Coordinamento scientifico: Claudia Pecorella, Elena Biaggioni, Luisa Bontempi, Elisabetta Canevini, Noemi Cardinale, Paola Di Nicola Travaglini, Massimiliano Dova, Francesca Garisto, Fabio Roia
La valutazione del rischio nei reati di violenza di genere: difformità di giudizio in sede di applicazione delle misure cautelari
di Claudia Pecorella, e Massimiliano Dova
1. Le ripetute condanne ricevute dalla Corte Europea dei Diritti umani (dal caso Talpis nel 2017 ai casi Landi c. Italia, De Giorgi c. Italia e M.S. c. Italia nel 2022) mostrano in modo evidente il perdurare nel nostro Paese di una situazione di grave sottovalutazione del rischio di escalation delle aggressioni, nei casi di violenza sulle donne (e di violenza nel rapporto di coppia in particolare), ad opera della magistratura. È del resto una constatazione costante, nei casi di femminicidio, che la vittima avrebbe potuto essere salvata se fossero stati colti i segnali d’allarme (spesso lampanti). Il più delle volte restiamo sgomenti per la mancata o insufficiente protezione da parte dello Stato, tanto più che alle donne che si difendono da sole, ponendo fine alla violenza ripetuta con i soli mezzi che hanno a disposizione (di regola un coltello da cucina), si rimprovera proprio di non aver chiesto aiuto alla forza pubblica e si nega, di conseguenza, la scriminante della legittima difesa[1].
2. Quello che più sorprende è lo scarso o comunque inadeguato ricorso alle misure cautelari, sulla base di una valutazione prognostica circa la maggiore o minore probabilità di una nuova aggressione: una stima che non può mancare proprio nei casi di violenza di genere che, per le sue radici culturali, ha carattere ripetitivo e va intensificandosi nel corso del tempo. Se già la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio aveva registrato «elevati livelli di inefficienza» in questo ambito, sottolineando che, se in molti casi la valutazione del rischio è del tutto assente, in altri casi «gli ufficiali di polizia valutano il rischio in base alle proprie esperienze e capacità intuitive e non in base a parametri strutturali e standardizzati», anche l’attività di monitoraggio svolta dal Consiglio Superiore della Magistratura nel maggio 2018 ha fatto emergere che «meno del 20% delle procure e solo l’8% delle cancellerie hanno adottato dei criteri di valutazione del rischio per consentire alle forze dell’ordine, alle autorità giudiziarie ed ai tribunali penali o civili di prevenire casi di recidività e l’aumento della violenza»[2].
3. Particolarmente interessante appare, sotto questo profilo, la diversa esperienza della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli, notoriamente sensibile e competente anche rispetto ai reati di genere, per i quali fornisce alla Polizia Giudiziaria protocolli investigativi e buone prassi periodicamente aggiornati[3]. La valutazione del rischio di nuove aggressioni, effettuata anche (e soprattutto) sulla base delle informazioni acquisite ascoltando le vittime e la loro percezione del pericolo in corso, determina un numero elevato di richieste di misure cautelari, che trova peraltro riscontro nel numero crescente di denunce per questi reati, che si è andato registrando in quell’Ufficio, a partire dal 2015/2016. Tuttavia, la decisione finale sull’adozione della misura dipende dal giudice, di primo grado (il GIP) o d’appello (il Tribunale del riesame) e, in assenza di una condivisione dello strumento di valutazione impiegato dalla Procura, le conclusioni finiscono con l’essere difformi, sia sulla necessità di applicare una misura cautelare, sia sulla misura più adeguata, con buona pace delle esigenze di protezione delle vittime.
4. Analizzando i dati relativi agli anni 2019 e 2020, che ci sono stati gentilmente messi a disposizione[4], si nota che le richieste di misura cautelare avanzate dalla Procura nel corso delle indagini preliminari per reati classificati come espressione di violenza di genere [reati di maltrattamenti tra familiari e conviventi (art. 572 c.p.), atti persecutori (art. 612-bis c.p.) e violenza sessuale (art. 609-bis c.p.] sono di gran lunga superiori rispetto a quelle relative a reati comuni: quasi il doppio nel 2019 (82 contro 44) e quasi il triplo nel 2020 (68 contro 24), verosimilmente anche per la diffusa diminuzione dei reati comuni (e solo di quelli) durante la pandemia. L’esito di quelle richieste non è stato lo stesso: se per quelle relative a reati comuni il tasso di accoglimento da parte del GIP è molto elevato (complessivamente sono state accolte 57 richieste su 68 presentate nel biennio considerato), per quelle relative a reati di genere si registrano 98 accoglimenti su 150 richieste, anche se nel 2020 la forbice è decisamente più contenuta (50 su 68 sono le richieste accolte) rispetto all’anno precedente (48 su 82 quelle accolte). In numerosi casi poi la Procura ha impugnato il rigetto della richiesta e la misura è stata poi disposta dal Tribunale del riesame (così è avvenuto rispetto a 13 su 14 appelli presentati nel 2019 e a 5 su 11 presentati nel 2020).
