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17 Aprile 2024


Osservatorio Corte EDU: marzo 2024

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



 

A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Gaia Filocamo (artt. 3, 10, 13 e 14 Cedu) e Roberta Casiraghi (artt. 5 e 6 Cedu).

In marzo abbiamo selezionato pronunce relative a: obblighi positivi sostanziali e procedurali in caso di ricovero coattivo di minore in ospedale psichiatrico (artt. 3, 13 e 14 Cedu); legalità e durata della detenzione provvisoria (art. 5 Cedu); riqualificazione del fatto in appello e garanzie processuali (art. 6 Cedu); principio di immediatezza processuale e giudizio di rinvio (art. 6 Cedu); condanna per diffamazione e chilling effect (art. 10 Cedu).

 

 

ART. 3 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. II, 26 marzo 2024, V.I. c. Moldavia

Trattamento inumano e degradante – ricovero in ospedale psichiatrico in condizioni inadeguate e somministrazione di terapie psichiatriche ad un orfano di quindici anni con lieve disabilità intellettiva – assenza di comprovate esigenze mediche – violazione

Ineffettività delle attività di indagine– inadempimento degli obblighi positivi tramite la predisposizione di un sistema efficace nel fornire la dovuta tutela ai soggetti vulnerabili – assenza di un meccanismo di revisione e prevenzione degli abusi terzo e indipendente per le ipotesi di sottoposizione a trattamenti psichiatrici coattivi – violazione

La vicenda sottoposta all’esame della Corte è quella che ha visto il ricorrente – cittadino moldavo, al tempo quindicenne – coattivamente sottoposto ad un ricovero psichiatrico ed alla correlativa somministrazione di cure farmacologiche per il trattamento di disturbi psichici. La condizione di particolare vulnerabilità del minore – già orfano dall’età di undici anni e da allora affidato alla tutela legale del Sindaco di una cittadina moldava– si era esacerbata con la diagnosi di una lieve disabilità intellettiva. Di seguito, una ricognizione cronologicamente ordinata di ciò che ne è venuto: dopo un periodo trascorso in ospedale per ricevere un primo trattamento psichiatrico, il ricorrente era stato collocato temporaneamente in un orfanotrofio, fino all’ammissione per l’anno 2013-2014 in un collegio. Sul finire del mese di maggio 2014, tuttavia ­– in sospetta coincidenza con la necessità di trovare una sistemazione ove potesse trascorrere l’estate – l’intervento di un medico della struttura l’aveva destinato a un nuovo ricovero in ospedale psichiatrico, così contravvenendo alla discorde volontà del quindicenne. Quella che sarebbe dovuta essere una permanenza di tre settimane si era poi protratta per alcuni mesi, nel corso dei quali pure aveva avuto luogo il trasferimento dal reparto psichiatrico per minori a quello per adulti. Perché l’intervento delle istituzioni fosse sollecitato, si era dovuto attendere che l’amministrazione dell’ospedale medesimo – inascoltata dal Sindaco, allora ancora tutore legale del ricorrente – si rivolgesse all’Ombudsman ed al Center for Human Rights e che ne conseguisse l’interessamento