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07 Dicembre 2021


Il Parlamento europeo chiede l’inserimento della violenza di genere tra i c.d. eurocrimini ai sensi dell’art. 83, §1, co. 2 del TFUE


1. Lo scorso 16 settembre è stata approvata dal Parlamento europeo una Risoluzione con la quale si chiede alla Commissione di presentare una proposta di decisione del Consiglio volta all’inserimento della violenza di genere tra i c.d. eurocrimini, ossia tra le «sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale» ai sensi dell’art. 83, §1, co. 2 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea.

L’operazione, oltre ad avere un grande valore simbolico – perché la violenza di genere verrebbe accostata a fenomeni criminali come il terrorismo, la criminalità organizzata e la tratta di esseri umani –, consentirebbe di imporre agli Stati membri, attraverso un’apposita Direttiva, il perseguimento di quegli obiettivi comuni, nel contrasto e nella prevenzione della violenza di genere, già indicati nella Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa del 2011 ma non ancora raggiunti. Pur essendo quest’ultima, come ricordato nella Risoluzione, uno «strumento chiave per l’eliminazione della violenza di genere», sono diversi gli Stati che non l’hanno ancora ratificata[1], mentre altri ne hanno da poco firmato il recesso (la Turchia, nel marzo 2021) oppure hanno annunciato la loro intenzione di ritirarsi (la Polonia).

 

2. Attraverso la Risoluzione si vuole avviare un percorso di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri in tema di violenza di genere che tenga conto non solo della violenza che colpisce le donne (così come le ragazze) in maniera sproporzionata, ma anche quella rivolta contro le persone LGBTIQ+, «anch’esse vittime della violenza di genere fondata sul loro genere, sull’identità di genere, sull’espressione di genere e sulle caratteristiche sessuali». Non solo: la violenza di genere, in questo ampio significato, va combattuta tenendo in considerazione le esigenze delle vittime «in tutta la loro diversità» di lingua, di origine etnica e sociale, di religione, di salute etc., secondo quello che viene definito un «approccio intersettoriale».

 

3. A sostegno della «dimensione transnazionale» della violenza di genere ai sensi dell’art. 83, §1, co. 1, TFUE, il Parlamento europeo ne sottolinea, innanzitutto, il carattere particolarmente diffuso – in misura ancora più allarmante durante l’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19 –, la estrema gravità – considerando che nel 2019, solo in Europa, si sono avuti ben 1421 femminicidi (Eurostat, 2021), che rappresentano la «manifestazione estrema delle forme esistenti di violenza contro le donne» –, nonché l’impatto economico sulle vittime e su tutta la società. Nella Risoluzione si ricorda in proposito che «i costi annuali della violenza di genere per la società (stimati a 290 miliardi di euro, di cui da 49 a 89,3 miliardi di euro per molestie e stalking online) superano i costi annuali stimati delle forme di criminalità particolarmente gravi di cui all’articolo 83, paragrafo 1, secondo comma, TFUE».

 

4. Tuttavia, ciò che contribuisce a rendere la violenza di genere un fenomeno transnazionale è soprattutto l’esigenza di combatterla su basi comuni. Per sradicare i pregiudizi e gli stereotipi di genere di cui siamo, anche inconsapevolmente, portatori e dei quali si alimenta la discriminazione di genere, è necessario intraprendere un percorso unitario, condiviso in tutta Europa, che coinvolga diverse aree tematiche, prima fra tutte quella della educazione: «l’istruzione può svolgere un ruolo centrale nella prevenzione della violenza di genere, in particolare mettendo in discussione le norme sociali negative che alimentano tale fenomeno e consentendo ai giovani di riconoscere, affrontare e prevenire tali azioni».

 

5. Altrettanto necessario è incrementare la raccolta di «dati disaggregati aggiornati, globali e comparabili su tutte le forme di violenza di genere»: solo così sarà possibile fissare «obiettivi chiari e misurabili», condivisi a livello europeo, e diffondere prassi positive tra i vari Stati membri.

