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08 Febbraio 2023


Osservatorio Corte EDU: novembre 2022

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Edoardo Cipani (artt. 3 e 7 Cedu) e Ettore Crippa (art. 6 Cedu).

In novembre abbiamo selezionato pronunce relative a: limiti all’estradizione in caso di ergastolo irriducibile nello Stato richiedente (tre diverse pronunce, artt. 3 e 7 Cedu); legittimità del giudizio a porte chiuse (art. 6 Cedu); dichiarazioni rese alla stampa e presunzione di innocenza (art. 6 Cedu); prescrizione del reato e impossibilità per il giudice penale di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria (art. 6 Cedu); inammissibilità della domanda di riparazione per ingiusta detenzione (art. 6 Cedu).

 

ART. 3 CEDU

C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 3 novembre 2022, Sanchez-Sanchez c. Regno Unito

Divieto di trattamenti inumani e degradanti - procedimento di estradizione – ergastolo irriducibile – non violazione

Il ricorrente, cittadino messicano detenuto nel Regno Unito, veniva arrestato con l’accusa di cessione e traffico di sostanze stupefacenti in esecuzione di un mandato di arresto proveniente dagli Stati Uniti. A fronte della richiesta di estradizione formulata dalle autorità statunitensi, il ricorrente adiva la Corte europea, ritenendo sussistente un rischio effettivo che l’estradizione comportasse l’esecuzione di una condanna all’ergastolo irriducibile, senza possibilità di liberazione condizionale. In primo luogo, la Corte europea richiama i propri precedenti in materia (C. eur. dir. uomo, Grande Camera, Vinter e altri c. Regno Unito, 9 luglio 2013; C. eur. dir. uomo, sez. V, Trabelsi c. Belgio, 4 settembre 2014), evidenziando come una condanna a pena perpetua possa porsi in contrasto con l’art. 3 Cedu laddove la stessa si riveli evidentemente sproporzionata ovvero laddove la pena, non corrispondente più al perseguimento di uno scopo legittimo, non sia suscettibile di essere revisionata dalle regole interne dello Stato di esecuzione (§89). Cionondimeno, la Corte evidenzia come in materia di estradizione i suddetti criteri, elaborati con riferimento all’esecuzione di pene perpetue, non possano trovare piena applicazione (§91). In particolare, la Corte osserva anzitutto che i principi enunciati dalla propria giurisprudenza in materia riguardano sia l’obbligo sostanziale per gli Stati contraenti di garantire che una pena all’ergastolo non si ponga in contrasto con l’art. 3 Cedu, sia l’osservanza di apposite garanzie procedurali che impediscano l’esecuzione di pene inumane e degradanti. Con riferimento alle obbligazioni sostanziali, la Corte ribadisce che esporre un individuo a un rischio reale di pene inumane e degradanti, tra le quali si annovera l’ergastolo irriducibile, costituirebbe una violazione dell’art. 3 Cedu. Per contro, la valutazione in termini di rigoroso rispetto delle garanzie procedurali dovrebbe invece essere circoscritta al solo contesto nazionale, non applicandosi al caso di un individuo di cui sia richiesta l’estradizione da parte di uno Stato terzo. Si tratterebbe infatti di un’interpretazione troppo estensiva della responsabilità di uno Stato contraente, non potendo gli Stati contraenti essere ritenuti responsabili per la mancanza di garanzie procedurali da parte di uno Stato terzo, anche in considerazione del fatto che richiedere ad uno Stato di sindacare i principi e le prassi interne di uno Stato terzo potrebbe rivelarsi eccessivamente gravoso (§93). Inoltre, in materia di estradizione, riscontrare una violazione dell’art. 3 comporterebbe il rischio che una persona verso cui sono state mosse gravi accuse non venga mai processata, in contrasto con il generale obbligo degli Stati di cooperare al fine di assicurare i colpevoli alla giustizia (§ 94). Ciò premesso, evidenzia la Corte europea come, in primo luogo, spetti al ricorrente fornire elementi di prova che rilevino motivi sostanziali da cui inferire, in caso di estradizione, l’esistenza di un rischio reale di essere sottoposto a trattamenti contrari all’art. 3 Cedu (§100). Assolto tale onere probatorio, in secondo luogo spetta allo Stato richiesto accertare, prima del rilascio dell’autorizzazione, che nello Stato richiedente esista un meccanismo procedurale di revisione della sentenza che consenta di considerare, in funzione della possibile liberazione, i progressi del detenuto verso la riabilitazione, in relazione al suo comportamento e ad altre circostanze personali rilevanti (§100). In questo giudizio a due fasi, la Corte europea ha evidenziato come il ricorrente non abbia dimostrato che la sua estradizione negli Stati Uniti lo avrebbe esposto al rischio reale di un trattamento in contrasto con l’art. 3 Cedu, non essendo conseguentemente necessario per la Corte procedere alla seconda fase dell'analisi di cui sopra (§ 109). (Edoardo Cipani)