alla vicenda da parte del Servizio di assistenza psico-pedagogica di Nisporeni. Quest’ultimo – incontrato il ragazzo, che per la prima volta riceveva visite dall’esterno – aveva poi rilevato l’insussistenza di particolari bisogni educativi speciali e una capacità non ancora del tutto sviluppata nel confrontarsi con situazioni di socialità o, più in generale, di stress. Nel novembre dello stesso anno, veniva dato luogo alle dimissioni – con affidamento alle cure di un cugino – dopo mesi di più terapie farmacologiche combinate (tra le quali figuravano quelle a base di tranquillanti, antipsicotici, anticonvulsivanti, nootropi, nonché farmaci atti a scongiurare il rischio di overdose di tranquillanti e, non ultimi, betabloccanti per il cuore). Non faceva passare molto tempo il ricorrente prima di denunciare l’ingiustizia di quanto era potuto accadere alle competenti autorità, facendone così scaturire un procedimento penale che, tuttavia, si concludeva con il proscioglimento di tutti gli imputati. Adita dal giovane moldavo, la Corte europea rileva anzitutto la carenza dell’indagine svolta – seppur prontamente iniziata – sulle circostanze in cui il ricovero presso l’ospedale psichiatrico era avvenuto. Tra le altre, l’assenza di un qualsivoglia accertamento sul giudizio del medico che, stando alla ricostruzione dei fatti, ne avrebbe deciso il ricovero, senza aver mai preso contatto con il ricorrente (§§ 109-112); e, ancora, la mancanza di approfondimento in relazione alla effettiva necessarietà, nonché alle conseguenze patite da quest’ultimo a seguito delle pesanti terapie farmacologiche protrattesi per mesi. Secondariamente, il vaglio si concentra sull’inesistenza di un sistema di garanzie efficace per chi si trovi ad esser sottoposto coattivamente al genere di trattamenti sanitari in questione, a maggior ragione trattandosi di un minore, orfano e reso particolarmente vulnerabile da disabilità intellettive. Un sistema di tal sorta – per dirsi adempiente rispetto agli obblighi positivi imposti agli Stati membri dall’architettura della Convenzione – dovrebbe predisporre un meccanismo di tutele legali potenzialmente attivabili da parte di un terzo indipendente, per prevenirne eventuali abusi (§ 129). Nel caso di specie, il ricorrente ha subìto la violazione di una serie di norme che pure compongono il quadro giuridico moldavo di riferimento, in materia di presa in carico di minori da parte di servizi per la salute mentale: la necessaria separazione dei minori dagli adulti; la considerazione delle loro volontà; i periodici controlli volti ad accertare la persistenza delle ragioni che ne motivano il trattamento; nonché, non ultimo, il divieto di sottoporre a trattamenti psichiatrici chi non abbia ricevuto diagnosi certa di disturbi della medesima natura, tra cui deve farsi rientrare il soggetto con mere disabilità intellettive. Per tutto quanto fin qui considerato, con particolare riferimento all’inadeguatezza dell’intervento dello Stato moldavo a tutela dei diritti fondamentali del ricorrente, la Corte attesta la denunciata violazione dell’art. 3 Cedu. (Gaia Filocamo)

