizione ad atteggiamenti ritorsivi cui è stato soggetto il militare, la Corte ravvisa la violazione dell’art. 3 tanto sotto il profilo della violazione degli obblighi preventivi di ordine sostanziale (§§ 101-103), per le ragioni fin qui richiamate; quanto sotto il profilo degli obblighi procedurali (§ 106) in ragione del fatto che il procedimento sanzionatorio disciplinare non aveva garantito l’adeguata partecipazione delle persone offese né ha adeguatamente preso in considerazione la natura endemica degli episodi vessatori nell’ambito delle Forze Armate russe i cui organi gerarchici si sono, al contrario, attivati per garantire copertura rispetto a tali violazioni. (Mario Nicolini)
ART. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. III, 15 marzo 2022, Bjarki H. Diego c. Islanda
Equità processuale – accusa penale non formalizzata – diritto di difesa – violazione
Il ricorrente, condannato per frode (§ 12), adiva la Corte di Strasburgo lamentando la violazione del diritto a un equo processo ai sensi dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. a e c Cedu, per essere stato sentito durante la fase delle indagini in qualità di testimone, pur essendo già considerato indagato e, quindi, senza aver potuto godere dei diritti di difesa propri di tale posizione (§§ 7-10). La Corte europea ha rilevato preliminarmente che, sebbene il ricorrente non fosse stato formalmente dichiarato indagato, egli era stato intercettato per due mesi prima della sua audizione ed il pubblico ministero, nel chiedere l’autorizzazione per eseguirle, aveva affermato più volte che vi erano sospetti di un suo coinvolgimento nelle attività criminali oggetto delle indagini (§§ 44 e 45): ciò, ad avviso della Corte, è sufficiente per affermare che sussisteva sostanzialmente un’“accusa penale” nei suoi confronti e che di conseguenza egli avrebbe dovuto godere degli specifici diritti di difesa sanciti dall’art. 6 comma 3 Cedu (§ 47). In particolare, sebbene al momento del colloquio il ricorrente fosse stato informato dell’oggetto delle indagini e del suo diritto a non auto-incriminarsi, non gli era stato comunicato che già vi era un’“accusa a suo carico”, in violazione di quanto stabilito dall’art. 6 comma 3 lett. a (§ 50). Per di più, il ricorrente non era stato informato neppure del suo diritto ad essere assistito da un difensore (§§ 51 e 52). Infine, la Corte di Strasburgo nell’evidenziare la particolare natura delle accuse in oggetto, dovuta alla complessità dei reati finanziari, sottolinea come, sebbene non sia possibile stabilire con certezza se le dichiarazioni rese dal ricorrente senza l’assistenza del difensore siano state “direttamente incriminanti”, queste abbiano comunque influito sostanzialmente sulla sua posizione (§§ 57 e 58). Si conclude che il Governo islandese non è riuscito a dimostrare in modo convincente che gli atti investigativi, considerati nel loro insieme, non abbiano pregiudicato l’equità complessiva del procedimento nei confronti del ricorrente (§ 60). (Serena Chionna)
Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Violazione della difesa tecnica ed equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1211;
ART. 8 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. III, 8 marzo 2022, Sabani c. Belgio
Diritto al rispetto del domicilio – arresto per inottemperanza all’ordine di espulsione eseguito all’interno dell’abitazione senza autorizzazione giudiziaria – violazione
La ricorrente, cittadina serba, giunta con la propria figlia in Belgio, proponeva diverse domande di asilo, le quali venivano integralmente rigettate dalle autorità e a cui facevano seguito una serie di ordini di allontanamento, mai ottemperati (§ 4). Contestualmente alla notifica di un nuovo ordine di lasciare il territorio belga, l’Ufficio Stranieri incaricava la polizia di verificare presso la sua abitazione che tale ordine venisse da lei adempiuto e, in caso negativo, di arrestarla (§ 5). Dai verbali amministrativi redatti dalla polizia emergeva sommariamente come la ricorrente avesse liberamente aperto la porta della sua abitazione e, una volta verificata l’inottemperanza agli ordini, essa fosse stata arrestata, perquisita e, in quanto “poco collaborativa”, trasferita in manette presso un centro di detenzione per stranieri (§§ 