Nota a Cass. Sez. IV, sent. 6 dicembre 22 (dep. 14 aprile 23) n. 15786, Pres. Ferranti, Est. Dawan, Imp. Varriano e altri
1. Nozione. L’espressione “diagnosi differenziale” fa parte ormai del linguaggio comune. Ma che cosa significa esattamente?
La diagnosi differenziale è un percorso intellettuale per esclusione seguito in medicina per porre la diagnosi. Ad es., febbre e rinorrea: Covid-19 o influenza stagionale o infezione batterica? Altro esempio: dolore toracico e dispnea: sindrome coronarica acuta o tromboembolia polmonare o ansia somatizzata? O altro ancora?
Poste le diverse ipotesi, si escludono gradualmente, per arrivare a individuare qual è la causa che genera il quadro presentato dal paziente. La tappa di arrivo del percorso è la diagnosi e il percorso per esclusione è appunto la diagnosi differenziale.
Trattandosi di percorso, sarebbe più appropriato parlare non di diagnosi, ma di diagnostica differenziale. Ma questa espressione, sebbene più precisa, è molto poco usata e proporne l’uso rischia di essere una pedanteria linguistica.
Per familiarizzare con la nozione di diagnosi differenziale possiamo prendere consapevolezza che anche nella vita quotidiana seguiamo percorsi intellettuali per esclusione. Ad es., con lo smartphone inviamo un messaggio e poi vediamo che il destinatario lo ha letto, ma non ci ha risposto. Ci chiediamo quali possono essere i motivi della mancata risposta, escludendo quelli meno probabili.
2. I principi giurisprudenziali. La diagnosi differenziale è un obbligo cautelare per il medico. La sentenza qui annotata ribadisce il principio ormai tralatizio per il quale versa in colpa il medico che, in presenza di sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dall’anamnesi e dalle altre notizie comunque pervenutegli, omettendo così di porre in essere la dovuta terapia[1].
Il caso della sentenza è quello di un paziente che viene visitato in ospedale per un dolore addominale localizzato in ipocondrio sinistro e viene dimesso con diagnosi di “Ipertensione arteriosa”, senza approfondimenti diagnostici. Quattro giorni dopo il paziente accede nuovamente in ospedale, viene sottoposto a intervento di riparazione aortica a cielo aperto per rottura di aneurisma dell’aorta addominale. Ma senza successo, perché muore per insufficienza cardiocircolatoria. Il giudizio di merito si conclude con la condanna dei medici che, durante il primo accesso del paziente in ospedale, non hanno approfondito il quadro, ponendo in diagnosi differenziale le diverse cause che potevano generare il dolore addominale.
In motivazione si richiama anche un altro principio, più esteso ma di sostanza immutata rispetto a quello già indicato e cioè in tema di colpa professionale medica, l’errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi[2].
3. Integrazione dei principi. Ad un’attenta valutazione ci accorgiamo che questi principi giurisprudenziali null’altro sono che vere e proprie regole cautelari. In applicazione di questi principi, nel corso degli anni si sono pronunciate molte condanne[3] e poche assoluzioni[4].
È possibile integrare questi principi? È cioè possibile rendere più determinato l’addebito di colpa?
Non solo è possibile, ma è anche necessario, perché altrimenti, come ben rilevato in dottrina[5], si rischia di affermare la colpa per omessa diagnosi differenziale sulla base di dati conosciuti solo dopo che la condotta medica è stata realizzata. Questo è un rischio colpevolista a danno del medico dal quale metteva in guardia in termini generali anche il compianto Maestro[6].
L’integrazione dei principi in materia, attualmente non può che avvenire mediante l’art. 5 della legge Gelli, che impone un preciso parametro di valutazione della condotta dell’esercente la professione sanitaria e cioè linee guida pubblicate ai sensi del comma terzo dello stesso art. 5 o in mancanza buone pratiche clinico assistenziali.
Attualmente, qualunque valutazione di colpa medica, e non solo in materia di diagnosi differenziale, che venga fatta al di fuori dell’art. 5 della Gelli è all’evidenza da ritenersi extra legem.
Tuttavia, sono rare le applicazioni dell’art. 5 della legge Gelli in materia di diagnosi differenziale. E appaiono davvero sfumate. Ad es., in un precedente post legge Gelli si scrive che il medico deve procedere seguendo la direzione indicata dalle linee guida nella formulazione delle ipotesi, fino a che non giunge a quella che risulta riscontrata dai dati empirici raccolti[7].
Tuttavia, anche la sentenza in commento si distingue al riguardo, perché fa riferimento alle conclusioni dei periti nel giudizio di primo grado, secondo le quali i medici che ebbero in cura il paziente durante il primo ricovero non si attennero alle linee guida e alle buone pratiche. È evidente che maggiore precisione si sarebbe ottenuta indicando a quali linee guida e a quali buone pratiche ci si doveva attenere. È in questa precisione che consiste la fedele applicazione della Gelli[8].
4. Quando iniziare? Atteso che la diagnosi differenziale è un percorso, sorge spontanea la domanda: quando va iniziato questo percorso?
Ecco la risposta che viene data in giurisprudenza: l’obbligo della diagnosi differenziale vale non soltanto per le situazioni in cui la necessità della diagnosi differenziale è già in atto, ma anche quando è prospettabile che vi si debba ricorrere nell’immediato futuro a seguito di una prevedibile modificazione del quadro o della significatività del perdurare del quadro già esistente”.[9]
Si fa quindi perno su due criteri in alternativa: la prevedibilità della modificazione a breve del quadro o la significatività del suo persistere. Ma quale prevedibilità? Quale significatività?