Riferimenti bibliografici: G. Caneschi, La tutela dei diritti umani nel procedimento di estradizione, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2019, p. 1741.

 

C. eur. dir. uomo, Grande Camera (dec.), 3 novembre 2022, Mccallum c. Italia

Divieto di trattamenti inumani e degradanti - procedimento di estradizione – ergastolo irriducibile – non violazione

La ricorrente, cittadina statunitense, veniva arrestata a Roma nel febbraio del 2020 per i reati di omicidio di primo grado e distruzione di cadavere commessi negli Stati Uniti nel 2002. Le autorità statunitensi chiedevano l’estradizione, concessa dal Ministro della Giustizia italiano l’8 marzo del 2021, a seguito della decisione della Corte di Appello poi confermata dalla Corte di Cassazione, che riconoscevano il potere del governatore del Michigan di concedere la grazia o di commutare la pena, così scongiurando il rischio dell’esecuzione di un ergastolo perpetuo. Il 3 dicembre le autorità statunitensi inviavano una nota diplomatica alle autorità italiane, informandole dell’intenzione di processare la ricorrente per la meno grave fattispecie di omicidio di secondo grado, con pena dell’ergastolo con possibilità di liberazione condizionale. Le autorità italiane emanavano dunque un nuovo ordine di estradizione, eseguito in data 8 luglio 2022. La ricorrente ha adito la Corte europea, sostenendo che l’esecuzione dell’estradizione ha integrato una violazione dell’art. 3 Cedu, determinando l’esecuzione di un ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale. La Corte ha evidenziato che un elemento fondamentale del caso di specie è costituito dalla scelta da parte delle autorità statunitensi di processare la ricorrente per il meno grave reato di omicidio di secondo grado. Tale impegno è stato assunto mediante nota diplomatica, che sostanzia una “presunzione di buona fede” da applicarsi allo Stato richiedente e che segna dunque i limiti di esecuzione dell’estradizione richiesta (§51). Per quanto concerne l’asserita irriducibilità dell’ergastolo, che la ricorrente fondava essenzialmente sul ruolo assegnato dalla legge ad un organo politico (il Governatore dello Stato) ai fini della decisione sulla liberazione condizionale, la Corte richiama i principi affermati nella propria contestuale pronuncia Sanchez Sanchez c. Regno Unito (v. supra), ribadendo che le garanzie procedurali che si applicano nel contesto nazionale di uno Stato aderente alla Convenzione non costituiscono requisiti indispensabili per uno Stato terzo per richiedere l’estradizione (§53). In aggiunta, la Corte evidenzia come la ricorrente non abbia fornito alcuna prova a sostegno dell’effettivo rischio di subire una condanna costituente una punizione inumana o degradante (§ 55). Per queste ragioni, la Corte europea ritiene il ricorso manifestamente infondato e lo dichiara inammissibile. (Edoardo Cipani)

Riferimenti bibliografici: G. Caneschi, La tutela dei diritti umani nel procedimento di estradizione, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2019, p. 1741.

