1. Presentiamo qui ai lettori una rassegna ragionata di provvedimenti della magistratura di sorveglianza, impegnata nell’improbo compito di garantire che, nella drammatica situazione di emergenza sanitaria in corso, l’esecuzione della pena detentiva si svolga nel rispetto dei principi costituzionali di tutela della salute e di umanità del trattamento. Un obiettivo che, come da più parti evidenziato, potrebbe raggiungersi qualora si riportasse la popolazione carceraria ad un livello tale da consentire l’adozione all’interno degli istituti penitenziari delle misure necessarie per impedire il contagio e si garantisse la fuoriuscita immediata di coloro che, per età e situazioni patologiche pregresse, sono esposti a gravi rischi per la salute in caso di contagio.
I provvedimenti che pubblichiamo sono tutti caratterizzati dal fatto che l’epidemia in atto costituisce un parametro espressamente preso in considerazione ai fini della decisione.
2. Una prima osservazione che sembrerebbe trarsi dalla lettura dei provvedimenti in esame è che i magistrati di sorveglianza stanno fronteggiando una situazione del tutto straordinaria avvalendosi essenzialmente degli strumenti ‘ordinari’ dell’ordinamento penitenziario, dunque con strumenti pensati per garantire l’esecuzione extra-muraria della pena detentiva per finalità rieducative o per evitare pregiudizi alla salute individuale del detenuto, ma non finalizzati ad assicurare la tutela individuale e collettiva in un contesto di pandemia come quella attuale.
Da questo punto di vista, non può non evidenziarsi la mancata presa in carico del problema da parte del Governo, il cui principale intervento in ambito penitenziario è rappresentato dall’introduzione, nell’art. 123 del d.l. 18/2020, di una speciale forma di esecuzione della pena nel domicilio per condannati con un residuo di pena inferiore ai 18 mesi: una misura dotata di scarsa capacità deflattiva, come sin da subito evidenziato in dottrina[1], sia per il ristretto ambito applicativo, sia per la scarsa disponibilità dei braccialetti elettronici che, secondo quanto previsto, dovrebbero necessariamente ‘assistere’ l’esecuzione domiciliare nei casi di pena superiore a sei mesi.
Poco aggiunge, sotto questo profilo, il recentissimo intervento del Presidente del Consiglio (DPCM 26 aprile 2020, c.d. Decreto per la fase 2) che, alla art. 1 lett. y, dopo aver prescritto l’isolamento per i nuovi ingressi che siano “sintomatici”, prosegue con alcune “raccomandazioni” rivolte, così sembrerebbe, ai giudici, ai quali, appunto, si raccomanda di “valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare” per i nuovi ingressi sintomatici ed ancora, con riguardo questa volta ai detenuti che potrebbero essere destinatari di permessi e semilibertà”, si raccomanda di limitare l’utilizzo di tali misure “in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”.
In un solo caso, tra quelli esaminati, il giudice, accogliendo l’istanza di un condannato con pena residua compresa tra i 6 e i 18 mesi, ha applicato la nuova misura, stabilendo che la “pena detentiva dovrà essere eseguita in esecuzione domiciliare ex art. 123 d.l. 18/2020 non appena sarà messo a disposizione il dispositivo di controllo elettronico, momento cui farà seguito l’ordine di esecuzione da parte della competente Procura”. Cfr. provvedimento n. 3.
In un altro caso, il giudice ha rigettato l’istanza di applicazione della nuova misura per l’impossibilità di darvi applicazione a causa della indisponibilità di braccialetti elettronici ed ha applicato d’ufficio la ‘vecchia’ misura dell’esecuzione della pena del domicilio di cui all’art. 1 l. 199/2010. Nel motivare l’applicazione della misura, a fronte di plurimi rigetti di precedenti istanze di misure alternative domiciliari, il giudice ha affermato di aver “tenuto conto delle finalità che hanno ispirato la recente normativa d’urgenza, ovvero quella di ridurre il sovraffollamento carcerario”, nonché la possibilità di pervenire ad un giudizio prognostico favorevole, risultando la misura domiciliare “certamente contenitiva della pericolosità sociale mostrata dall’istante”. Cfr. provvedimento n. 6.