5. Nell’ambito delle 150 richieste classificate dalla Procura come relative a reati di violenza di genere, si osserva che i 2/3 di esse riguardavano casi realizzati nell’ambito di un rapporto di coppia[5]. Di queste 100 richieste, 32 sono state accolte integralmente dal GIP e 30 solo parzialmente, ossia riconoscendo l’esigenza cautelare invocata ma ritenendo – talvolta senza alcuna motivazione - che potesse essere soddisfatta con una misura più blanda[6]. Così, ad esempio, delle 5 richieste di custodia cautelare in carcere complessivamente presentate nel 2020, una è stata rigettata e 4 si sono tradotte nella applicazione del divieto di avvicinamento alla persona offesa. Analogamente, 4 su 6 richieste di arresti domiciliari sono state accolte, ma solo per una di esse il giudice ha convenuto con la Procura sulla necessità di utilizzare anche il braccialetto elettronico; nelle altre due richieste ha invece ritenuto che le esigenze cautelari potessero essere adeguatamente affrontate imponendo il divieto di avvicinamento e di dimora. Queste ultime misure sono tuttavia difficilmente applicate congiuntamente, nonostante la richiesta della Procura, così come poco condiviso dal giudice è l’impiego del braccialetto elettronico per renderle maggiormente efficaci.
6. Dall’analisi dei dati non è possibile individuare dei fattori di rischio ‘standard’, alla cui presenza consegua di regola la richiesta di intervento in sede cautelare e magari anche per una determinata misura rispetto ad un’altra. Si nota però, da parte della Procura, una particolare attenzione alle minacce di morte – che inducono a ritenere che la violenza sia arrivata alla sua acme –, alla presenza di minori all’interno del nucleo familiare – con conseguente ampliamento delle persone esposte a pericolo – e all’indifferenza mostrata dall’uomo nei confronti dell’autorità e più in generale della prospettiva di un possibile arresto e/o dell’avvio o dell’esito di un procedimento penale. Una situazione, quest’ultima, che suggerisce la necessità di uno stretto controllo sulla persona e sui suoi movimenti, facendo propendere per l’adozione della custodia in carcere oppure del ricorso al braccialetto elettronico in presenza di una misura meno restrittiva, come gli arresti domiciliari o il divieto di avvicinamento alla persona offesa.
7. Considerando poi i provvedimenti di rigetto delle richieste della Procura, ma anche quelli nei quali si dispone una misura più blanda di quella richiesta (raramente accompagnata dal braccialetto elettronico, come si è detto), l’autorità giudiziaria sembra propensa a ridimensionare o ritenere non attuali le esigenze cautelari quando si trova di fronte a una persona senza precedenti penali, oppure che non fosse convivente o abbia cessato la convivenza con la vittima. Si tratta tuttavia di condizioni che non paiono in grado di influire sul rischio di reiterazione del comportamento violento: l’incensuratezza potrebbe infatti anche dipendere dalla nota riluttanza delle donne a denunciare la violenza così come dall’assenza di conseguenze ad un’eventuale denuncia presentata; dall’altro lato, la non condivisione di un ambiente domestico non sembra porre al riparo dalla violenza, dato il numero elevato di condotte persecutorie – e di femminicidi - realizzati da ex partner o da mariti dai quali la vittima si era allontanata e separata, soprattutto quando i rapporti tra le parti devono proseguire perché ci sono dei figli ancora minorenni[7].
8. In conclusione, se da un lato si rivela essenziale che le Autorità italiane «elaborino ulteriormente le procedure di valutazione e gestione del rischio e ne garantiscano la diffusione nell'ambito di tutti gli enti istituzionali che si occupano di casi di violenza basata sul genere»[8], dando così piena attuazione all’art. 51 della Convenzione di Istanbul[9], ratificata dal nostro Paese nel 2013, dall’altro lato, l’esperienza maturata presso la Procura di Tivoli mostra come l’impiego di tali procedure non sia sufficiente: essenziale è la formazione dei magistrati sul tema della violenza di genere, in modo da assicurare, tra l’altro, che vi sia collaborazione e condivisione di metodi e finalità nella tutela tempestiva delle vittime. Non dimentichiamoci, infatti, che in alcuni dei casi sottoposti all’attenzione della Corte Europea è emersa una corretta valutazione del rischio da parte delle Forze dell’ordine – destinatarie principali della formazione in questo ambito – cui non era seguito un altrettanto sollecito e tempestivo intervento da parte della magistratura[10].
