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18 Novembre 2019


Pena di morte negli Stati Uniti e violazione dell’VIII Emendamento: la Corte Suprema conferma che l’onere di presentare un metodo alternativo “feasible” e “readily implemented” ricade sempre sul ricorrente

Corte Suprema degli Stati Uniti, Bucklew v. Precythe, 1° aprile 2019



1. Nella sentenza che può leggersi in allegato, la Corte Suprema degli Stati Uniti è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del metodo utilizzato dal Missouri per eseguire la pena di morte, con riferimento alla peculiare condizione medico-sanitaria del condannato. Il ricorrente allegava che l’iniezione letale, per come prevista dal protocollo statale, gli avrebbe determinato un undue pain, a causa della malattia tumorale da cui era affetto.

In base alla giurisprudenza della Corte, infatti, la pena di morte non è, di per sé, incostituzionale,(Gregg v. Georgia, 428 U.S. 153, 177 (1976)), ma può verificarsi una violazione dell’Ottavo Emendamento (che vieta pene “cruel and unusual”) qualora venga inflitta una sofferenza “gratuita” al condannato, non strettamente necessaria all’esecuzione della pena stessa («the evil the Eighth Amendment targets is intentional infliction of gratuitous pain», Baze v. Rees, 553 U.S. 35, 102 (2008) - concurring opinion).

Tuttavia, se la Corte Suprema si era mostrata incline a restringere le maglie di applicabilità della pena di morte nei confronti di condannati particolarmente fragili - escludendone l’esecuzione nei confronti di persone affette da ritardo mentale (vd. Atkins v. Georgia, 536 U.S. 304 (2002)) e dei minori (Roper v. Simmons, 543 U.S. 551 (2005)) - non si può dire che un simile spirito liberale abbia informato le decisioni in materia di metodi di esecuzione. E la sentenza in commento non fa eccezione.

 

2. Negli ultimi anni, il dibattito costituzionale sull’esecuzione capitale negli Stati Uniti si è concentrato proprio sui metodi utilizzati dagli Stati per infliggere la pena, una questione alla quale la Corte era rimasta a lungo estranea[1]. In particolare, la Corte Suprema in due occasioni (Baze v. Rees, cit., e Glossip v. Gross, 576 U.S. ___ (2015)) è stata chiamata a verificare la legittimità dell’iniezione letale, ad oggi il metodo principale in tutti i 29 Stati che prevedono la pena di morte[2].

Benché l’iniezione sia comunemente considerata “il più umano” tra i metodi di esecuzione[3], sono comunque sorte numerose controversie circa il concreto operare dei farmaci, che non sempre sono stati in grado di garantire ai condannati una morte indolore.

In particolare, aveva destato indignazione (non solo in ambito dottrinale[4], ma anche in seno all’opinione pubblica[5]) il caso di Clayton Lockett, un condannato a morte che - sottoposto al protocollo dell’Oklahoma basato sulla somministrazione di tre farmaci - aveva dovuto subire un’agonia di quaranta minuti in stato di semi-coscienza, prima di morire di infarto. Una vicenda simile si era verificata in Ohio, dove la sostanza iniettata a Dennis McGuire aveva impiegato venticinque minuti per ucciderlo, durante i quali il condannato aveva emesso continuamente rantoli strazianti[6].

Vicende del genere sono sempre più frequenti da quando diverse case farmaceutiche hanno smesso di fornire agli stati americani le sostanze che venivano utilizzate per le esecuzioni[7]: le amministrazioni penitenziarie si sono dunque trovate a sperimentare nuovi protocolli e i farmaci non sempre sono stati idonei a suscitare uno stato di incoscienza precedente all’effettivo decesso.

Nonostante le problematiche poste dall’iniezione letale, la Corte Suprema non ha mai dichiarato illegittimo nessuno dei protocolli farmacologici adottati dagli stati e, anzi, decidendo su ricorsi che li mettevano in discussione, ha introdotto requisiti molto stringenti affinché possa rinvenirsi una violazione dell’Ottavo Emendamento, ponendo oltretutto sul ricorrente un onere di allegazione molto gravoso.