Riferimenti bibliografici: D. Sibilio, Secondo la Corte europea lo Stato ha il dovere di proteggere i minorenni vulnerabili… anche da se stessi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, pp. 982 ss.

 

ART. 5 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 19 marzo 2024, Parıldak c. Turchia

Legalità della detenzione provvisoria – durata ragionevole della detenzione provvisoria – controllo tempestivo sulla legalità della detenzione – violazione

La ricorrente, una giornalista, viene arrestata e posta in custodia cautelare con l’accusa di appartenere a un’organizzazione terroristica (§ 9 e 12). Nel corso del procedimento penale, la questione della protrazione della custodia cautelare viene periodicamente esaminata: in sede di indagine, dal giudice di pace (§ 14-16); durante il giudizio di primo grado, dalla corte d’assise (§ 20 e 24).  L’imputata rimane in vinculis lungo tutto il processo, che si conclude con la sua condanna. Nelle more del processo, il ricorso costituzionale con cui l’imputata contesta la legittimità della detenzione provvisoria e la violazione del suo diritto alla libertà d’espressione viene rigettato dopo circa sette mesi (§ 30 ss.). Invocando l’art. 5 comma 1 Cedu, la ricorrente afferma l’assenza di un ragionevole sospetto della commissione di un reato. La Corte europea rammenta anzitutto che, affinché possa parlarsi di “ragionevole sospetto”, occorre l’esistenza di fatti o circostanze idonei a convincere un osservatore oggettivo che l’accusato possa aver commesso il reato (§ 59); in secondo luogo, i fatti invocati devono ragionevolmente essere ricondotti a una fattispecie penalmente illecita (§ 60); infine, i fatti rimproverati non devono apparire espressione legittima di uno dei diritti garantiti dalla Convenzione (§ 61). Nel caso in esame, il giudice europeo rimarca che né il giudice che ha applicato la misura né quelli che hanno disposto la proroga hanno menzionato nelle loro decisioni gli elementi di prova su cui si sono basati, limitandosi a richiamare i fatti rimproverati all’accusato nel corso dell’interrogatorio di polizia. Tale richiamo non può in alcun caso essere considerato come una giustificazione sufficiente a soddisfare il requisito della ragionevolezza dei sospetti su cui la detenzione provvisoria deve fondarsi (§ 67). Per di più, i fatti rimproverati all’accusato rientrano nel legittimo esercizio della sua libertà di espressione e della libertà di stampa, così come garantite sia dalla legge nazionale che dalla Convenzione (§ 79). Ne consegue che gli elementi di prova su cui le giurisdizioni hanno fondato l’applicazione e la proroga della detenzione provvisoria non permettono di concludere che i sospetti a carico del ricorrente abbiamo raggiunto il livello minimo di ragionevolezza richiesto, costituendo dei meri sospetti (§ 86). Né, a tal riguardo, rileva la circostanza che i giudici abbiano in ultimo dichiarato in sentenza la colpevolezza del ricorrente (§ 87). Di qui, la violazione dell’art. 5 comma 1 Cedu. Con riguardo alla violazione dell’art. 5 comma 3 Cedu, la Corte di Strasburgo ritiene che non sia necessario verificare se le autorità competenti abbiano addotto motivi pertinenti e sufficienti per legittimare la detenzione provvisoria o abbiano adottato una particolare diligenza per la prosecuzione del procedimento, in quanto l’assenza di ragionevoli sospetti di commissione del reato implica automaticamente anche la violazione della suddetta disposizione (§ 92-93). La Corte di Strasburgo esclude, invece, la violazione dell’art. 5 comma 4 Cedu, non accogliendo la doglianza tramite la quale la ricorrente ha lamentato il ritardo con cui la Corte costituzionale ha deciso il suo ricorso sulla legalità della detenzione provvisoria. Premesso che il periodo che viene in rilievo è di sette mesi, decorrente dalla data di deposito del ricorso costituzionale alla data in cui, con la condanna di primo grado, si è conclusa la custodia cautelare della ricorrente, la Corte europea, rammentando la sua precedente giurisprudenza su casi analoghi, osserva come, da un lato, la Corte costituzionale avesse dovuto affrontare una situazione eccezionale, in virtù della dichiarazione dello stato d’emergenza a seguito del tentativo di colpo di stato militare del 15 luglio 2016 e, dall’altra, come la legalità della proroga della detenzione fosse comunque esaminata d'ufficio a intervalli regolari non superiori ai trenta giorni (§ 104 ss.). (Roberta Casiraghi)     

Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Impugnazione de libertate e garanzie minime dell’equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 968 ss.

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 5 marzo 2024, Leka c. Albania

Equità processuale - diritto a essere informato della natura e dei motivi dell'accusa - riqualificazione giuridica in appello – non violazione – diritto alla difesa tecnica e alla sua gratuità – non violazione

