GIP Reggio Emilia, sent. 27 gennaio 2021, giud. De Luca
1. Con la sentenza che si può leggere in allegato il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Emilia ha prosciolto ex art. 129 c.p.p. due soggetti imputati del delitto di cui all’art. 483 c.p. in relazione alle false dichiarazioni riportate nell’autocertificazione richiesta al fine di giustificare i propri spostamenti durante il primo lockdown dello scorso anno.
La pronuncia, al pari di una recente sentenza del G.i.p. di Milano della quale si è dato conto in questa Rivista, rigetta la richiesta di emissione di decreto penale di condanna formulata dalla Procura in relazione alla fattispecie di falso ideologico del privato in atto pubblico, sulla base – questa volta – di una motivazione che non prende in considerazione il tema della (problematica) configurabilità dei reati di falso in relazione alle autodichiarazioni richieste nell’attuale contesto di emergenza sanitaria[1], ma che si incentra piuttosto sulla ritenuta illegittimità del ricorso allo strumento del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri al fine di introdurre limitazioni alla possibilità di spostamento nell’ottica di contenimento del contagio.
La particolarità delle argomentazioni sviluppate dal G.i.p. di Reggio Emilia, per la verità non del tutto inedite nel contesto della giurisprudenza di merito[2], è stata prontamente colta dagli organi di informazione, che hanno dato ampio risalto alla pronuncia, enfatizzando proprio il giudizio negativo che la stessa ha espresso in relazione al ruolo centrale assunto dai DPCM nel sistema delle fonti del diritto pandemico[3].
2. I fatti in relazione ai quali era stata richiesta l’emissione del decreto penale di condanna risalgono al 13 marzo 2020: fermati dai Carabinieri, i due imputati compilavano l’autocertificazione richiesta dichiarando l’una di essere andata a sottoporsi ad esami clinici, l’altro di averla accompagnata, circostanze che poi, da un successivo controllo sugli accessi presso l’Ospedale locale, si dimostravano non veritiere.
Ad avviso del G.i.p. sarebbe proprio “l’obbligo di compilare l’autocertificazione imposto in via generale per effetto del Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (D.P.C.M.) citato nell’autocertificazione stessa” a costituire il “presupposto” della contestata ipotesi delittuosa di cui all’art. 483 c.p. In questo senso il Giudice ritiene di dover immediatamente rilevare “in via assorbente (…) la “indiscutibile illegittimità” tanto dei DPCM 8 marzo 2020 e 9 marzo 2020, quanto di “tutti quelli successivamente emanati dal Capo del Governo”, nella misura in cui questi provvedimenti hanno stabilito un divieto di spostamento delle persone fisiche salvo che per “comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute”.
Sul punto viene evidenziato in primo luogo come le disposizioni dei citati DPCM relative alle misure di contenimento del contagio stabiliscano “un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni”, che secondo il G.i.p. si traduce nell’introduzione di un vero e proprio “obbligo di permanenza domiciliare” in capo al cittadino. Tale obbligo – prosegue la sentenza – costituisce una misura restrittiva della libertà personale, del tutto equiparabile a quelle forme di detenzione domiciliare che possono essere disposte dal giudice penale all’esito del giudizio ovvero in sede cautelare, e non diversa da altre situazioni che pure la giurisprudenza ha riconosciuto come direttamente incidenti sulla libertà personale del singolo individuo; vengono richiamati in questo senso i casi del prelievo ematico coattivo, dell’obbligo di presentazione all’Autorità previsto per il soggetto sottoposto a DASPO, dell’accompagnamento coattivo dello straniero alla frontiera e del trattamento sanitario obbligatorio.
Se dunque l’obbligo di permanenza domiciliare imposto con i richiamati DPCM deve essere qualificato come misura limitativa della libertà personale, lo stesso – prosegue il Giudice – dovrebbe essere assistito dalle garanzie di cui all’art. 13 Cost., e dunque essere sottoposto alla doppia riserva di legge e di giurisdizione.