3. Considerando i provvedimenti allegati nel loro insieme, ci pare che essi possano essere idealmente suddivisi in due categorie. Ad una prima categoria appartengono i provvedimenti attraverso i quali si è inteso dare massima applicazione possibile a misure alternative alla detenzione, in presenza ovviamente dei presupposti di legge, al fine di alleviare la situazione di sovraffollamento e garantire all’interno degli istituti l’adozione delle misure necessarie per prevenire la diffusione del contagio. Dunque, potremmo dire, misure finalizzate a realizzare per lo meno parzialmente obiettivi di tutela della salute collettiva all’interno della comunità carceraria, ma anche, di riflesso, per l’intera collettività. Ad una seconda categoria appartengono poi i provvedimenti attraverso i quali si è garantita l’immediata fuoriuscita dal carcere dei detenuti più esposti alle conseguenze del virus per età e per le patologie accertate, in un’ottica questa volta di tutela della salute individuale.
Nella prima categoria rientrano ad esempio ordinanze con le quali si è data applicazione all’affidamento in prova ai servizi sociali ex art. 47 o.p., anche nella forma ‘allargata’ di cui al co. 3 bis (ossia per condannati con pena residua fino a quattro anni), pur in assenza di un’attività lavorativa del condannato e dunque in assenza di un requisito che, pur non essendo espressamente previsto dalla legge, la giurisprudenza maggioritaria ha sempre considerato condizione indispensabile per la concessione della misura. Cfr. provvedimenti n. 10, 15 e 17.
In questa stessa categoria si collocano poi le ordinanze con cui si è concesso l’affidamento terapeutico ex art. 94 t.u. stup. a seguito della certificazione del Sert circa la possibilità di proseguire il trattamento in via ambulatoriale per tutta la durata della pena residua e ciò nonostante la scarsa propensione della giurisprudenza a concedere tale misura in assenza di un programma terapeutico ‘residenziale’. Cfr. provvedimenti n. 7 e 21.
Ancora, in questo stesso senso, si consideri la concessione della detenzione domiciliare ex art. 47 ter co. 1 lett. a (ossia a madre di figlio con età inferiore ai dieci anni), giustificata dalla necessità di rinsaldare i legami familiari in un’ottica di umanità della pena, per la “precaria quotidianità legata alla diffusione del Covid 19”. Cfr. provvedimento n. 25.
Occorre poi rilevare che, in tutti questi casi, le misure alternative sono state applicate in via provvisoria dai magistrati di sorveglianza[2], sulla base della considerazione che la situazione di emergenza sanitaria in atto valga di per sé a dimostrare sussistente “il grave pregiudizio derivante dalla protrazione della detenzione”. Cfr. provvedimento n. 15. Così, ad esempio, in un caso di applicazione in via provvisoria di affidamento in prova ‘allargato, “l’urgenza del provvedere” si è rinvenuta nella “straordinaria gravità dell’attuale momento storico, in cui la condizione di detenzione è oggettivamente più che mai difficile e drammatica per le implicazioni connesse al diffondersi dell’epidemia da coronavirus”: in tale situazione, continua il Magistrato, “l’ammissione in via provvisoria ed urgente all’affidamento in prova al servizio sociale, sussistendone tutti i presupposti di legittimità e merito, appare opportuna e rispondente anche al superiore principio di umanità dell’esecuzione penale”. Cfr. provvedimento n. 10.
4. La seconda categoria di provvedimenti, certamente la più numerosa, è rappresentata da quelli attraverso i quali i giudici consentono l’uscita dal carcere dei detenuti che il contagio espone ‘a maggior rischio’ per la salute, in considerazione della particolare situazione soggettiva in cui si trovano. Lo strumento impiegato a questo fine è la detenzione domiciliare ex art. 47 ter co. 1 ter, ossia la misura domiciliare applicabile nei casi in cui opererebbe il differimento della pena disciplinato dagli artt. 146 e 147 del codice penale. Nella situazione di emergenza sanitaria, il riferimento è evidentemente all’ipotesi di differimento facoltativo di “pena restrittiva della libertà personale che deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica”, di cui all’art. 147 co.1 n. 2.
In tutte le ordinanze esaminate, l’epidemia in atto viene presa in considerazione come elemento che concorre a definire la gravità dell’infermità. Anche patologie in precedenza non considerate incompatibili con il regime detentive vengono rivalutate, ai sensi dell’art. 147 co. 1 n. 2, in considerazione appunto dei gravi rischi per la salute connessi all’esposizione al virus. Così, riportando un esempio tra i tanti che si potrebbero fare, riferendosi ad un detenuto affetto da una grave patologia cardiaca, si è osservato che l’impossibilità di attuare in carcere le particolari cautele necessarie per evitare il contagio, a causa della situazione di sovraffollamento, induce a ritenere sussistenti nel caso di specie i presupposti di cui all’art. 47 ter co. 1 ter: solo infatti “la permanenza al domicilio consente quel distanziamento sociale che al momento rappresenta la cautela più significativa per evitare il contagio, che potrebbe avere gravi ripercussioni sulla salute del detenuto, viste le patologie di cui soffre” Cfr. provvedimento n. 14.