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, 10 novembre 2022, Kupinskyy c. Ucraina

Divieto di trattamenti inumani e degradanti - procedimento di estradizione – ergastolo irriducibile - violazione

Il ricorrente, cittadino ucraino condannato in Ungheria per il reato di duplice omicidio, veniva trasferito in Ucraina per l’esecuzione della pena, in forza della Convenzione internazionale sul trasferimento delle persone condannate. Le autorità nazionali riconoscevano la sussistenza degli estremi della fattispecie contestata secondo i parametri interni, e attraverso successive pronunce davano esecuzione alla sentenza straniera, convertendo tuttavia la pena dell’ergastolo riducibile in ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale, in conformità all’ordinamento nazionale ucraino. Il ricorrente ha adito la Corte europea lamentando la violazione dell’art 3 Cedu, in ragione dell’esecuzione di una pena perpetua senza possibilità di liberazione condizionale. La Corte europea, richiamando i propri precedenti in materia, ribadisce la contrarietà all’art. 3 Cedu delle condanne perpetue senza possibilità di liberazione condizionale (§ 40). Nonostante si registri una pronuncia di illegittimità costituzionale della Corte Costituzionale ucraina sulla normativa nazionale interna in materia di ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale, la procedura e le modalità di applicazione della norma sulla liberazione condizionale ai detenuti ergastolani non erano ancora state stabilite e, in assenza di tali norme e procedure, i tribunali nazionali hanno ritenuto di non essere competenti a decidere sulla liberazione condizionale dei detenuti ergastolani (§ 42). Ne consegue la violazione dell’art. 3 Cedu. (Edoardo Cipani)

 

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. V, 3 novembre 2022 Mamaladze c. Georgia

Equità processuale - pubblicità dibattimentale – giudizio di primo e secondo grado “a porte chiuse” – presunzione di innocenza – dichiarazioni rese alla stampa nel corso del procedimento penale e pubblicazione del contenuto di atti del fascicolo – violazioni

