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24 Settembre 2020


Per le Sezioni Unite il lucro “di speciale tenuità” è compatibile con lo spaccio di stupefacenti “di lieve entità”

Cass., Sez. un., sent. 30 gennaio 2020 (dep. 2 settembre 2020), n. 24990, Pres. Carcano, Est. Mogini, imp. Dabo



 

1. Con la recente sentenza del cui deposito si è data notizia su questa Rivista, le Sezioni Unite della Cassazione hanno preso posizione su una questione relativa all’applicabilità, ad un caso di spaccio di stupefacenti “di lieve entità” ex art. 73, c. 5, d.P.R. 309/1990 (T.U. stupefacenti), dell’attenuante prevista dall’art. 62, n. 4, c.p., che opera, per i reati commessi con finalità di lucro, quando ricorrano congiuntamente un lucro – perseguito o conseguito – “di speciale tenuità” e un evento dannoso o pericoloso anch’esso “di speciale tenuità”, risolvendola positivamente. La questione era stata sollevata da un’ordinanza della quarta Sezione, in cui già si manifestava un netto favore per la soluzione positiva; non stupisce dunque la conclusione raggiunta dalle Sezioni Unite.

 

2. Il caso oggetto di decisione è piuttosto semplice: l’imputato era stato condannato dal Tribunale di Torino con giudizio abbreviato derivante da conversione del rito direttissimo, con sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello della stessa città, per il reato di cui all’art. 73, c. 5, T.U. stupefacenti, per aver ceduto 2,2 g di hashish in cambio del corrispettivo di dieci euro; la pena, contenuta nel minimo, era stata di tre mesi di reclusione e cinquecento euro di multa. Tanto il Tribunale quando la Corte d’Appello avevano escluso l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p., sulla base dell’asserita incompatibilità strutturale tra tale fattispecie diminuente e i reati in materia di stupefacenti, sulla base di un orientamento della giurisprudenza di legittimità in passato prevalente. La Corte territoriale, in particolare, aveva valorizzato il principio per cui i medesimi elementi fattuali non possono costituire il presupposto per l’applicazione concorrente di due diversi benefici: l’esiguità del fatto contestato, quindi, in quanto già valutata ai fini dell’applicazione della fattispecie “lieve” di traffico di sostanze stupefacenti, non poteva essere posta alla base dell’applicazione di una circostanza attenuante.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, l’imputato ricorreva per Cassazione lamentando unicamente la mancata applicazione dell’attenuante predetta; la quarta Sezione, con ordinanza oggetto di commento sulle pagine di questa Rivista, rilevando l’esistenza di un contrasto al riguardo nella giurisprudenza di legittimità, rimetteva la questione alle Sezioni Unite, perché decidessero "se la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità, di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen., sia applicabile ai reati in materia di stupefacenti, e, in caso affermativo, se sia compatibile con l'autonoma fattispecie del fatto di lieve entità, prevista dall'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990" (§1 del considerato in diritto).

 

3. Le Sezioni Unite individuano due “nuclei problematici” in cui è possibile dividere la questione oggetto di rinvio, in rapporto gerarchico tra loro: innanzitutto, infatti, è necessario verificare la compatibilità in generale dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, con le fattispecie delittuose in materia di stupefacenti. In secondo luogo, poi, e solo qualora si sia risolta positivamente tale questione, è necessario accertare se l’attenuante in parola sia applicabile alla specifica ipotesi di traffico di stupefacenti “di lieve entità”.

Contro l’applicabilità dell’attenuante, la giurisprudenza più risalente[1], aveva addotto un duplice ordine di argomentazioni: su un piano più generale, si era sostenuta l’incompatibilità dell’art. 62, n. 4, c.p. con i reati in materia di stupefacenti tout court, in quanto la rilevanza del bene giuridico tutelato da tale settore dell’ordinamento – la salute pubblica – renderebbe sempre e comunque impossibile qualificare l’offesa come “di speciale tenuità”, venendo così a mancare uno dei due elementi che costituiscono la fattispecie della circostanza in parola. Con specifico riferimento all’art. 73, c. 5, T.U. stupefacenti, poi, si obiettava che la ridotta rilevanza economica del fatto, sub specie di lucro atteso o conseguito “di speciale tenuità” sarebbe già considerata ai fini della qualificazione del fatto come “di lieve entità” per l’applicazione della fattispecie meno grave di traffico di sostanze stupefacenti; di conseguenza, la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. non sarebbe applicabile alla fattispecie di spaccio “lieve” in base al principio per cui le circostanze attenuano il reato “quando non ne sono elementi costitutivi”.