È su questo piano che, ad avviso del G.i.p., si misura l’illegittimità del ricorso al DPCM per l’introduzione delle misure de quibus: da un lato, questo strumento “non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge”; dall’altro, esso risulta comunque per sé solo insufficiente allo scopo, in quanto l’art. 13 Cost. “implic[a] necessariamente un provvedimento individuale, diretto dunque nei confronti di uno specifico soggetto” ed emesso dall’Autorità giudiziaria.
Rilevato il contrasto fra il canone di cui all’art. 13 Cost. e la disciplina limitativa degli spostamenti introdotta dai decreti governativi, il Giudice, stante la natura di atti amministrativi dei DPCM, ritiene di dover procedere alla loro disapplicazione ai sensi di quanto disposto dall’art. 5, legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E.
3. Da una tale conclusione il G.i.p. trae le conseguenze in punto di (ir)rilevanza penale della fattispecie concreta: se è stato proprio il DPCM dell’8 marzo 2020 ad aver “costretto” gli imputati “a sottoscrivere una autocertificazione incompatibile con lo stato di diritto del nostro Paese e dunque illegittima”, la disapplicazione di tale provvedimento normativo fa sì che “la condotta di falso, materialmente comprovata come in atti, non sia tuttavia punibile”, in quanto sarebbe da escludere “l’antigiuridicità in concreto della condotta”, venendosi piuttosto ad integrare un’ipotesi di “falso inutile” o “innocuo”.
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4. È evidente come la grande eco mediatica che ha avuto la pronuncia de qua sia dovuta al tenore (per certi versi davvero deflagrante[4]) delle argomentazioni spese dal G.i.p. di Reggio Emilia, che – come si è detto – trascendono completamente il tema della configurabilità dei reati di falso in relazione alla “autodichiarazione Covid-19”, per andare direttamente a toccare (e a mettere in discussione) la fonte stessa di quelle limitazioni che ormai da un anno, seppur con intensità diversa a seconda delle diverse fasi dell’emergenza pandemica, interessano la vita quotidiana di tutti i cittadini.
Proprio in ragione della portata degli argomenti spesi dal Giudice mi pare interessante sviluppare alcune considerazioni a prima lettura, evidenziando subito come a mio modestissimo avviso sia assolutamente opportuna la scelta in sé di addivenire ad una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. nell’ipotesi de qua, mentre non possa essere condiviso l’apparato motivazionale che ha portato ad un tale esito favorevole per gli imputati.
5. Abbiamo visto come il G.i.p. abbia voluto mettere sotto accusa in particolare i DPCM 8 marzo 2020 e 9 marzo 2020[5] e cioè quei decreti che, al momento del fatto (13 marzo 2020), risultavano essere stati emanati quali strumento per l’adozione di “ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza” ai sensi di quanto disposto dall’art. 3, primo comma, del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6 (conv. l. 5 marzo 2020, n. 13). Come è noto, in particolare, con il DPCM 8 marzo 2020 erano state introdotte talune “misure urgenti di contenimento del contagio” limitatamente ad alcune aree territoriali (fra le quali figurava anche la provincia di Reggio nell’Emilia), misure che il successivo DPCM 9 marzo 2020 estendeva all’intero territorio nazionale.
La sentenza si concentra in particolare sul contenuto dell’art. 1, comma 1, lett. a) del DPCM 8 marzo 2020, che impone di “evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all'interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute”. Nella prospettiva del G.i.p., come abbiamo visto, tale misura avrebbe imposto un vero e proprio “obbligo di permanenza domiciliare”, idoneo ad incidere direttamente sulla libertà personale dei singoli cittadini e la cui introduzione sarebbe dunque legittima soltanto in quanto assistita dalle garanzie della riserva di legge e di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost.; garanzie che tuttavia lo strumento del DPCM non sarebbe in grado di assicurare.