Il ricorrente, arciprete e direttore di una clinica medica che opera sotto l'autorità della Chiesa ortodossa georgiana, viene condannato per la “preparazione” dell’omicidio del Patriarca di Georgia. A suo avviso, però, la sostanza velenosa (cianuro di sodio) destinata a uccidere il Patriarca – utilizzata come prova ai fini della decisione – sarebbe stata inserita dalla polizia nel proprio bagaglio durante la perquisizione avvenuta in aeroporto. Non essendo state accolte le sue istanze volte verificare l’effettiva autenticità della prova, egli lamenta di aver subito una condanna a seguito di un procedimento penale iniquo (§ 69). Inoltre, il ricorrente evidenzia l’irragionevolezza della scelta di celebrare il giudizio di primo grado e d’appello “a porte chiuse”, non essendo necessario, a suo dire, tutelare la vita privata dei partecipanti né proteggere i testimoni o le esigenze investigative: i giudici nazionali avrebbero soltanto riservato un “trattamento speciale” per le figure religiose coinvolte nel processo, senza fornire un’adeguata motivazione in ordine all’impossibilità di adottare misure meno restrittive, come la “chiusura parziale”. Il tutto a discapito del diritto dell’imputato all’udienza pubblica (§§ 83-87).  Infine, il ricorrente lamenta la violazione del principio della presunzione di innocenza. Nel corso del procedimento penale alcuni funzionari pubblici avevano rilasciato delle dichiarazioni e fatto circolare tra i media estratti di atti e di registrazioni ricavati dal fascicolo delle indagini. Inoltre, il principale testimone dell'accusa aveva effettuato delle interviste relative allo sviluppo del procedimento, mentre all’imputato era stato imposto l’obbligo di non divulgazione. Secondo il ricorrente, le circostanze in parola avrebbero contribuito a presentarlo al pubblico come colpevole prima della condanna definitiva (§ 103). La Corte europea sottolinea, con riguardo al primo profilo, come non sia suo compito risolvere la questione legata all’utilizzabilità della prova impiegata per la condanna: occorre, invece, stabilire se il procedimento nel suo complesso sia stato equo (§ 73). Nella vicenda in esame, la procedura di perquisizione da cui era derivato il sequestro della sostanza velenosa era stata dichiarata legittima dal giudice e il ricorrente non aveva impugnato tale decisione (§ 78). Il rigetto delle istanze probatorie volte a dimostrare la non autenticità della prova era stato motivato dai giudici nazionali e, tra l’altro, la sostanza rinvenuta nel corso della perquisizione non era stata l'unico elemento su cui si era basata la condanna (§§ 79-80). Di conseguenza, su questo versante, i giudici di Strasburgo non ravvisano una violazione dell’art. 6 § 1 Cedu (§ 82). Opposta, invece, la conclusione a cui giunge la Corte europea con riferimento alle successive doglianze.  Quanto alla decisione di celebrare il processo a “porte chiuse”, è vero che le esigenze che avevano invocato i giudici nazionali (protezione della vita privata delle parti in causa e degli interessi della giustizia) rientrano formalmente tra i motivi che possono giustificare l’assenza di pubblicità, ai sensi dell’art. 6 § 1 Cedu (§ 97). Tuttavia, la “chiusura totale” delle udienze va disposta solo allorquando tali esigenze non possano essere soddisfatte adottando misure meno restrittive. Occorre, dunque, che siano esplicitate le ragioni per cui non si ritiene sufficiente la mera chiusura parziale del dibattimento (§ 98). Nel caso di specie, i giudici nazionali avevano optato per la totale assenza di pubblicità sulla scorta di una motivazione generica (§ 99). Da qui, la violazione dell’art. 6 § 1 Cedu (§ 102). Quanto alla lamentata violazione dell’art. 6 § 2 Cedu, la Corte europea osserva, anzitutto, come informare il pubblico su un’indagine in corso non contrasti, di per sé, con il principio della presunzione d’innocenza: la libertà di espressione, protetta dall’art. 10 Cedu, implica il diritto di ricevere e comunicare notizie anche inerenti a un procedimento penale (§ 108). L’effettivo rispetto della presunzione di innocenza, però, impedisce alle autorità di fornire alla stampa informazioni che riflettano l’opinione che l’accusato sia colpevole, anteriormente al legale accertamento della sua colpevolezza (§ 109). Nella vicenda esaminata, i funzionari pubblici e il testimone dell’accusa non si erano limitati a rendere edotto il pubblico dello sviluppo del procedimento, ma avevano presentato il ricorrente come colpevole (§§ 111-112). A quest’ultimo, d’altra parte, non era stata concessa la possibilità di rilasciare dichiarazioni alla stampa, stante l’imposizione dell’obbligo di non divulgazione (§ 113). Tutto ciò – sottolineano i giudici europei – aveva ingenerato nel quisque de populo una convinzione di colpevolezza ancor prima dello svolgimento del giudizio di primo grado (§ 114). Sussiste, pertanto, la violazione dell’art. 6 § 2 (§ 115). (Ettore Crippa)

Riferimenti bibliografici: G. Caneschi, La presunzione d’innocenza negli atti del procedimento, tra affermazioni della Corte di Strasburgo e tentativi di codificazione interna (D.lgs. n. 188 del 2021), in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, p. 891 ss.; P. Zoerle, La pubblicazione di immagini dell’imputato tra libertà di cronaca giudiziaria, diritto alla riservatezza e presunzione di innocenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 343 ss.