Arrestato con l’accusa di omicidio, il ricorrente, in assenza di un difensore, confessa il reato, salvo ritrattare la confessione nel giudizio di primo grado, in cui è assistito gratuitamente da un difensore d’ufficio (non avendo i mezzi economici per nominarne uno di fiducia). Il processo di prime cure si conclude con la condanna all’ergastolo del ricorrente, ritenuto colpevole di omicidio, tentato omicidio e detenzione illegale di armi (§ 19). A seguito dell’appello proposto dall’imputato, il giudice di seconde cure, riqualificando il fatto, dichiara il ricorrente colpevole di tentata rapina con conseguente morte di una persona e conferma la condanna (§ 24). I successivi ricorsi davanti alla Corte di cassazione e alla Corte costituzionale sono respinti. Anzitutto, il giudice europeo esclude che le modalità di svolgimento della ricognizione personale abbiano violato l’equità processuale ex art. 6 comma 1 Cedu: per un verso, il modo in cui l’atto è stato compiuto non ne ha minato l’attendibilità e, per l’altro, tale prova non ha concorso a determinare il convincimento del giudice di seconde cure in merito alla colpevolezza del ricorrente, invece basato sulle dichiarazioni dibattimentali del testimone-ricognitore (per di più, corroborate da altre prove) (§ 57-59). Il ricorrente lamenta poi la violazione del diritto a essere informato della natura e dei motivi dell'accusa e del diritto a usufruire del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la difesa. Tuttavia, la Corte di Strasburgo esclude la violazione, in quanto la riqualificazione giuridica in appello non era imprevedibile per la difesa né ha aggravato l'onere a carico di quest'ultima: infatti, secondo il giudice europeo, nel corso delle indagini e del processo di primo grado, l’accusato ha avuto un’adeguata opportunità di difendersi con riguardo agli elementi costitutivi del reato così come successivamente riqualificato (§ 78). Infine, anche l’ultima doglianza relativa al diritto alla difesa tecnica e, in particolare, al diritto dell’imputato di essere assistito gratuitamente da un difensore nominato d’ufficio laddove non abbia i mezzi necessari per nominarne uno di fiducia viene rigettata. Nonostante gli interessi della giustizia, in ragione della gravità dei reati addebitati, richiedessero che all'imputato - che non ha rinunciato inequivocabilmente o tacitamente al diritto di difesa tecnica, in quanto non è stato esplicitamente informato del suo diritto all'assistenza legale gratuita (§ 102-103) - fosse concessa assistenza legale gratuita fin dall’inizio (§ 96), l'assenza di un difensore durante l'interrogatorio non ha pregiudicato irrimediabilmente l'equità complessiva del procedimento (§ 119). A tal riguardo, il giudice europeo adduce una serie di ragioni: nel corso delle indagini, l’imputato è stato informato del diritto al silenzio e non ha subito maltrattamenti da parte della polizia (§ 109-110); durante il processo, l'imputato ha potuto contestare l'uso delle dichiarazioni rese durante l'interrogatorio (§ 111-112); la condanna non si è basata sulla confessione del ricorrente, bensì su altre prove, tra cui una testimonianza oculare (§ 115-116); esisteva un rilevante interesse pubblico per l'accertamento delle accuse (§ 117). (Roberta Casiraghi)

Riferimenti bibliografici: S. Chionna, Restrizioni al diritto di difesa tecnica ed equità processuale complessiva, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, p. 560 ss.; F. Zacchè, Riqualificazione del fatto in cassazione e diritto alla prova, ivi, p. 2018, p. 989 ss.; P. Zoerle, Rapporti tra autodifesa e gratuito patrocinio, ivi, 2019, p. 674 ss.  

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 12 marzo 2024, Orhan Şahin c. Turchia

Equità processuale – principio di immediatezza – giudizio di rinvio – violazione

Nel giudizio innanzi alla corte d’assise, il ricorrente - accusato innanzi alla polizia da un coimputato che poi in dibattimento ha ritrattato - viene dichiarato, con due voti contro uno (dovendosi precisare che il giudice di minoranza è stato l’unico ad aver assistito all’esame dibattimentale dei testimoni), colpevole di appartenenza a un'organizzazione terroristica armata e, quindi, condannato a tredici anni e sei mesi di reclusione; viene, invece, assolto all’unanimità dalle altre accuse (ossia incitamento ai reati di compromissione dell'unità dello Stato e della sua integrità territoriale, tentato omicidio di un pubblico ufficiale mediante attentato e possesso illegale di materiali pericolosi) (§ 24). A seguito del ricorso proposto dal pubblico ministero, la Corte di cassazione annulla la sentenza di primo grado, ritenendo che il ricorrente dovesse essere dichiarato colpevole anche dei reati per i quali era stata assolto (§ 30). Il giudizio di rinvio si svolge innanzi a una diversa corte d’assise, i cui tre giudici non avevano fatto parte del precedente collegio (§ 31). La richiesta della difesa di rinnovare l’esame del coimputato accusatore viene rigettata (§ 32) e il processo si conclude con la condanna all’ergastolo del ricorrente, ritenuto colpevole di tutti i reati ascritti, salvo che per quello di appartenenza a un'organizzazione terroristica (§ 33). La condanna è confermata in cassazione. In sede europea, il ricorrente sostiene l’iniquità del processo, in quanto il giudice del rinvio ha fondato la condanna su una prova testimoniale assunta innanzi a un giudice diverso. La Corte europea osserva come, a dispetto del principio di immediatezza (§ 61), al ricorrente non sia stata data l’opportunità di confrontarsi con i testimoni in presenza del giudice che alla fine ha deciso il caso (§ 57). Quanto alla sussistenza di garanzie procedurali in grado di compensare il deficit di immediatezza, secondo il giudice europeo, la disponibilità delle trascrizioni delle dichiarazioni testimoniali e la possibilità concessa al ricorrente di esercitare i suoi elementari diritti di difesa, come quella di avere accesso al fascicolo o di sollevare qualsiasi questione ritenuta opportuna per la sua difesa, non hanno posto rimedio al pregiudizio derivante dalla carenza di immediatezza (§ 58). Ne consegue la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu. (Roberta Casiraghi

Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Prima condanna in appello e garanzie effettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 315 ss.; R. Casiraghi, Mutamento del giudice, diritto alla prova e adattamento dell’Al-Khawaja test, ivi, 2020, p. 1617 ss.

 

ART. 10 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. IV, 19 marzo 2024, Almeida Arroja c. Portogallo

Libertà di espressione – diffamazione aggravata ai danni di uno studio legale nel corso di una trasmissione televisiva – risposta sanzionatoria in manifesta violazione del principio di proporzione – potenziale “chilling effect” conseguente alla natura ed alla severità della sanzione – violazione

Il ricorrente, economista e professore universitario di Oporto, nel corso del suo settimanale intervento su questioni di politica in un notiziario trasmesso dall’emittente televisiva di “Porto Canal”, si era lasciato andare a commenti poi ritenuti, in sede di procedimento penale per diffamazione aggravata, offensivi della reputazione di un noto studio legale e del suo parimenti noto titolare, avvocato e politico, membro del Parlamento europeo. In particolare, i giudici portoghesi condannavano il ricorrente al pagamento di una multa complessiva pari ad euro 7.000, nonché al versamento di euro 5.000 ed euro 10.000 in favore, rispettivamente, dello studio legale e dell’avvocato, a titolo di danno non patrimoniale. Si era ritenuto, invero, che le predette dichiarazioni fossero risultate lesive della reputazione delle persone offese, ove avevano asserito che a fondamento di un parere legale da queste ultime reso ad un ospedale pubblico vi fossero stati malcelati interessi politici. Secondo il ricorrente, infatti, il parere aveva consentito di bloccare i lavori di costruzione di un’unità pediatrica, lavori promossi dall’associazione di cui il ricorrente stesso era presidente, al solo scopo di evitare che l’iniziativa fosse interpretata come riflesso di inefficienza e negligenza delle politiche sanitarie . Quanto ai requisiti per la restrizione della libertà di espressione, la Corte europea si ritiene persuasa in relazione alla legittimità dello scopo di tutela della reputazione e dei diritti altrui, addotto quale giustificazione dell’ ingerenza dello Stato portoghese (sub specie di condanna per diffamazione) nell’esercizio del diritto del ricorrente (§ 60). Quanto, poi, alla necessarietà di un intervento statuale di tal sorta in una società democratica, la Corte rileva che – come da propria giurisprudenza consolidata – gli Stati membri godono di un margine di apprezzamento che, tuttavia, diviene scarsissimo ove in gioco vi siano il dibattito politico e questioni di interesse pubblico (§§ 64-65). Prosegue la Corte rinvenendo nella vicenda sottoposta al suo esame sia il pubblico interesse alla conoscenza dei fatti da parte della generalità dei consociati (§ 73); sia la particolare posizione della persona oggetto delle dichiarazioni che, in quanto noto avvocato e soprattutto politico, deve dimostrarsi ragionevolmente disponibile al confronto sul proprio operato (§ 78). Ancora, la pronuncia si sofferma sul carattere delle dichiarazioni medesime e sul loro contenuto – ritenendolo ascrivibile, al più, a meri giudizi di valore ed opinioni personali e non, invece, ad effettive constatazioni di fatto, tacciabili di maggiore o minore veridicità – valorizzandone il contesto, ossia quello di una più lata critica al sistema di legami tra politica e pubblica amministrazione (§§ 80-84). Tutto ciò premesso, la risposta sanzionatoria dello Stato portoghese viene ritenuta sproporzionata, anzitutto per la valenza simbolica che una condanna nel caso di specie assume, pure al di là di una sanzione in senso stretto comunque ritenuta di eccessiva severità (§ 87). Sul punto la Corte europea significativamente osserva che il sol fatto che la risposta sanzionatoria sia di natura penale è in sé sufficiente a determinare un odioso “chilling effect” sulla libertà di espressione, ossia un condizionamento in senso dissuasivo di chi si accinga (o vorrebbe accingersi) a discutere questioni di pubblico interesse (§ 90). Pertanto, la Corte conclude affermando la mancanza di aderenza ai principi sviluppati in seno alla propria giurisprudenza nell’opera di bilanciamento tra interessi contrapposti effettuata dal Portogallo, con conseguente violazione dell’art. 10 Cedu. (Gaia Filocamo)