Le già citate sentenze Baze v. Rees e Glossip v. Gross - i leading case in materia - hanno infatti stabilito che non basta dimostrare che l’esecuzione infligge un “unnecessary pain” al condannato; il detenuto deve anche:

a) individuare un metodo di esecuzione alternativo prontamente reperibile e utilizzabile;

b) dimostrare che lo Stato abbia rifiutato di adottare tale metodo senza fornire una motivazione legittima;

c) dimostrare che il metodo proposto riduce sensibilmente il rischio di grave sofferenza;

a prisoner must show a feasible and readily implemented alternative method of execution that would significantly reduce a substantial risk of severe pain and that the State has refused to adopt without a legitimate penological reason» - See Glossip v. Gross; Baze v. Rees, 52).

Una soluzione diversa, nel ragionamento della Corte, abrogherebbe de facto la pena di morte: se, infatti, la pena di morte non è di per sé incostituzionale, deve esserci un metodo non incostituzionale per eseguirla («because it is settled that capital punishment is constitutional, it necessarily follows that there must be a constitutional means of carrying it out», Glossip v. Gross). Porre l’onere di individuare un metodo alternativo in capo allo Stato rappresenterebbe un «backdoor means» per abolire la pena capitale.

 

3. La sentenza in commento conferma la validità del c.d. Baze-Glossip test e, anzi, esclude che possano prevedersi deroghe alla sua applicazione, nemmeno qualora ricorrano peculiari circostanze in capo al ricorrente che gli impediscano un facile reperimento di informazioni circa il metodo alternativo.

Ma andiamo con ordine: prima di tutto, i fatti.

Bucklew è un detenuto nello Stato del Missouri, condannato a morte per aver ucciso una persona  nel 1996 e per aver commesso altri gravi reati, tra cui stupro e lesioni personali. Nel 2014, dopo quasi vent'anni anni nel braccio della morte e a 12 giorni dalla programmata esecuzione, Bucklew presenta un ricorso davanti al giudice di primo grado, allegando che il metodo utilizzato dal Missuori per effettuare l’esecuzione (iniezione di Pentobarbital) - costituzionale nella generalità dei casi - viola l’Ottavo Emendamento con specifico riferimento alla sua condizione medico-sanitaria.

Bucklew soffre infatti di emangioma cavernoso, una patologia che gli ha causato lo sviluppo di tumori alla testa, al collo e alla gola. Il ricorrente presenta i risultati di un’analisi condotta dal suo consulente tecnico di parte, che illustrano che l’iniezione della sostanza gli infliggerebbe una grave sofferenza, determinando emorragie interne e una sensazione di soffocamento. Inoltre, gli effetti del Pentobarbital non sarebbero istantanei e l’intervallo di tempo intercorrente tra l’iniezione e lo stato di incoscienza potrebbe durare fino a dieci minuti.

Bucklew avanza quella che viene definita una as-applied challenge, ossia un ricorso che chiede alla Corte di dichiarare una norma incostituzionale in relazione a determinati e specifici fatti  (volendo azzardare un paragone con il nostro giudizio di legittimità costituzionale, sarebbe l’equivalente di un ricorso volto ad ottenere una sentenza additiva da parte della Corte Costituzionale, che dichiari l’incostituzionalità di una norma “nella parte in cui non prevede un trattamento differenziato” per una specifica categoria di soggetti o di beni. Si distinguono dalle “as-applied challenges” le più comuni “facial challenges”, ossia quei ricorsi che lamentano l’incostituzionalità di una norma in tutte le sue applicazioni).

Il ricorrente chiede, dunque, che venga prevista un’eccezione all’applicazione di una norma, legittima nella generalità dei casi, ma incostituzionale nel caso specifico.