Ricerche empiriche, pur «essenziali per documentare la violenza di genere e le sue cause più profonde», al momento scarseggiano (l’ultima indagine a livello europeo risale al 2014) anche a causa di «differenze sostanziali nella definizione giuridica e nel trattamento della violenza di genere nei vari Stati membri».

Si chiede, in particolare, che ogni Paese monitori le denunce (anche quelle ritirate), le segnalazioni alle linee telefoniche di assistenza, l’emissione di misure di protezione, le indagini effettuate e il corrispondente numero di condanne, i tempi dei procedimenti, gli eventuali risarcimenti corrisposti alle vittime e le pene applicate[2]. Per essere facilmente confrontate tra i vari Stati membri tali informazioni devono essere raccolte secondo criteri comuni, che tengano conto di: «a) genere della vittima, b) genere dell’autore del reato, c) rapporto esistente tra la vittima e l’autore, d) esistenza di una dimensione di violenza sessuale, e) esistenza di una motivazione della violenza legata al genere e f) altre caratteristiche sociodemografiche pertinenti per un’analisi intersettoriale».

 

6. Diversi sono gli ambiti specifici in cui la Risoluzione auspica un intervento comune e coordinato degli Stati. Una particolare attenzione è rivolta alla violenza online – rappresentata, ad esempio, da «molestie sessuali e psicologiche online, il ciberbullismo, lo stalking online, la divulgazione non consensuale di immagini di natura sessuale, l’incitamento all’odio sessista online e le nuove forme di molestie online come lo zoom bombing o le minacce online» – che necessita di «sistemi di segnalazione tempestivi e accessibili, meccanismi efficaci di rimozione dei contenuti e una più solida cooperazione tra le piattaforme online e le autorità di contrasto degli Stati membri».

 

7. Misure condivise sono pure necessarie per contrastare le molestie sessuali, sulle quali proprio di recente anche l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ha richiamato l’attenzione degli Stati con la Convenzione sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro n. 190 del 2019[3].

Allo stesso modo, in tema di violenza sessuale il Parlamento europeo auspica una modifica delle definizioni di questo reato, in modo da incentrarne il disvalore nella mancanza di consenso della persona offesa, così come richiesto anche dall’art. 36 della Convenzione di Istanbul. A tal proposito, nella Risoluzione viene accolto con grande favore il movimento #MeToo «che simboleggia la voce delle donne che infrangono il muro del silenzio che circonda le molestie sessuali e la violenza sessuale» e viene denunciato «il fatto che in alcuni Paesi le vittime di molestie sessuali e di violenza sessuale sono accusate sempre più frequentemente e persino condannate per diffamazione».

 

8. Un’attenzione particolare è dedicata anche al problema della «negazione di un’assistenza all’aborto sicuro e legale», nella quale, in ugual modo, si realizza una violenza di genere. Nella Risoluzione viene ricordato che leggi che restringono eccessivamente la possibilità per una donna di interrompere la gravidanza, così come la mancata attuazione di disposizioni che pure lo consentono (come accade in Italia dove sono sempre di più i medici obiettori di coscienza[4]), violano i diritti umani delle donne.

 