Nell’individuazione dei casi rilevanti, i giudici si sono riferiti alle indicazioni contenute nelle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità o in quelle dell’Istituto Superiore della Sanità (età, patologie oncologiche, respiratorie, cardiache, gravi forme di diabete magari associate ad obesità….). Cfr. provvedimento n. 8.
La lettura di tali provvedimenti costringe peraltro ad aprire gli occhi su di una realtà di cui forse non si ha piena consapevolezza, ossia la presenza tra la popolazione detenuta di soggetti in età molto avanzata (anche ultraottantenni), con quadri patologici estremamente impegnativi e in condizioni di non autosufficienza (cfr. ad es, a questo ultimo proposito, il provvedimento n. 8, che riguarda un detenuto bisognoso di “assistenza alla persona” e il provvedimento n. 22, che riguarda un detenuto in sedia a rotelle), sulla cui compatibilità con lo stato detentivo occorrerebbe forse sviluppare qualche riflessione, a prescindere dalla situazione contingente dell’epidemia.
5. A differenza delle altre ipotesi di detenzione domiciliare, la misura prevista dall’art. 47 ter co. 1 ter o.p. – proprio perché finalizzata a tutelare il diritto inderogabile alla salute – è applicabile a prescindere dall’entità della pena residua e dalla tipologia di reato oggetto della condanna: sotto questo profilo, deve osservarsi che la detenzione domiciliare in esame – sulla base di un’interpretazione giurisprudenziale consolidata - risulta applicabile anche agli autori dei reati di cui all’art. 4 bis[3].
Dai provvedimenti in esame emerge che i magistrati di sorveglianza stanno facendo un uso coraggioso di questa misura, che viene applicata anche ad autori di reati molto gravi, sulla base di un bilanciamento con le esigenze di difesa sociale, ma nella consapevolezza dell’inderogabilità della tutela della salute e del principio dell’umanità del trattamento. La misura è stata pertanto applicata, in diversi casi, ad autori di reati di cui all’art. 4 bis o.p., per i “gravissimi rischi” alla salute derivanti da un eventuale contagio all’interno dell’istituto penitenziario (cfr. provvedimenti 8, 9 e 11) e ciò anche in casi di condanne a pene molto lunghe o all’ergastolo. Cfr. provvedimenti 12 e 19.
Di particolare interesse il recentissimo caso milanese – che ha suscitato una scomposta ed ingiustificata reazione nella stampa – di applicazione della misura domiciliare ad un detenuto sottoposto al regime del 41 bis: la concessione della misura è stata motivata sulla base, da un lato, della gravità delle patologie del condannato e dell’età avanzata e, dall’altro, in considerazione del lungo periodo di detenzione già espiata e della vicinanza del fine pena. Cfr. provvedimento 26.
Va rilevato che, in alcuni casi, per l’espiazione della detenzione domiciliare si è individuato un luogo diverso da quello di abitazione, come del resto consentito dall’art. 47 ter o.p., in base al quale la pena può essere espiata “nella propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza”. In particolare, in alcuni casi relativi a soggetti condannati per reati di criminalità organizzata, si è stabilito che la misura fosse eseguita in un domicilio già da tempo messo a disposizione dell’Amministrazione penitenziaria ed utilizzato per la fruizione dei permessi premio da parte dei detenuti ed ora utilizzato appunto per la detenzione domiciliare in condizioni di emergenza. A questo proposito, il Magistrato di sorveglianza ha osservato che la facilità di vigilanza del luogo, peraltro vicino all’istituto penitenziario, e la lontananza dai luoghi di commissione dei reati consentono di poter ragionevolmente escludere un concreto pericolo di fuga e di immediata recidiva. Cfr. provvedimento n.12, ma, analogamente, cfr. provvedimenti n. 11 e 13.
Tali decisioni, rese possibili dalla disponibilità di alcuni alloggi da destinare a tale scopo, fanno riflettere sulla opportunità - a livello di provvedimenti emergenziali che il Governo potrebbe assumere per fronteggiare l’epidemia all’interno degli istituti penitenziari - di destinare anche temporaneamente degli immobili all’esecuzione della detenzione domiciliare dei detenuti più esposti a pericoli per la salute in caso di contagio.