Sono all’evidenza criteri privi di efficacia orientativa nella pratica clinica. Eppure funzionano come regole cautelari, che in quanto tali, come è ormai noto, devono preesistere al fatto e devono preesistere con determinatezza.
Ebbene nella pratica clinica ciò che segna il momento d’inizio della diagnosi differenziale è il c.d. problema attivo presentato dal paziente. Ad es., dolore toracico tipico o addome acuto o perdita improvvisa di coscienza ecc. E questo indipendentemente dalla prevedibilità o no dell’evoluzione clinica e dalla significatività del persistere del quadro, che sono invece valutazioni già svolte durante gli studi metanalitici che stanno alla base del percorso da seguire.
Ne deriva l’ovvia esigenza di un preciso accertamento giudiziario del problema attivo presentato dal paziente.
5. Quando fermarsi? C’è ancora una domanda che segna la pratica clinica e che suona così per il medico: quando posso fermarmi? In altri termini: è sufficiente quello che ho fatto per escludere le ipotesi alternative? O devo continuare ad approfondire?
Questa domanda è creditrice di una risposta precisa, perché altrimenti la conseguenza è solo una: medicina difensiva attiva e cioè inutili approfondimenti diagnostici.
In giurisprudenza si risponde che il momento in cui si può interrompere il percorso è quello della raggiunta certezza che la patologia medesima possa essere esclusa e in base alle conoscenze dell’arte medica[10]”.
Strano a dirsi ma solo in giurisprudenza si pretende di raggiungere certezze in medicina. Né vale il nobilitare con l’espressione romantica “arte medica”, perché in sostanza si sta semplicemente parlando di una pratica, quella clinica, che si vale o si deve valere di conoscenze scientifiche.
Se così è, meglio lasciare da parte certezza e arte. E servirsi invece di criteri scritti di pregio validato.
Torna in primo piano l’art. 5 della legge Gelli. Occorrerà quindi in primis fare riferimento alle buone pratiche raccomandate dalle linee guida pubblicate nel sito dell’Istituto Superiore della Sanità nella sezione dedicata alla legge Gelli. In loro mancanza, e succede molto spesso, ci si deve servire di altre buone pratiche comunque accreditate, perché, ad es., raccomandate da altre linee guida elaborate da società scientifiche, dalla manualistica, da un lavoro su una rivista di indiscusso pregio, ad es. Lancet. O anche da un protocollo elaborato in una certa realtà locale. Ad es., per il dolore toracico si potrebbe validamente seguire un percorso messo a punto a livello aziendale da un chest pain team con istruzioni operative che implementano linee guida. È qui che, ad es., può trovare risposta la domanda: se spiego un dolore toracico con un ecg diagnostico per sindrome coronarica acuta, devo approfondire anche con diretta torace per escludere altro? O mi posso fermare con diagnosi strumentale di infarto del miocardio?
Ciò che in definitiva è quindi decisivo è che un percorso di buone pratiche venga scelto e seguito fino in fondo, con relativa annotazione in cartella di quale percorso si è seguito.
Questo è buona pratica e protegge il medico dalla responsabilità, legge Gelli alla mano. Procedere a tentoni, con approfondimenti inutili e solo per giustificarsi, è invece medicina difensiva ed espone il medico a responsabilità.
Ciò che è dovuto e ciò che non è dovuto in base a un percorso validato: è questo che segna la chiara differenza fra un c.d. meritevole approfondimento diagnostico e medicina difensiva.
[1] La scia era stata aperta da Cass. Sez. IV, 11651-1988, Argelli, est. Golia, in C.e.d. Cass. Rv. 179815. Spesso citata in giurisprudenza è Sez. IV, 34729/11, Ravasio, est. Romis, in Cass. Pen. 2013, II, 665, con nota di T. Campana, Errore diagnostico e profili di responsabilità del medico.
[2] Sez. IV, 23252-19, Leuzzi, est. Dawan.
[3] Alcuni precedenti, limitandoci all’ultimo quinquennio, tutti della Sez. IV: 18088-17, Zozzo, est. Izzo; 17385-18, Deriu, est. Bellini; 36723-18, Di Saverio, est. Miccichè; 47748-18, Franceschini, est. Di Salvo; 54802-18, Castellani, est. Tornesi; 39724-19, Tornatore, est. Dawan; 12968-21, Melis, est. Esposito; 36143-21, Zanna, est. Nardin; 45602-21, Palladino, est. Serrao; 2154-22, Belloni, e. Bellini; 8464-22, Pennacchio, est. Serrao; 27576-22, De Longis, est. Cenci; 36044-22, Spadoni, est. Ricci; 40586-22, Mancuso, e. Esposito.
[4] Sez. IV, 21868-18, Cremona, Nardin; Id., 24384-18, Masone, est. Pavich; Id., 29083-18, Pompa, est. Ranaldi.
[5] D. Micheletti, Attività medica e colpa penale. Dalla prevedibilità all’esperienza, Ed. Scientifiche Italiane, 2021, 181 e ss.
[6] L. Concas, Errore professionale e colpa del medico, in Arch. Pen., 1957, I, 335: “Sarebbe manifestamente ingiusto ritenere responsabile di errore professionale il medico, il quale non abbia tenuto conto di scoperte successive, ignote all’epoca del trattamento”.
[7] Sez. IV, 26906-19, Hijazi, est. Pezzella.
[8] Un po’ più di precisione è raggiunta dalla recente Sez. IV, 19946-23, Belardo, est. Bellini, che parla di “violazione di tutti i protocolli che disciplinano la gestione degli interventi del 118”, in un caso di omessa diagnosi differenziale di un infarto acuto del miocardio.
[9] Da ultimo: Sez. IV, 40586-22, Mancuso, cit.
[10] Ex plurimis: Sez. IV, 22288-14, Zitoli, est. Serrao.