A parere di Bucklew «certain categories of punishment are manifestly cruel (…) without reference to any alternative methods»; tra queste vi sarebbe anche «any method that, as applied to a particular inmate, will pose a 'substantial and particular risk of grave suffering' due to the inmate's 'unique medical condition»

I criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte Suprema per verificare se vi sia stata una violazione dell’Ottavo Emendamento - riconducibili al Baze-Glossip test - sarebbero dunque applicabili soltanto in relazione alle “facial challenges”, non alle “as-applied”. In un caso come il suo, l’onere di dimostrare che il metodo statale non comporti un “undue pain” per il condannato dovrebbe ricadere sullo Stato: nella posizione in cui si trova, infatti, per il ricorrente sarebbe estremamente gravoso individuare un metodo alternativo, dal momento che la sua malattia è rara, se non unica, e non esistono dati scientifici precisi che dimostrino che vi sia un metodo alternativo in grado di causargli minori sofferenze.

In via secondaria - per il caso in cui la Corte ritenesse applicabile il test - Bucklew individua un metodo alternativo (l’ipossia da azoto).

 

4. La Corte Suprema rigetta tuttavia il ricorso, con una maggioranza di 5-4 (giudice relatore di maggioranza J. Gorsuch). L’argomentazione utilizzata si sviluppa in due fasi distinte. Preliminarmente, la Corte esclude che la qualificazione della domanda come “as-applied” determini un esonero dall’applicazione del test; in seguito, la Corte applica il test e verifica se il ricorso presentato da Bucklew soddisfi le condizioni ivi stabilite.

Quanto alla prima fase, la Corte individua diverse motivazioni che giustificano l’applicazione del test sia alle “facial challenges”, che alle “as-applied”. Innanzitutto, un argomento letterale: la sentenza Glossip v. Gross stabilì che identificare un’alternativa al metodo contestato è «a requirement of all Eighth Amendment method-of-execution claims»: un requisito, dunque, non solo per le “facial challenges", ma anche per le “as-applied”.

D’altra parte, continua la Corte, l’applicazione del test anche alle “as-applied” è ragionevole, poiché la valutazione circa il grado di sofferenza che un metodo di esecuzione comporta non può essere fatta in astratto, in termini assoluti, ma soltanto in relazione agli altri metodi disponibili. Soltanto la comparazione permette di stabilire se lo Stato stia legittimamente effettuando un’esecuzione o stia invece infliggendo sofferenze “gratuite”: l’Ottavo Emendamento, infatti, non garantisce una morte indolore, ma ha l’obiettivo di evitare che al condannato sia inflitto un “undue pain”. La ratio del requisito è dunque ravvisabile anche con riferimento alle “as-applied challenges".
In questo senso, la Corte rigetta l’affermazione contenuta nel ricorso in base alla quale vi sarebbero dei metodi manifestamente e intrinsecamente crudeli, quali la lapidazione, la fustigazione, la crocifissione: i giudici di maggioranza ritengono, invece, che tali metodi siano stati aboliti perché troppo crudeli rispetto ad altri metodi.

4.1 Una volta dimostrato che il Baze-Glossip test è applicabile anche alle “as-applied challenges, la Corte passa alla valutazione del ricorso di Bucklew, per verificare se soddisfi i requisiti ivi previsti.

La domanda di Bucklew non è idonea in primo luogo perché il detenuto avrebbe dovuto dimostrare che il metodo alternativo proposto non solo era teoricamente “fattibile” (feasible), ma anche prontamente utilizzabile (readily implemented). Questo significa che la proposta avrebbe dovuto contenere dettagli tali da permettere allo Stato di esperire un’indagine relativamente semplice e rapida («This means the inmates proposal must be sufficiently detailed to permit a finding that the State could carry it out relatively easily and reasonably quickly.”). La proposta di Bucklew, invece, non soddisfa tale requisito: il ricorrente non ha infatti fornito dettagli circa la quantità di azoto che avrebbe dovuto essere somministrata, per quanto tempo, in quale concentrazione, a che velocità; nulla, inoltre, si disponeva circa le misure di sicurezza che avrebbero dovuto essere implementate per garantire l’incolumità del team esecutivo. Il ricorrente si era limitato a citare studi condotti in altri stati, dai quali tuttavia emergeva che ulteriori ricerche avrebbero dovuto essere svolte al fine di sviluppare un protocollo idoneo sull’ipossia da azoto.
In secondo luogo, lo Stato ha una ragione “legittima” per rifiutarsi di cambiare il metodo di esecuzione, dal momento che sarebbe stato il primo ad utilizzare questo nuovo protocollo, mai provato prima in nessuno stato.
Quanto all’ultimo requisito delineato dal test, Bucklew non dimostra che l’ipossia da azoto ridurrebbe significativamente il rischio di una grave sofferenza. Innanzitutto, l’affermazione in base alla quale lo Stato potrebbe usare procedure dolorose per effettuare l’iniezione - in particolare, forzando il condannato a rimanere sdraiato sulla schiena, rendendogli difficoltoso il respiro ancor prima della somministrazione - non è suffragata da dati certi e, anzi, sembrerebbe essere confutata dalle procedure descritte nel protocollo ufficiale. D’altra parte, ove il documento non fosse stato univocamente interpretabile, egli avrebbe avuto ampia opportunità di condurre un’inchiesta per suo conto, così da offrire informazioni verificate.
Infine, nonostante egli affermi che l’iniezione gli provocherebbe la rottura dei tumori e una sofferenza più acuta (e lunga) rispetto all’ipossia da azoto, le prove presentate non sono sufficienti. Le affermazioni di Bucklew restano ancorate soltanto alla testimonianza del suo esperto di parte, basate su uno studio sull’eutanasia dei cavalli la cui portata, a parere della Corte, è stata travisata.