9. Quella dell’affidamento dei minori nei casi di violenza domestica è un’altra tematica su cui la Risoluzione interviene, puntualizzando che «le leggi sull’affidamento devono essere elaborate in modo da non attribuire i diritti di affidamento ai colpevoli di violenze nei confronti del proprio partner». Considerazione che appare di grande importanza alla luce soprattutto della prassi di dare rilevanza prioritaria al diritto alla “bigenitorialità”, inteso come diritto del minore ad avere un rapporto continuativo con entrambi i genitori, anche nei casi di violenza domestica[5]. Una prassi che determina l’affidamento del minore senza prendere in debita considerazione, a causa di una scarsa conoscenza della violenza intra-familiare, che «l’esposizione alla violenza da parte del partner, che sia di natura fisica, sessuale o psicologica, ha un grave effetto sui bambini e perpetua gli abusi nelle generazioni future in quanto i bambini che assistono alla violenza nei confronti della madre o di uno dei genitori per mano del partner hanno maggiori probabilità di sperimentare tale violenza successivamente durante la loro vita, come vittime o come autori della violenza». Allo stesso tempo, quella prassi contribuisce ad incrementare «la carenza di fiducia nei confronti delle Autorità di contrasto e del sistema giudiziario» da parte delle donne, che preferiscono non denunciare il compagno violento anziché correre il rischio di perdere l’affidamento dei loro figli. È questo in effetti un altro punto su cui la Risoluzione insiste, rammaricandosi delle pochissime denunce presentate e sottolineando che tale sfiducia deriva anche dal tasso «inaccettabilmente» basso di condanne, soprattutto nei casi di violenza sessuale, che sviluppa «una diffusa cultura dell’impunità e un grave ostacolo alla parità di genere e alla lotta contro la violenza di genere».

 

10. Parimenti viene segnalata la scarsa attenzione nei confronti della vittima che, nel corso del procedimento penale, viene spesso chiamata più volte a rilasciare dichiarazioni sugli stessi fatti o viene trattata in maniera pregiudizievole e superficiale, senza alcun riguardo per la sua condizione di particolare fragilità.

Proprio per questo, il Parlamento europeo invita gli Stati a investire sulla formazione, oltreché di medici e operatori sanitari, anche di «giudici, pubblici ministeri, operatori giudiziari, esperti forensi e tutti gli altri professionisti che si occupano delle vittime della violenza di genere», per evitare la vittimizzazione secondaria cui, sempre più spesso, le donne vanno incontro quando entrano in contatto con il sistema giudiziario. Esemplare in questo senso la recente condanna dell’Italia, da parte della Corte europea dei diritti umani, per non aver tutelato l’immagine, la privacy e la dignità di una giovane donna che aveva denunciato una violenza sessuale di gruppo: nella sentenza con cui sono stati assolti tutti gli imputati, secondo i Giudici della Corte EDU, è stato infatti utilizzato un «linguaggio colpevolizzante e moraleggiante che scoraggia la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario» per la «vittimizzazione secondaria cui le espone»[6].

 

 

[1] Sono sei gli Stati membri che hanno firmato la Convenzione di Istanbul ma non l’hanno ancora ratificata: Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Lettonia, Lituania e Slovacchia.

[2] Quest’ultimo punto risulta particolarmente importante nell’ottica di una valutazione dell’effettiva efficacia dei programmi di trattamento per maltrattanti che vengono considerati, sia dalla Risoluzione in esame (§56) che dalla Convenzione di Istanbul (art. 16), un utile strumento per la prevenzione di ulteriori violenze.

[3] Per approfondimento si rinvia a F.R. Garisto, Molestie sul luogo di lavoro: l’Italia ratifica la Convenzione di Ginevra del 21 giugno 2019, in Criminal Justice Network, 17 maggio 2021.

[4] Si veda sul punto la Relazione del Ministro della Salute sulla attuazione della legge n. 194 del 1978, pubblicata il 7 dicembre 2016.

[5] Si vedano i risultati dello studio di M. Feresin, M. Santonocito e P. Romito, La valutazione delle competenze genitoriali da parte dei CTU in situazioni di violenza domestica: un’indagine empirica, in Osservatorio sulla violenza contro le donne, n. 3/2021.

[6] Cfr. Corte Europea dei Diritti Umani, Prima Sezione, 27 maggio 2021, J.L. c. Italia, n. 5671/16 con commento di N.M. Cardinale, Troppi stereotipi di genere nella motivazione di una sentenza assolutoria per violenza sessuale di gruppo: la Corte EDU condanna l’Italia per violazione dell’art. 8, in questa Rivista, 14 giugno 2021.