6. Come già osservato per le misure alternative, anche i provvedimenti applicativi della detenzione domiciliare ex art. 47 ter co. 1 ter o.p. sono tutti adottati in via provvisoria dal magistrato di sorveglianza, secondo quanto previsto dal co.1 quater della stessa disposizione, che ammette tale possibilità in presenza di “gravi pregiudizi derivanti dalla protrazione dello stato di detenzione”, salvo poi trasmissione degli atti al tribunale di sorveglianza per la decisione definitiva. Sulla sussistenza del presupposto non possono del resto nutrirsi dubbi: è infatti auto-evidente che il propagarsi del contagio sia condizione che giustifica l’urgenza del provvedimento. Cfr., tra i tanti, i provvedimenti n. 5 e 9.
L’unico caso di provvedimento adottato, in via definitiva, dall’organo collegiale riguarda un’ipotesi in cui l’istanza del detenuto rivolta in via provvisoria al Magistrato di sorveglianza era stata rigettata, sulla base della considerazione che pericolo di contagio non potesse essere preso in considerazione per valutare la gravità dell’infermità. Il Tribunale, al contrario, ha ritenuto che lo stato di infermità del detenuto, affetto da una pluralità di patologie croniche ed in età avanzata, fosse da considerarsi “aggravato significativamente dalla concomitanza del pericolo di contagio” e tale dunque da giustificare l’esecuzione domiciliare della pena detentiva. Cfr. provvedimento 18.
7. Secondo quanto stabilito dall’art. 47 co. 1 ter, il giudice nell’applicare la misura - che opera, come si è già ricordato, nei casi in cui si potrebbe altresì disporre il differimento della pena ai sensi dell’art. 146 e 147 – stabilisce un termine di durata, che è peraltro prorogabile sino a che perdurino le condizioni che lo giustificano. A questo proposito, l’esame dei provvedimenti rivela prassi diversificate. In alcuni casi il magistrato non ha fissato alcun termine, demandando tale compito al tribunale di sorveglianza competente sulla decisione ‘definitiva’. In altri casi, invece, è stato indicato un termine, ad esempio fine luglio o fine settembre (così nei provvedimenti n. 5 e 25), ma, più spesso, si è fatto riferimento alla durata dell’emergenza sanitaria (cfr. provvedimenti 13,14, 15, 16). Solo in un caso, quello deciso in via definitiva dal tribunale, la misura domiciliare è stata disposta per tutta la durata della pena, ciò presumibilmente in considerazione della vicinanza del fine pena e dell’irragionevolezza del rientro in istituto penitenziario per un tempo molto breve.
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8. La giurisprudenza in esame dimostra l’impegno della magistratura di sorveglianza – a cui la legge attribuisce il ruolo di garante della legalità nell’esecuzione della pena detentiva – per assicurare il rispetto dei principi costituzionali di tutela della salute ed umanità del trattamento.
I dati statistici contenuti nei “bollettini” pubblicati periodicamente dal Garante nazionale delle persone detenute o private della liberà personale – bollettini che, in assenza di comunicazioni provenienti da fonti ministeriali, rappresentano la fonte più attendibile ed aggiornata sulla situazione degli istituti penitenziari – confermano in effetti che gli sforzi della magistratura di sorveglianza stanno producendo risultati significativi in termini di riduzione della popolazione carceraria. Secondo quanto si legge nel bollettino del 24 aprile, infatti, le persone attualmente presenti negli istituti penitenziari sono 53.658, con una diminuzione dunque di circa 7.000 presenze rispetto all’inizio dell’emergenza sanitaria (al 29 febbraio i detenuti erano 61.230, a fronti di una capienza regolamentare di circa 48.000 posti[4]).
Pur considerando che la diminuzione non è da attribuirsi esclusivamente all’applicazione delle misure domiciliari o alle altre misure alternative - dovendosi anche tenere conto, come si osserva nel documento del Garante, della diminuzione del numero di reati e della maggiore “cautela negli arresti” – il dato rivela che i giudici stanno operando con tutti i mezzi a disposizione dell’ordinamento.
L’ulteriore dato riportato nel bollettino, secondo cui sono 2.628 i detenuti usciti in applicazione della nuova misura domiciliare ex art. 123 d.l. 18/2020 (di cui 617 con braccialetti elettronici), ci porta a fare due ulteriori considerazioni.
La prima è che la misura introdotta per gestire l’emergenza è di per sé inadeguata al suo scopo, se lo scopo era – come sarebbe da attendersi – quello di realizzare un consistente sfoltimento della popolazione carceraria, da riportare per lo meno al di sotto dei livelli di sovraffollamento.