Riferimenti bibliografici: M. Crippa, La pubblicazione di dichiarazioni diffamatorie altrui: la Corte EDU condanna l’Italia per la violazione del diritto di cronaca in relazione all’omicidio Tobagi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, pp. 1164 ss.; M. Nicolini, Il delicato bilanciamento fra libertà di espressione politica e tutela penale contro l’istigazione alla discriminazione e all’odio religioso nel caso Zemmour, in Riv. it. dir. proc. pen., 2023, pp. 809 ss.

 

ART. 13, 3 e 14 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. II, 26 marzo 2024, V.I. c. Moldavia

Trattamento inumano e degradante – discriminazione sistemica nei confronti delle persone con disabilità intellettive – assenza di un meccanismo efficace nell’assicurare idoneo rimedio alle categorie di soggetti vulnerabili oggetto di discriminazione – violazione

Per quel che attiene alla ricostruzione dei fatti, v. supra sub art. 3 CEDU. La Corte europea ha altresì censurato l’assenza, nell’ordinamento moldavo, di un rimedio efficace per la tutela del diritto fondamentale delle persone affette da disabilità intellettive a non subire trattamenti sanitari inumani e degradanti, nonché discriminatori, in ragione di tali condizioni. (Gaia Filocamo)

 

ARTT. 14 e 3 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. II, 26 marzo 2024, V.I. c. Moldavia

Trattamento inumano e degradante – discriminazione sistemica nei confronti delle persone con disabilità intellettive – assenza di un meccanismo efficace nell’assicurare idoneo rimedio alle categorie di soggetti vulnerabili oggetto di discriminazione – violazione

Per la ricostruzione in fatto, v. supra sub art. 3 Cedu. La Corte non manca di rilevare come le allegazioni del ricorrente necessitino di esser lette nel più generale contesto di sistemica discriminazione di cui lo Stato moldavo si rende responsabile – come già constatato dai Rapporti degli Special Rapporteurs delle Nazioni Unite – nei confronti delle persone, soprattutto bambini, con disabilità intellettive, nelle forme della sottoposizione a trattamenti psichiatrici motivati dalla sola necessità di mantenerne il controllo, ammansendoli. Stando a quanto gli anzidetti rapporti ormai da tempo denunciano, si registra in Moldavia una generalizzata percezione delle persone con disabilità come insane e, sostanzialmente, distanti dal canone della “normalità”. Quest’ultima circostanza, letalmente unita alla carenza di una rete sociale di supporto, è direttamente collegata con l’alto tasso di ricoveri di bambini con disabilità intellettive (§ 172). Nel caso di specie, dei soggetti a vario titolo intervenuti nel districarsi della vicenda del ricorrente, nessuno ha sollevato dubbi sulla legittimità del trattamento a cui era stato sottoposto, seppur titolari di doveri attinenti alla cura dello stesso. Del resto, emerge proprio dai documenti con cui era stato disposto il ricovero che la disabilità intellettiva del ragazzo era stata posta a fondamento della sottoposizione al trattamento psichiatrico e del ricovero medesimo (§ 173). Tutto quanto precede considerato, la Corte ritiene che le autorità moldave competenti non solo siano risultate inadempienti rispetto ai doveri di tutela di un soggetto vulnerabile, ma che la violazione degli obblighi positivi discendenti dall’art. 3 Cedu sia avvenuta perpetuando prassi discriminatorie nei confronti di un minore con disabilità intellettive e, pertanto, contravvenendo a quanto sancito dall’art. 14 Cedu. (Gaia Filocamo)