 

4. Le Sezioni Unite, però ritengono di superare entrambi tali obiezioni, facendo proprie le argomentazioni accolte dalla giurisprudenza più recente, che si era orientata in senso favorevole all’applicabilità della circostanza ai reati di spaccio, in generale, e al reato di spaccio “lieve”, in particolare. Secondo le Sezioni Unite, infatti, in tal senso “convergono dati testuali, teleologici e sistematici”: in primo luogo, infatti, la riforma delle circostanze operata con l. n. 19/1990 ha espressamente esteso l’ambito di applicazione dell’art. 62, n. 4, prima limitato ai soli delitti contro il patrimonio, a tutti i delitti determinati da motivi di lucro. Tale estensione, dunque, non accompagnata da alcuna selezione espressa dei beni giuridici, implica l’applicabilità a qualsiasi categoria delittuosa, a prescindere dal bene giuridico tutelato, in un’ottica di “piena attuazione del principio di proporzionalità della pena” (§6).

Tale argomento è rafforzato da due considerazioni di tipo sistematico: innanzitutto, l’art. 73 contempla una ipotesi di fatto “di lieve entità” che è radicalmente incompatibile con l’idea che l’offesa – nei reati in materia di stupefacenti – non possa mai essere lieve. In secondo luogo, la sentenza individua nell’esistenza della non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. – per la cui ricostruzione richiama le Sezioni Unite Tushaj[2] e il principio della valutazione del fatto in concreto – un ulteriore dato sistematico a conferma dell’applicabilità generalizzata dell’attenuante del lucro di speciale tenuità: il fatto che il legislatore abbia individuato l’ambito di applicazione della causa di non punibilità, istituto nettamente più favorevole di un’attenuante, facendo riferimento al solo limite edittale di pena, senza preclusioni relative al bene giuridico, deve spingere a ritenere a fortiori insussistente un limite di tal fatta rispetto all’attenuante di cui all’art. 62, n. 4 c.p.; di conseguenza, la tenuità del danno o del pericolo cagionati al bene giuridico protetto “dovrà avere ad oggetto, in entrambi i casi, non già l’astratta considerazione della natura giuridica del bene protetto, bensì il grado di effettiva offensività del fatto nel caso concreto” (§9).

Così risolto il primo quesito circa l’applicabilità, in generale, dell’art. 62, n. 4, c.p. ai reati in materia di stupefacenti, le Sezioni Unite si occupano anche della seconda questione, relativa all’operatività della medesima attenuante rispetto al reato di spaccio “lieve” ex art. 73, c. 5, T.U. stupefacenti. Anche su tale questione, la sentenza aderisce alla giurisprudenza più recente, accogliendo la soluzione positiva: a tal fine, le Sezioni Unite richiamano nuovamente un dato letterale ed uno sistematico. Innanzitutto, infatti, i giudici della Suprema Corte affermano che la mancata esclusione dell’attenuante da parte del legislatore che, nel 2014, ha riformato il quinto comma dell’art. 73, rappresenta un argomento a sostegno della tesi accolta, in base al principio per cui “ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit[3]; in secondo luogo, poi, le Sezioni Unite superano l’argomento per cui l’attenuante in parola non sarebbe applicabile al fatto di spaccio “lieve” pena una duplice valutazione dei medesimi elementi di fatto sulla base del fatto che le due norme presentano presupposti di applicazione differenti. Si tratta, infatti, di “valutazioni di diversa natura e diverso grado: la prima, attinente alla lieve entità del fatto” e dunque “di natura unitaria e complessiva […]; la seconda, relativa alla speciale tenuità del lucro e dell’offesa”, che costituiscono “due temi specifici e distinti” (§15). I giudici mettono quindi in evidenza come tra la fattispecie del reato di traffico “lieve” di stupefacenti e l’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. vi sia una differenza tanto nell’oggetto – l’intero fatto da un lato, il lucro e il danno dall’altro – quanto nell’intensità della clausola di lievità richiesta, maggiore per la fattispecie dell’attenuante.

 

***

 

5. Sull’esito raggiunto dalle Sezioni Unite in relazione alla specifica questione oggetto di decisione, non ci sembra opportuno spenderci oltre, posto che nel senso fatto proprio dalla sentenza ci eravamo espressi in sede di commento all’ordinanza di rimessione. Ci sembra, però, possibile fare qualche breve considerazione su alcuni problemi che derivano direttamente dalle conclusioni raggiunte dalla sentenza in esame, con specifico riferimento all’applicazione dell’art. 62, n. 4, c.p. alla fattispecie di traffico di stupefacenti.