Da ciò la necessità di riflettere, de iure condendo, sull’opportunità di introdurre nell’ordinamento strumenti ‘straordinari’ che consentano di garantire in situazioni di emergenza una rapida fuoriuscita dei detenuti dagli istituti penitenziari, quando la esecuzione intramuraria possa determinare un grave pregiudizio per la salute e la vita delle persone. Una riflessione, questa, imposta da un lato dalla necessità di assicurare che l’esecuzione della pena si svolga nel rispetto di principi inderogabili di tutela della salute e di umanità della pena e, dall’altro, dalla sussistenza di obblighi positivi in capo allo Stato – discendenti tanto dalla Costituzione, quanto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – che impongono l’adozione di misure volte a proteggere la vita delle persone affidate alla sua custodia, come appunto i soggetti detenuti negli istituti penitenziari[5]. Un obbligo che evidentemente sussiste nei confronti di tutti i detenuti, a prescindere quindi dal reato commesso e dalla caratura criminale della persona: tale questione, che è in questi giorni oggetto di aspro dibattito, a seguito dell’applicazione della detenzione domiciliare a detenuti sottoposti al regime detentivo speciale ex art. 41 bis, sarà oggetto di contributi di approfondimento di prossima pubblicazione su questa Rivista.
La seconda considerazione è che l’emergenza sanitaria ha portato i giudici a confrontarsi con maggiore rigore con l’idea del carcere come extrema ratio: tale atteggiamento ha rivelato le grandi potenzialità del nostro ordinamento penitenziario che, interpretato alla luce degli imperativi costituzionali di tutela della salute della persona detenuta e di umanità del trattamento, ha consentito ‘a bocce ferme’ – ossia in assenza di significativi interventi ‘svuota-carceri’ – una significativa contrazione dell’area coperta dall’esecuzione intramuraria della pena detentiva, senza mettere a repentaglio le esigenze di difesa sociale. L’auspicio è allora che gli orientamenti della giurisprudenza di sorveglianza, maturati nella drammaticità di questa situazione, si possano consolidare anche dopo che l’emergenza sanitaria si sia esaurita, in questo modo contribuendo a restituire alla pena il suo “volto costituzionale”[6].
[1] Cfr. E. Dolcini, G.L. Gatta, Carcere, coronavirus, decreto ‘cura Italia’: a mali estremi, timidi rimedi, in questa Rivista, 20 marzo 2020.
[2] Per l’affidamento in prova ordinario, l’applicazione provvisoria della misura da parte del magistrato di sorveglianza è disciplinata dall’art. 47 o.p. co. 4 in presenza di un “grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione”; analoga disciplina si applica, secondo quanto stabilito nell’art. 94 co. 2 t.u. stup., per l’affidamento in prova c.d. terapeutico. Quanto infine alla detenzione domiciliare, l’applicazione provvisoria della misura, da parte del magistrato di sorveglianza, sempre in presenza del “grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione” trova disciplina nell’art. 47 ter co. 1 quater o.p. Tali norme prevedono poi la trasmissione degli atti da parte del magistrato al tribunale di sorveglianza che dovrà assumere la decisione definitiva nel termine di sessanta giorni.
[3] Cfr., anche per i necessari riferimenti giurisprudenziali, L. Cesaris, Art. 47 ter, in F. Della Casa, G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, Cedam, VI ed., p. 671 ss.
[4] La capienza regolamentare dichiarata è di 51.416 posti, ma – come si legge sempre in un Bollettino del Garante nazionale, questa volta del 30 marzo – “per affermazione dello stesso Dipartimento, i posti realmente disponibili non arrivano a 48.000”.
[5] L’esistenza di tali obblighi positivi in capo allo Stato – obblighi che si fondano sull’art. 2 Cedu e trovano pacifica affermazione nella giurisprudenza europea – è stata espressamente ribadita in un recente documento del Consiglio d’Europa, proprio in relazione alla gestione dell’emergenza sanitaria da Covid-19 all’interno degli istituti penitenziari. Cfr. Information Document, 7 April 2020. Respecting democracy, rule of law and human rights in the framework of the COVID-19 sanitary crisis. A toolkit for member States, reperibile sul sito del Consiglio.
[6] L’espressione è di Andrea Pugiotto, cfr. Il volto costituzionale della pena (e i suoi sfregi), in Dir. pen. cont., 10 giugno 2014.