 

5. La vicenda ha dato luogo a due dissenting opinions dai toni molto aspri, che contestano alla maggioranza di non aver valutato correttamente gli elementi presentati da Bucklew, che dimostravano che l’iniezione letale avrebbe causato gravi sofferenze al ricorrente («In my view, executing Bucklew by forcing him to choke on his grossly enlarged uvula and suffocate on his blood would exceed the limits of civilized standards», Justice Breyer, dissenting, joined by justice Ginsburg and Kagan).

Una critica è inoltre scagliata contro la parte finale della decisione, che attribuisce gli intollerabili ritardi nelle esecuzioni (la sentenza fa riferimento a una media di 18 anni tra la commissione del fatto e l’esecuzione) ai ricorsi dei detenuti nel braccio della morte, spesso presentati a distanza di pochi giorni dalla data programmata per la pena. La maggioranza giunge a suggerire che i last -minute stays siano dichiarati inammissibili, qualora vi è il concreto rischio che essi siano frutto di strumentalizzazionelast-minute stays should be the extreme exception, not the norm, and the last-minute nature of an application that could have been brought earlier, or an applicant’s attempt at manipulation, may be grounds for denial of a stay»).

Per un osservatore europeo si tratta di un ragionamento inaccettabile, che sottometterebbe le garanzie costituzionali ad esigenze di natura pratica e organizzativa; la stessa preoccupazione anima il giudice Sotomayor, che nella sua dissenting opinion scrive: «There are higher values than ensuring that executions run on time. If a death sentence or the manner in which it is carried out violates the Constitution, that stain can never come out. Our jurisprudence must remain one of vigilance and care, not one of dismissiveness».

***

La sentenza Bucklew v. Precythe conferma l’“anomalia” degli Stati Uniti in materia di esecuzioni capitali: come infatti afferma David Garland, sociologo del diritto e studioso della pena capitale negli USA, «l’ “era dell’abolizione” fa dell’America un’anomalia, l’ultimo baluardo in un periodo storico che ha visto le nazioni occidentali abbracciare l’abolizionismo, inquadrandolo nella sfera dei diritti umani e considerandolo segno di civilizzazione»[8].

Se è vero che i livelli di consenso popolari attorno alla pena di morte restano maggioritari, sebbene in continua diminuzione[9], la Corte Suprema sembra talvolta abdicare al suo ruolo, nascondendosi dietro ad un eccesso di judicial restraint the judiciary bears no license to end a debate reserved for the people and their representatives»). In questo caso, tuttavia, non si trattava di prendere posizione circa la legittimità della pena capitale - aprendo la strada ad un “backdoor means” per la sua abolizione - quanto di stabilire se, nel caso concreto, la pena fosse contraria all’Ottavo Emendamento, in quanto “cruel and unusual”. L’onere di allegazione posto in capo al ricorrente costituisce un ostacolo difficilmente superabile dai detenuti e, d’altra parte, rappresenta un alibi per la Corte Suprema per non decidere circa la concreta crudeltà del metodo esecutivo.