6-8). La ricorrente proponeva prontamente ricorso alle autorità nazionali, lamentando di essere stata ingiustamente ammanettata e arrestata all’interno della sua abitazione, in violazione del suo diritto al rispetto del domicilio, come sancito dall’art. 8 Cedu (§§ 12 e 13). Tuttavia, il giudice di primo grado rigettava il ricorso affermando che l’irregolarità del soggiorno giustificasse la privazione della sua libertà e l’ingerenza domestica. Tale decisione veniva poi confermata dalla Corte d’appello e dalla Corte di cassazione, in base all’argomentazione che l’arresto amministrativo fosse legittimo in quanto avvenuto a seguito di un “controllo di polizia” eseguito sulla base di poteri attribuiti dalla “Legge sulla funzione di polizia” e non di una “perquisizione domiciliare”, per la quale sarebbe stata invece necessaria la previa autorizzazione di un giudice (§§ 14-16). Esaurite le vie di ricorso interno, la ricorrente adiva così la Corte di Strasburgo. Quest’ultima, dopo aver accertato la sussistenza di un’ingerenza nel diritto all’abitazione (§§ 41-47), ne ha verificato l’eventuale giustificazione ai sensi del comma 2 dell’art. 8 Cedu (§§ 48-58). A questo riguardo, la Corte europea ha rilevato come, nel caso di specie, anche prescindendo dalla superficialità del verbale amministrativo, appaia incontestabile che la polizia si sia recata presso l’abitazione della ricorrente con finalità di controllo (§ 44), senza darne preavviso né, a fortiori, motivazione. Di talché, non sarebbe possibile affermare che il solo fatto di aver aperto la porta rappresenti l’espressione di un consenso libero e informato, imprescindibile per una valida rinuncia al diritto in questione da parte di chi ne sia titolare (§ 46). L’ingerenza, dunque, secondo le argomentazioni della Corte europea, appare accertata e non fondata sulla legge, in quanto, con riferimento a tale fattispecie, non sussiste alcuna base giuridica che conferisca agli agenti di polizia il potere di entrare senza autorizzazione del giudice nella residenza di uno straniero (§§ 55-57). Tale ingerenza, unita all’uso non giustificato delle manette durante l’arresto (§§ 59-61), ha secondo la Corte costituito una violazione dell’art. 8 Cedu (§§ 58 e 61). (Serena Chionna)
Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Perquisizione domiciliare e ricorso effettivo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1749
C. eur. dir. uomo, sez. II, 29 marzo 2022, Nuh Uzun c. Turchia
Diritto al rispetto della corrispondenza – intercettazione, scansione e memorizzazione della corrispondenza privata dei detenuti – violazione
I ricorrenti, quattordici cittadini turchi detenuti in diverse carceri in ragione dell’appartenenza ad un’organizzazione terroristica, chiedevano alle autorità competenti di cessare la pratica della scansione e registrazione, sulla Banca dati del Ministero della Giustizia (“UYAP”), della loro corrispondenza in entrata e in uscita (§ 5). I giudici respingevano tali richieste ritenendo che la pratica contestata fosse conforme alle procedure e alla legge secondo cui, ad eccezione dei fax e delle lettere consegnate in busta chiusa ai difensori, tutte le altre comunicazioni dovessero essere obbligatoriamente scansionate e registrate sulla banca dati “UYAP” accessibile a tutti i tribunali, organi giudiziari e dipartimenti di polizia del Paese (§§ 6 e 8). Esaurite le vie di ricorso interno, i ricorrenti adivano così la Corte europea denunciando la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare protetto dall’art. 8 Cedu, sotto il particolare profilo della tutela della corrispondenza e dei dati personali. Nel caso di specie, la Corte europea ha dapprima ritenuto che il semplice fatto di aver scansionato e memorizzato la corrispondenza dei detenuti nel sistema “UYAP” per un periodo di tempo considerevole abbia rappresentato un’interferenza nel diritto dei detenuti al rispetto della loro corrispondenza, considerando che quest’ultima poteva contenere informazioni di carattere personale, e ciò anche a prescindere dal successivo utilizzo che di tali informazioni sia stato fatto (§§ 81 e 82). In secondo luogo, la Corte di Strasburgo ha indagato la possibile giustificazione di tale limitazione, che il comma 2 dell’art. 8 Cedu individua primariamente nella sussistenza di una base legale (§ 83). Quest’ultima non è stata ravvisata, in quanto la pratica si fondava su circolari del Ministero della giustizia contenenti istruzioni per le direzioni carcerarie, e pertanto inidonee a rispettare il carattere di sufficiente “qualità” della legge, necessaria per prevenire un’ingerenza arbitraria delle autorità pubbliche nei diritti garantiti dalla Convenzione (§§ 89, 92, 96-99). (Serena Chionna)