Gli argomenti del G.i.p., in definitiva, coinvolgono direttamente il piano del sistema delle fonti del diritto pandemico, e in particolare il problema dell’individuazione di quegli strumenti regolatori che, in una situazione di emergenza quale quella attuale, possono introdurre limiti alle libertà costituzionalmente garantite per esigenze di tutela della salute e della sicurezza pubblica. Si tratta, come evidente, di un tema sensibile e rilevantissimo, che proprio in relazione allo strumento dei DPCM ha suscitato un profondo dibattito, specie in quella primissima fase dell’emergenza in cui si colloca la vicenda in esame, quando l’inosservanza delle misure di contenimento integrava un illecito penale sanzionato con un rinvio quoad poenam all’art. 650 c.p.[6].
Se dunque le questioni sollevate dal Giudice emiliano affondano le radici su di un terreno fertile, le stesse si sviluppano tuttavia in un senso che ritengo non possa essere condiviso. Per fare luce sulle criticità della pronuncia è utile procedere per punti, seguendo il filo del ragionamento logico della sentenza.
5.1. In primo luogo, rileva la qualificazione della misura limitativa degli spostamenti di cui al citato art. 1, comma 1, lett. a) del DPCM 8 marzo 2020 come implicante un vero e proprio “obbligo di permanenza domiciliare”, e dunque come restrittiva della libertà personale. La questione qui attiene alla definizione del contenuto delle diverse misure di contenimento del contagio in relazione alla libertà costituzionale sulla quale le stesse vanno a incidere; questione evidentemente non solo terminologica, ma che si riverbera direttamente sullo statuto di garanzia – e dunque di legittimità – delle misure stesse.
Ebbene, con riferimento al divieto di spostamento delle persone fisiche al di fuori delle ormai note esigenze di lavoro, salute o necessità, a me pare evidente che a venire in gioco sia non tanto la libertà personale di cui all’art. 13 Cost., quanto piuttosto la libertà di circolazione tutelata all’art. 16 della Carta costituzionale, in relazione alla quale è espressamente prevista la possibilità che la legge stabilisca “in via generale” limitazioni per motivi di sanità o di sicurezza[7].
In questo senso, pur nella consapevolezza dei complessi rapporti fra le libertà di cui agli artt. 13 e 16 Cost., mi sembra che una limitazione della libertà personale, in guisa tale da configurare un “obbligo di permanenza domiciliare”, si possa manifestare solo con riferimento ad altre e diverse misure anti-contagio, caratterizzate da una effettiva coercizione fisica con modalità analoghe agli strumenti detentivi; il riferimento è, evidentemente, alla misura della quarantena con divieto assoluto di allontanamento dalla propria abitazione imposta nel caso di soggetti positivi al Covid-19[8].
In relazione a quest’ultima ipotesi è stato in effetti da più parti rilevato un vulnus alle garanzie di cui all’art. 13 Cost. nella misura in cui la quarantena con obbligo di permanenza domiciliare – la cui violazione, come noto, continua ad avere rilevanza penale ai sensi dell’art. 2, comma 3, d.l. 16 maggio 2020, n. 33, conv. l. 14 luglio 2020, n. 74 – dovrebbe quanto meno essere caratterizzata da un intervento dell’autorità giudiziaria, anche nella forma della convalida del provvedimento dell’autorità sanitaria[9].