L’applicabilità del Baze-Glossip test anche alle “as-applied challenges” lascia davvero scarse speranze ai ricorrenti che lamentino metodi di esecuzione dolorosi, tanto da indurre un giornalista statunitense a parlare di «the end of an Eighth Amendment jurisprudence governed by 'civilized standards’ - and the beginning of a new, brutal era in American capital punishment»[10].

[1] L’altro tema al centro del dibattito sulla pena di morte negli Stati Uniti è quello del pregiudizio razziale, specie per quanto concerne l’etnia della vittima: in base a dati statistici raccolti dal Death Penalty Information Center, gli afroamericani che abbiano ucciso bianchi hanno una probabilità molto più alta di essere puniti con la pena di morte rispetto agli afroamericani che abbiano ucciso altri afroamericani. Vd. anche G.L. GATTA, Omicida condannato a morte, anziché all’ergastolo, perché “pericoloso”. La Corte Suprema U.S.A. mette un freno all’ingresso di stereotipi razziali nel sentencing, in Dir. Pen. Cont., 28 febbraio 2017; J. D. LEVINSON - R. J. SMITH - D. M. YOUNG, Devaluing Death: An Empirical Study of Implicit Racial Bias on Jury-Eligible Citizens in Six Death Penalty States, in 89 New York University Law Review 513.

[2] Vd. Death Penalty Information Center, Facts about the Death Penalty (updated: October 2, 2019).

[3] In base ad uno studio condotto nel 2014 dall’Agenzia di analisi statistiche Gallup, il 69% degli statunitensi ritiene che l’iniezione letale sia il metodo più umano per eseguire la pena, seguita dalla fucilazione (9%), l’impiccagione (5%), la sedia elettrica (4%) e la camera a gas (4%).

[4] Si vedano i preziosi contributi contenuti in Lethal Injection, Politics, and the Future of Death Penalty, un numero speciale della University of Richmond Law Review (Vol. 49, March 2015, n. 3), che raccoglie diversi commenti all’episodio. Per un commento alla vicenda Lockett si veda anche A. CORDA, Pena di morte, iniezione letale e protocolli farmacologici. Verso un nuovo pronunciamento della Corte Suprema degli Stati Uniti, in Dir. pen. cont., 10 marzo 2015.

[5] Vd. J.E. STERN, The Cruel and Unusual Execution of Clayton Lockett, in The Atlantic, June 2015; E. ECKHOLM, One Execution Botched, Oklahoma Delays the Next, in The New York Times, 29 aprile 2014.

[6] R. LYMAN, Ohio Execution Using Untested Drug Cocktail Renews the Debate Over Lethal Injections, in The New York Times, 16 gennaio 2014;

[7] Vd. M. BERMAN, Drug companies don’t want to be involved in executions, so they’re suing to keep their drugs out, in The Washington Post, 13 August 2018; E. ECKHOLM, Pfizer Blocks the Use of Its Drugs in Executions, in The New York Times, 13 maggio 2016; per una panoramica sul tema si veda J. GIBSON - C. BARRETT LAIN, Death Penalty Drugs and the International Moral Marketplace, in Georgetown Law Journal, 103, 1215.

[8] D. GARLAND, La pena di morte in America. Un’anomalia nell’era dell’abolizionismo, Il Saggiatore, 2013.

[9] Vd. lo studio condotto da Gallup (U.S. Death Penalty Support Lowest Since 1972), in base al quale nel 2017 il 55% degli statunitensi si dichiarava favorevole alla pena di morte, il dato più basso dal 1972.

[10] M. J. STERN, The Supreme Court’s Conservatives Just Legalized Torture, in Slate, 1 aprile 2019; critici nei confronti della sentenza sono stati, tra gli altri, anche A. LIPTAK, Rancor and Raw Emotion Surface in Supreme Court Death Penalty Ruling, in The New York Times, 1 aprile 2019; G. EPPS, Debunking the Court’s Latest Death-Penalty Obsession, in The Atlantic, 17 giugno 2019.