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, 15 novembre 2022, Mena c. Romania

Diritto di accesso al giudice – azione civile nel processo penale – prescrizione del reato e impossibilità per il giudice penale di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria – violazione

Il ricorrente, vittima di lesioni personali, si costituisce parte civile nel processo penale, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti. Nel giudizio di primo grado, la domanda risarcitoria viene accolta, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato (§§ 1-4). L’imputato, però, propone impugnazione, osservando come il diritto nazionale non permetta al giudice penale di statuire sulla responsabilità civile quando il reato per cui si procede debba considerarsi prescritto. L’argomento viene condiviso dalla Corte d’appello, la quale, nel prosciogliere l’imputato, decide di non pronunciarsi sull’istanza risarcitoria (§§ 5-6). A tal punto, l’offeso-danneggiato, rimasto insoddisfatto, lamenta una lesione del diritto di accesso al giudice, protetto dall’art. 6 § 1 Cedu. La Corte di Strasburgo, richiamando i principi espressi nelle pronunce C. edu, sez. V, sent. 2 ottobre 2008, Atanasova c. Bulgaria e C. edu, sez. I, sent. 3 aprile 2003, Anagnostopoulos c. Grecia, evidenzia come l’effettiva salvaguardia del diritto alla giurisdizione imponga di assicurare a ciascun individuo la possibilità di accedere a un giudizio equo. Ciò, naturalmente, non implica la necessità di consentire l’ingresso delle pretese civilistiche nel processo penale. Tuttavia, allorché permette l’esercizio dell’azione civile in sede penale, l’ordinamento nazionale deve assicurare che la domanda risarcitoria venga valutata all’interno di un procedimento giurisdizionale rispettoso delle garanzie previste dall’art. 6 Cedu (§ 10). Nel caso di specie, secondo i giudici di Strasburgo, l’omessa pronuncia sulla domanda risarcitoria lede il diritto dell’offeso-danneggiato di accesso al giudice, non potendosi onerare quest’ultimo, trascorsi più di sei anni dalla costituzione di parte civile, di intraprendere una nuova azione in sede civile per soddisfare le proprie pretese (§ 9 e 11). Sussiste, pertanto, la violazione dell’art. 6 § 1 Cedu (§ 14). (Ettore Crippa)

Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Durata irragionevole delle indagini preliminari e archiviazione: diritti dell’offeso-danneggiato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 1141 ss.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 17 novembre 2022, Makrylakis c. Grecia

Diritto di accesso al giudice – domanda di riparazione per ingiusta detenzione proposta dall’assolto – inammissibilità dovuta a un eccessivo formalismo – violazione

Il ricorrente, condannato in primo grado per coltivazione di cannabis, viene successivamente prosciolto, dopo essere stato posto in custodia cautelare per due anni (§§ 11-13). Propone, così, due domande di riparazione per ingiusta detenzione che vengono, però, dichiarate inammissibili: la prima, poiché presentata quando ancora la sentenza di proscioglimento non era divenuta irrevocabile; la seconda, per il mancato rispetto di un termine perentorio (§§ 15-22). Non potendo più richiedere alcuna riparazione per il periodo trascorso in carcere e dovendo persino versare delle somme di denaro a causa delle istanze respinte, il ricorrente lamenta una violazione dell’art. 6 § 1 Cedu: la declaratoria d’inammissibilità delle proprie richieste, fondata su un’interpretazione restrittiva delle norme processuali nazionali da parte della Corte d’appello di Creta, avrebbe leso il suo diritto d’accesso al giudice (§ 27). La Corte europea, anzitutto, evidenzia come il diritto di adire l’autorità giudiziaria per far valere una propria pretesa possa sottostare a limiti, posto che il legislatore nazionale è tenuto a disciplinare le modalità di fruizione delle forme giurisdizionali. Occorre, tuttavia, che tali restrizioni abbiano uno scopo legittimo e che sussista un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e il fine perseguito. Nello specifico, quando la limitazione concerne l’accesso agli organi giurisdizionali superiori tocca, in primis, accertare che questa sia esplicitata dalla normativa nazionale. È necessario, poi, valutare se l’irricevibilità dell’istanza dipenda da un errore imputabile al ricorrente oppure da un eccesso di formalismo da parte del giudice adito (§§ 33-34). Tanto premesso, i giudici di Strasburgo osservano come le cause d’inammissibilità ravvisate dalla Corte d’appello di Creta non siano espressamente previste dalle norme processuali che regolano la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione (§§ 39-41). La limitazione della via d’accesso all’organo giurisdizionale superiore, dunque, deriva esclusivamente dall’adesione da parte del giudice a un orientamento giurisprudenziale “restrittivo” (§ 47). In definitiva, secondo la Corte, l’impossibilità per il ricorrente di richiedere una somma a titolo di riparazione per ingiusta detenzione si deve a un’imprevedibile ed eccessivamente formalistica applicazione del diritto nazionale (§ 48). Da qui, la violazione dell’art. 6 § 1 Cedu (§ 51). (Ettore Crippa)