Il Giudice emiliano critica espressamente l’argomento volto a ricondurre le limitazioni agli spostamenti di cui all’art. 1, comma 1, lett. a) del DPCM 8 marzo 2020 alla libertà di circolazione ex art. 16 Cost., quasi fosse un espediente retorico funzionale “[al]l’estremo tentativo dei sostenitori, ad ogni costo, della conformità a Costituzione dell’obbligo di permanenza domiciliare”. A non convincere tuttavia – al di là della limitativa concezione della libertà di circolazione come meramente riferita all’“accesso a determinati luoghi”[10] – è proprio il presupposto di tale critica, e cioè l’idea che la misura de qua implichi un “obbligo di permanenza domiciliare” in quanto “prevede che il cittadino non può recarsi in nessun luogo al di fuori della propria abitazione”. Questo, come si è detto, può essere vero nel caso di quarantena con obbligo di permanenza domiciliare, ma non per le limitazioni agli spostamenti, rispetto alle quali il singolo mantiene evidentemente la possibilità di uscire dalla propria abitazione, naturalmente nei limiti (costituzionalmente ammissibili) in cui ricorrano le richiamate esigenze di lavoro, salute e necessità[11].
5.2. Pur riconducendo le misure anti-contagio limitative degli spostamenti all’alveo dell’art. 16 Cost., rimane comunque ferma l’esigenza di individuare una base legale per le restrizioni alla libertà di circolazione così introdotte, che alla luce del richiamato canone costituzionale debbono appunto essere previste dalla legge “in via generale”.
Con riferimento a questo profilo il G.i.p., pur muovendosi nell’ottica dell’art. 13 Cost., evidenzia come “un DPCM non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge”. Giungendo a questa lapidaria conclusione il Giudice mostra di non prendere in considerazione la fonte che a sua volta ha demandato ai DPCM l’introduzione delle misure di contenimento del contagio, e cioè – almeno con riferimento al periodo iniziale dell’emergenza nel quale si colloca la vicenda de qua – il già citato d.l. n. 6 del 23 febbraio 2020.
Ora, se quel decreto legge possa rappresentare una valida base legale nell’ottica della previsione di limitazioni alla libertà di circolazione è stata una questione, come noto, dibattuta; sul punto ci limitiamo a dire che, se a livello formale il rinvio della fonte legislativa a quella secondaria quale strumento per l’introduzione delle misure anti-contagio consentiva almeno di individuare una forma di “previsione per legge” in conformità alla riserva relativa di cui all’art. 16 Cost., a livello sostanziale restava problematico il fatto che le incisive misure restrittive degli spostamenti individuali introdotte dai DPCM di inizio marzo 2020 non fossero originariamente contemplate nel d.l. n. 6 del 2020, essendo piuttosto riconducibili alla clausola “in bianco” di cui all’art. 2, che si riferiva genericamente alla possibilità di prevedere “ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza”[12].
Sappiamo comunque che l’evoluzione della legislazione emergenziale ha poi riportato la disciplina delle misure anti-contagio entro un quadro più aderente alle garanzie costituzionali, almeno con riferimento alla base legale delle limitazioni imposte alla libertà di circolazione: il d.l. n. 6 del 2020 è stato infatti abrogato dal successivo d.l. 25 marzo 2020, n. 19, conv. l. 22 maggio 2020, n. 35, il quale ha tra l’altro provveduto a tipizzare le diverse misure limitative, estendendole espressamente a tutto il territorio nazionale[13].
5.3. Con riferimento infine alle conseguenze che la sentenza de qua ritiene di dover trarre dalla pretesa illegittimità dei DPCM in punto di configurabilità dell’ipotesi di falso di cui all’art. 483 c.p., si è detto come nell’ottica del G.i.p. dalla disapplicazione dei DPCM ritenuti illegittimi deriverebbe anche la disapplicazione della “norma giuridica contenuta nel DPCM che imponeva la compilazione e sottoscrizione della autocertificazione”, sulla base della quale gli imputati sono stati “costretti” a sottoscrivere il documento; il falso che attinge l’autocertificazione, dunque, viene definito come inutile ovvero innocuo, e in quanto tale risulterebbe penalmente irrilevante.