[1] Sul tema, v. C. Pecorella (a cura di), La legittima difesa delle donne. Una lettura del diritto penale oltre pregiudizi e stereotipi, Mimesis, 2022.
[2] Così si legge nell’ultimo Rapporto di valutazione del nostro Paese da parte del GREVIO, pubblicato nel 2020, a p. 71.
[3] Si veda in particolare la Direttiva 2/2019 aggiornata al 5 giugno 2023, pubblicata sul sito web della Procura (https://www.procura.tivoli.giustizia.it). L’attività della Procura di Tivoli in questo ambito è segnalata anche dal GREVIO, nel Rapporto sull’Italia citato (p. 70), come fonte preziosa di buone prassi.
[4] I dati sono stati presentati in occasione della Conferenza annuale dell’European Network on Gender Violence (ENGV), svoltasi presso l’Università di Wolverhampton (UK) tra il 21 e il 23 giugno dell’anno in corso.
[5] Gli altri casi riguardano per lo più maltrattamenti nei confronti di familiari, spesso da persone tossicodipendenti (uomini e donne), oppure stalking tra uomini o abusi sessuali nei confronti di minori: in tutti questi casi si registra una percentuale più alta di accoglimento integrale da parte del GIP delle richieste di misura cautelare avanzate dalla Procura (nel 2020 è stata intorno al 74%).
[6] Negli altri 38 casi la richiesta è stata rigettata, non avendo il giudice ravvisato alcuna esigenza cautelare (17) oppure, e ancor prima, gravi indizi di colpevolezza (19) in capo alla persona denunciata, da giustificare l’eventuale adozione di una misura di questo tipo; conclusioni che, come si è detto, sono state in diversi casi ribaltate dal Tribunale del riesame, in seguito all’impugnazione della Procura.
[7] Talvolta questo aspetto sembra proprio sottovalutato dal GIP: così, ad esempio, la richiesta di prescrivere il divieto di dimora e di avvicinamento alla persona offesa, accompagnato dall’uso del braccialetto elettronico, nei confronti di un uomo denunciato per maltrattamenti e violenza sessuale, è stata rigettata perché nei 5 mesi successivi alla cessazione della convivenza si erano registrati solo tre episodi violenti, «alcuni dei quali qualificabili come litigi tra genitori per la gestione dei figli», a nulla rilevando che la denuncia della donna fosse avvenuta proprio in seguito a quegli episodi.
[8] Così il GREVIO, nel Rapporto di valutazione cit., p. 72.
[9] In base a tale disposizione, gli Stati si impegnano a adottare «le misure legislative o di altro tipo necessarie per consentire alle autorità competenti di valutare il rischio di letalità, la gravità della situazione e il rischio di reiterazione dei comportamenti violenti, al fine di gestire i rischi e garantire, se necessario, un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno».
[10] Cfr. ad esempio Landi c. Italia, al § 87: «anche se i carabinieri hanno proceduto a una valutazione del rischio autonoma, proattiva ed esaustiva indipendentemente dalla denuncia della ricorrente, tenendo debitamente conto del contesto particolare delle cause in materia di violenza domestica, chiedendo, alla luce della presunta esistenza di un rischio reale e immediato per la vita della ricorrente e dei suoi figli, delle misure cautelari e delle misure privative della libertà, i procuratori che avevano il compito di valutare tali proposte non hanno dimostrato la particolare diligenza necessaria al fine di reagire immediatamente alle accuse di violenza domestica formulate dalla ricorrente»; analogamente, De Giorgi c. Italia, al § 72: «mentre i carabinieri hanno reagito senza indugio alle denunce presentate dalla ricorrente nel novembre 2015, e sono intervenuti durante i litigi e in occasione degli episodi violenti, i procuratori, invece, informati più volte dai carabinieri, non hanno chiesto al GIP la misura di protezione richiesta dai carabinieri e non hanno condotto un’indagine rapida e effettiva, dato che sette anni dopo i fatti il procedimento è ancora pendente in primo grado».