Riferimenti bibliografici: L. Pressacco, Per un’integrazione “convenzionalmente orientata” della riparazione per ingiusta detenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 319 ss.

 

 

Art. 7 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. V, 10 novembre 2022, Kupinskyy c. Ucraina

Nulla poena sine lege – modalità esecutive della pena – ergastolo irriducibile – mutamento sostanziale della pena – violazione

Per la sintesi dei fatti di causa, v. sub. art. 3. Il ricorrente, in secondo luogo, lamentava la violazione dell’art. 7 Cedu, evidenziando il fatto che, sebbene i tribunali ungheresi l'avessero condannato ad un ergastolo riducibile, i tribunali ucraini avevano convertito tale pena in un ergastolo di fatto irriducibile. Per quanto concerne l’applicabilità ratione materiae dell’art. 7 Cedu, la Corte ribadisce la sua consolidata giurisprudenza che distingue misure sostanzialmente penali e misure che attengono alla mera esecuzione della pena (C. eur. dir. uomo, Grande Camera, Del Rio Prada c. Spagna, 21 ottobre 2013, § 47). In casi che riguardavano il trasferimento di detenuti, la Corte ha ritenuto che, nonostante le prospettive di liberazione condizionale nello Stato di esecuzione fossero meno favorevoli che nello Stato in cui era stata pronunciata sentenza, le decisioni di trasferimento rimanevano nell'ambito dell'esecuzione delle pene e non costituivano di per sé una "pena" ai sensi ai sensi dell'art. 7 Cedu. Cionondimeno, nel caso di specie la Corte evidenzia che il trasferimento del ricorrente e, in particolare, il modo in cui era stata convertita la sua pena, equivalevano al passaggio da un regime di possibile liberazione condizionale a quello di assoluta impossibilità della liberazione suddetta, con conseguente mutamento sostanziale della pena irrogata dai tribunali ungheresi, da ergastolo riducibile ad ergastolo irriducibile (§ 51). Convertendo l'originaria condanna all'ergastolo riducibile del ricorrente in una condanna all'ergastolo irriducibile ai sensi della legge ucraina, i tribunali nazionali sono andati oltre le semplici misure di esecuzione della pena, modificando  la natura della pena del ricorrente, con conseguente applicazione dell’art. 7 Cedu al caso di specie (§ 56). Per quanto concerne i profili di violazione del suddetto articolo, la Corte osserva che la pena applicabile al momento della commissione del fatto fosse l’ergastolo riducibile secondo le norme ungheresi. I giudici nazionali, negandogli la concessione della liberazione condizionale, hanno di fatto convertito “ex post” la pena in una pena più grave, con conseguente violazione del divieto di irretroattività della norma sfavorevole di cui all’art. 7 Cedu (§64). Ne consegue che, convertendo l’originario ergastolo riducibile del ricorrente nella condanna all’ergastolo irriducibile ai sensi del diritto ucraino, i tribunali nazionali, nel caso in esame, sono andati oltre le semplici misure di esecuzione della pena, e hanno di fatto cambiato la natura sostanziale della pena inflitta al ricorrente, applicando una pena più grave rispetto a quella prevista al momento di commissione del fatto di reato, con conseguente violazione dell’art. 7 Cedu. (Edoardo Cipani)