Su questo punto è necessario evidenziare come, in realtà, i DPCM che hanno introdotto le misure anti-contagio non contengano affatto una norma che “impone” la sottoscrizione dell’autocertificazione. Tale strumento infatti, avente lo scopo di dimostrare la sussistenza delle condizioni che consentono la libertà di spostamento, è stato previsto con la Direttiva del Ministero dell’Interno rivolta ai Prefetti n. 14606 dell’8 marzo 2020, dunque con un atto interno dell’Amministrazione, che a ben vedere non produce direttamente effetti nei confronti dei privati[14]. Proprio in questo senso è stato evidenziato come in realtà non sussista alcun obbligo di firmare l’autodichiarazione, non essendo contemplata alcuna sanzione in caso di rifiuto e non essendo in definita coercibile la firma del modulo[15].
6. Ho già detto come a mio avviso la decisione di prosciogliere gli imputati alla quale giunge il Giudice emiliano risulti in sé assolutamente condivisibile. Problematico mi sembra piuttosto il percorso argomentativo intrapreso per arrivare a tale esito, specie nella misura in cui si fonda su una radicale delegittimazione delle misure di contenimento introdotte con lo strumento dei DPCM che trovo particolarmente pericolosa – specie per come è stata semplicisticamente tradotta nel linguaggio massmediatico – soprattutto nel momento attuale, in cui la comunità dei cittadini è chiamata a rispondere con responsabilità alle nuove importanti limitazioni di libertà richieste nell’ottica di contenere quella che sembra assumere i tratti di una vera e propria “terza ondata” del contagio.
Proprio in questo senso mi sembra importante evidenziare come ad una soluzione processuale analoga della vicenda concreta il Giudice sarebbe potuto arrivare attraverso una riflessione incentrata sulla struttura dell’ipotesi delittuosa di falso richiamata nell’imputazione, volta in particolare a chiedersi se l’autodichiarazione sottoscritta dagli imputati sia effettivamente riconducibile alla categoria delle dichiarazioni sostitutive di certificazioni o di atto di notorietà di cui agli artt. 46 e 47 d.P.R. n. 445 del 2000, in relazione alla quale può configurarsi la fattispecie di cui agli artt. 76 d.P.R. n. 445 del 2000 e 483 c.p.
Su questo punto, come ho già avuto modo di evidenziare in relazione alla pronuncia del G.i.p. di Milano citata in apertura, a me sembra che il modulo autodichiarativo compilato dal privato per giustificare i propri spostamenti, nella misura in cui non si inserisce in una relazione fra cittadino e pubblica Amministrazione caratterizzata dalla presentazione di un’istanza del primo volta ad ottenere un atto della seconda, non possa che rimanere una mera scrittura privata, funzionale a fornire un supporto materiale a quanto dichiarato al pubblico ufficiale, la cui eventuale falsità dunque non integra l’ipotesi di cui all’art. 483 c.p.[16].
[1] Sul tema v. per tutti R. Bartoli, Il diritto penale dell’emergenza “a contrasto del coronavirus”: problematiche e prospettive, in questa Rivista, 24 aprile 2020; M. Grimaldi, Covid-19: la tutela penale del contagio, in Giurisprudenza penale Web, 2020, 4; F. Lombardi, Covid-19, misure di contenimento e reati di falso: aspetti problematici dell’autodichiarazione, ivi, 2020, 3; M. Pelissero, Covid-19 e diritto penale pandemico. Delitti contro la fede pubblica, epidemia e delitti contro la persona alla prova dell’emergenza sanitaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, 513 ss.; volendo anche E. Penco, Autodichiarazione Covid-19 e reati di falso: inapplicabile l’art. 483 c.p. se la dichiarazione mendace consiste nella mera manifestazione delle proprie intenzioni, in questa Rivista, 12 gennaio 2021.