ART. 14
C. Eur. Dir. Uomo, Sez. IV, 22 marzo 2022, Y. e altri c. Bulgaria
Mancata prova del fatto della correlazione fra inadempimento degli obblighi di protezione e discriminazione basata sul genere
Per la sintesi dei fatti e i profili relativi al diritto alla vita v. supra sub art. 2 Cedu. I ricorrenti si dolevano della violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione) lamentando il fatto che le autorità non avessero preso seriamente le minacce alla vita della vittima nonostante univoci elementi in tal senso e ciò non costituisse un episodio isolato, ma fosse espressivo di un atteggiamento di generale sottovalutazione verso la violenza contro le donne riconducibile all’ordinamento nel suo complesso (§ 112). Prima di esaminare la doglianza, la Corte ricapitola i principi elaborati in punto di discriminazione (§ 122), richiamandone la definizione in termini di ingiustificato trattamento di situazioni analoghe che può evincersi non solo in ragione della struttura normativa ma anche dell’effettiva applicazione delle norme di legge: da questo punto di vista, mentre sul privato grava l’onere di dimostrare la differenza di trattamento, è lo Stato a doversi discolpare provando che tale differenza fosse giustificata, dimostrando, nello specifico caso della violenza contro le donne, che costituisce una forma di discriminazione, di aver adottato adeguate misure di controllo e prevenzione. Nel negare la ricorrenza di tale violazione nel caso di specie, la Corte rileva che non sia stata presentata adeguata prova per affermare che le autorità bulgare attuassero pratiche tali da dissuadere le vittime di violenza a dolersi di quanto da loro subito né che le corti sistematicamente ritardassero l’emissione di ordinanze protettive in loro favore (§ 124). Inoltre, pur essendo provata una seria violazione degli obblighi di tutela rappresentata dalla mancanza di statistiche ufficiali che diano conto dell’attività di repressione, la Corte ritiene che i dati allegati dai ricorrenti per ritenere comunque provata l’inerzia sistemica non siano sufficienti né sotto il profilo quantitativo né dal punto di vista della loro completezza (§§ 126-128). Sul piano ordinamentale più generale, non vengono ravvisati elementi sistemici tali da far ritenere il diritto bulgaro strutturalmente inadeguato ad affrontare con efficacia il fenomeno della violenza contro le donne: da questo punto di vista, non viene ritenuta sufficiente la considerazione della mancata ratifica della Convenzione di Istanbul da parte dello Stato (§ 130) anche in considerazione del fatto che tale omissione ha avuto causa in una decisione della Corte costituzionale bulgara non motivata da ragioni attinenti a profili sostanziali di tutela contro la violenza di genere, esulando, peraltro, dalle competenze della Corte ogni giudizio sull’opportunità o doverosità per qualsiasi Stato contraente di aderire o meno a trattati internazionali, scelta rimessa ad un’insindacabile discrezionalità politica. Posto, dunque, che nessuna carenza sistemica è riscontrata nel sistema legislativo, la Corte si premura di accertare se tali omissioni possano rilevarsi nel caso concreto e perviene, anche su questo punto, ad un giudizio negativo (§§ 132ss.), rilevando che la concreta vicenda processuale non ha offerto riscontri di condotte da cui possa desumersi che le autorità di pubblica sicurezza avessero dissuaso la vittima dal coltivare le proprie denunce, né che dallo svolgimento del processo possano evincersi tali carenze in capo all’autorità giurisdizionale: le carenze di tutela, dunque, sono riconducibili ad inerzie non correlate ad una generale attitudine discriminatoria. (Mario Nicolini)
Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, 3, pp. 1192 ss.; B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. It. Dir. Pen. Proc., 2020, 4, pp. 2112 ss.