[2] Nel senso della illegittimità dei DPCM in quanto fonte di misure limitative delle libertà dell’individuo si era espresso anche il Tribunale civile di Roma, con ordinanza del 16 dicembre 2020 (g.u. Alessio Liberati), con riferimento ad una richiesta di reductio ad equitatem del canone locatizio di un esercizio commerciale in ragione della crisi di vendite indotta dall’emergenza sanitaria; sulla pronuncia v. M. Tarantino, D.p.c.m. illegittimi: il conduttore non può chiedere la rinegoziazione del contratto a causa delle limitazioni imposte dal governo, in www.condominioelocazione.it, 13 gennaio 2021.
[3] Coronavirus, escono di casa con l'autocertificazione falsa. Il giudice: "Non è reato. Il Dpcm è illegittimo", in repubblica.it, 11 marzo 2021; Fermati per il lockdown con autocertificazione falsa, il giudice li proscioglie e scrive: “Il dpcm non può vietare di uscire di casa”, in ilfattoquotidiano.it, 11 marzo 2021; Covid, l’autocertificazione infondata non è mai reato, in ilsole24ore.com, 11 marzo 2021; Una sentenza inchioda i Dpcm: violare zona rossa non è reato, in ilgiornale.it, 11 marzo 2021.
[4] Gli organi di informazione hanno parlato di “sentenza rivoluzionaria”, di “precedente-bomba”: Covid: “Dpcm illegittimi e incostituzionali, l’autocertificazione falsa non è reato”, in reggionline.com, 11 marzo 2021.
[5] La sentenza si riferisce per errore al DPCM 8 marzo 2020 anche quando riporta contenuti del DPCM 9 marzo 2020, come la norma che estende le misure di contenimento del contagio all’intero territorio nazionale.
[6] Sul tema v. fra gli altri M. Belletti, La “confusione” nel sistema delle fonti ai tempi della gestione dell’emergenza da Covid-19 mette a dura prova gerarchia e legalità, in Rivista AIC, 3/2020, 174 ss.; G. Di Cosimo, Quel che resta della libertà di circolazione al tempo del Coronavirus, in Osservatorio sulle fonti, fasc. speciale, 2020; U. De Siervo, Emergenza Covid e sistema delle fonti: prime impressioni, ivi; G.L. Gatta, Coronavirus, limitazioni di diritti e libertà fondamentali, e diritto penale: un deficit di legalità da rimediare, in questa Rivista, 16 marzo 2020; J. Habermas – K. Günther, Diritti fondamentali: “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti”, in giustiziainsieme.it, 30 maggio 2020; G.M. Locati – F. Filice, Lo Stato democratico di diritto alla prova del contagio, in questionegiustizia.it, 27 marzo 2020; M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritti alla prova dell’emergenza, in Rivista AIC, 2/2020, 109 ss.; D. Pulitanò, Problemi dell’emergenza. Legalità e libertà, in lalegislazionepenale.eu, 18 maggio 2020; Id., Lezioni dell’emergenza e riflessioni sul dopo. Su diritto e giustizia penale, in questa Rivista, 28 aprile 2020.
[7] In questo senso, fra gli altri, A. Candido, Poteri normativi del Governo e libertà di circolazione al tempo del COVID-19, in Forum di Quaderni Costituzionali, 1/2020, 424 ss.; G. Di Cosimo, Quel che resta della libertà di circolazione, cit., 567 ss.; G.L. Gatta, Coronavirus, limitazioni di diritti e libertà fondamentali, cit.; M. Grimaldi, Covid-19: la tutela penale del contagio, cit., 19; G. Salvadori, Il periplo dell’isolato. La libertà di passeggiare al tempo del Covid-19, in www.gruppodipisa.it, 14 aprile 2020.
[8] Così M. Pelissero, Covid-19 e diritto penale pandemico, cit., 511, che evidenzia come «il divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora comprime la libertà personale allo stesso modo in cui lo fa la detenzione domiciliare». In termini analoghi G.L. Gatta, I diritti fondamentali alla prova del coronavirus. Perché è necessaria una legge sulla quarantena, in questa Rivista, 2 aprile 2020.
[9] Sul tema v. fra gli altri G.L. Gatta, I diritti fondamentali alla prova del coronavirus, cit.; M. Pelissero, Covid-19 e diritto penale pandemico, cit., 511 ss.; Per una riflessione sulle garanzie (anche procedimentali) che devono assistere la misura della quarantena v. il recente contributo di A. Della Bella, L’allontanamento dal domicilio del soggetto positivo al Covid tra problemi di diritto transitorio e inesistenza dei provvedimenti di quarantena, in questa Rivista, 16 marzo 2021.
[10] Con riferimento al contenuto della libertà di cui all’art. 16 Cost., anche in rapporto con quella di cui all’art. 13 Cost., v. per tutti G. Amato, Art. 16, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, 1977, 114 ss. È curioso peraltro che il Giudice emiliano, pretendendo di circoscrivere l’ambito di rilevanza della libertà di circolazione rispetto a quello della libertà personale di cui all’art. 13 Cost., prenda a riferimento una sentenza della Corte costituzionale (la n. 68 del 30 giugno 1964, in Giur. cost., 1964, 715 ss.) che ha affermato la riconducibilità della misura di prevenzione di cui all’art. 2, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 proprio all’alveo delle garanzie di cui all’art. 16 Cost.; con riferimento a tale pronuncia v. G. Amato, Art. 13, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, cit., 40 ss.
[11] Sul punto possono essere richiamate le riflessioni di G. Salvadori, Il periplo dell’isolato, cit., 309 il quale – prendendo in considerazione le misure limitative degli spostamenti di cui ai DPCM 8 e 9 marzo 2020 – evidenzia come, al di là della narrativa emergenziale fondata sul messaggio #IoRestoaCasa, invero «il comando governativo (…) non contiene alcun divieto di uscire di casa ed è ben lungi dal somigliare ad un coprifuoco: si limita a vietare gli assembramenti di persone e gli spostamenti ingiustificati, anche all’interno del medesimo Comune, e pare in effetti proporzionato e adeguato agli obiettivi che si propone». Per considerazioni analoghe v. G. Di Cosimo, Quel che resta della libertà di circolazione, cit., 568; A. Candido, Poteri normativi del Governo e libertà di circolazione, cit., 424 ss.
[12] Evidenziano in questo senso la tensione con il principio di riserva di legge di cui agli artt. 16 e 25, secondo comma, Cost., fra gli altri, M. Belletti, La “confusione” nel sistema delle fonti, cit., 189; G. Di Cosimo, Quel che resta della libertà di circolazione, cit., 571; G.L. Gatta, Coronavirus, limitazioni di diritti e libertà fondamentali, cit.; M. Pelissero, Covid-19 e diritto penale pandemico, cit., 511; G.M. Locati – F. Filice, Lo Stato democratico di diritto alla prova del contagio, cit.
[13] Per tutti, G.L. Gatta, Un rinnovato assetto del diritto dell’emergenza COVID-19, più aderente ai principi costituzionali, e un nuovo approccio al problema sanzionatorio: luci ed ombre nel d.l. 25 marzo 2020, n. 19, in questa Rivista, 26 marzo 2020; C. Ruga Riva, Il d.l. 25 marzo 2020, n. 19, recante «misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19»: verso una “normalizzazione” del diritto penale dell’emergenza?, in lalegislazionepenale.eu, 6 aprile 2020.
[14] Così M. Grimaldi, Covid-19: la tutela penale del contagio, cit., 24
[15] M. Pelissero, Covid-19 e diritto penale pandemico, cit., 514.
[16] Sul punto v. E. Penco, Autodichiarazione Covid-19 e reati di falso, cit.; nello stesso senso le considerazioni di R. Bartoli, Il diritto penale dell’emergenza “a contrasto del coronavirus”, cit., 10; M. Grimaldi, Covid-19: la tutela penale del contagio, cit., 25; M. Pelissero, Covid-19 e diritto penale pandemico, cit., 517.