Innanzitutto, la Cassazione, avendo affermato che l’attenuante del lucro di speciale tenuità è idonea ad operare anche rispetto ai reati in materia di stupefacenti, non fornisce indicazioni su come debba essere interpretata, limitandosi ad affermare che “il riconoscimento di tale attenuante nel caso concreto resta affidato ad una puntuale ed esaustiva verifica, della quale il giudice di merito deve offrire adeguata giustificazione, che dia consistenza sia all’entità del lucro perseguito o effettivamente conseguito dall’agente, che alla gravità dell’evento dannoso o pericoloso prodotto dalla condotta considerata” (§ 16). Non fornisce, tuttavia, la sentenza in commento, alcuna indicazione né su come debba essere quantificato il lucro – sia esso atteso o effettivamente conseguito – né su quale entità di guadagno possa essere ritenuta “di speciale tenuità”: sul punto, poi, non risulta una giurisprudenza particolarmente copiosa, soprattutto in ragione dell’orientamento tendenzialmente restrittivo adottato dalla Cassazione rispetto all’applicabilità dell’attenuante in esame a categorie delittuose diverse dai reati contro il patrimonio[4]. Sulla nozione di lucro, invece, in dottrina si è condivisibilmente sostenuto che essa sia più restrittiva di quella di “profitto”, dovendosi riferire al solo arricchimento patrimoniale e non anche al conseguimento di altre e diverse utilità[5].

Con riferimento al primo aspetto – ossia come debba essere quantificato il lucro – si potrebbero in astratto ipotizzare due atteggiamenti, soprattutto in relazione alle fattispecie in esame, in cui normalmente non l’intero “prezzo” dello stupefacente ceduto, o il suo intero valore, nel caso di mera detenzione, costituisce guadagno effettivo per colui che lo cede. Da un lato, infatti, si potrebbe considerare rilevante come “lucro” l’intero controvalore dello stupefacente oggetto di detenzione o cessione, senza considerare quanta parte di tale valore costituisca effettivo guadagno per l’autore del reato, secondo un approccio che guarda all’introito lordo dell’operazione; oppure, dall’altro lato, si potrebbe optare per una valutazione in termini di lucro “netto”, ossia che tenga conto del solo guadagno effettivo, diminuito dei costi sostenuti dall’autore del fatto per procurarsi lo stupefacente. Sul punto, come detto, la sentenza non fornisce indicazioni specifiche; tuttavia, sembrerebbe che il riferimento al “corrispettivo” operato nella descrizione del fatto in causa faccia riferimento al lordo della transazione, senza tenere conto del costo sostenuto dall’imputato per l’acquisto o la produzione dello stupefacente; a ben vedere, però, una interpretazione più rigorosa esigerebbe forse di tenere in considerazione – pur con le difficoltà connesse al relativo accertamento – l’utile netto atteso o conseguito dall’operazione illecita, più che il guadagno lordo.

Per quanto riguarda, poi, la quantificazione della “speciale tenuità” del lucro, nel silenzio della giurisprudenza in materia, si può, tuttavia, in questo caso ritenere che il concetto sia assimilato all’omologo riferito al danno patrimoniale dalla prima parte della medesima disposizione; sul punto, comunque, non vi sono indicazioni univoche e si parla di “rilevanza minima” del danno, senza ulteriori specificazioni[6]. Dalle indicazioni provenienti dalla casistica, poi, sembra che un danno per un valore monetario di un centinaio di euro possa essere ritenuto “di speciale lievità”[7]. Di conseguenza, sembra ragionevole ritenere che un lucro – atteso o conseguito – inferiore a tale entità possa consentire l’applicazione dell’attenuante in parola, quando accompagnato ad un danno anch’esso di speciale tenuità.

 

6. A tale ultimo riguardo, poi, sorge un’ulteriore considerazione: posto che le Sezioni Unite hanno riconosciuto la compatibilità, in generale, dell’attenuante in parola con i reati in materia di stupefacenti, ritenendo insussistente una preclusione generalizzata all’applicazione dell’art. 62, n. 4, c.p. fondata sulla natura del bene giuridico protetto, ci si potrebbe chiedere se fatti concernenti le c.d. “droghe pesanti” – ossia quelle il cui traffico e la cui produzione sono riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 73, c. 1, T.U. stupefacenti – siano compatibili con il concetto di “evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità”. Le Sezioni Unite non si soffermano sul punto esplicitamente, posto che il caso oggetto di rimessione concerneva una dose di 2,2 g di hashish, e dunque una sostanza c.d. “leggera”.

A sommesso parere di chi scrive, tuttavia, sembra che non risultino preclusioni assolute neanche sul punto, e questo si desume da una serie di indici: innanzitutto, il fatto che la sentenza in esame affermi a chiare lettere che “teorizzare in via generale la non applicabilità dell’attenuante a categorie di reati individuate in ragione dell’astratta riferibilità a un dato bene giuridico […] comporta null’altro che la generalizzata esclusione – sempre e comunque – dell’applicabilità dell’attenuante in esame, sulla base di considerazioni sganciate dalla concreta connotazione storica del fatto e in contrasto con la rilevata finalità del legislatore di estendere l’applicabilità dell’attenuante a tutti i delitti determinati da motivi di lucro”, finalità ritenuta espressiva della “concezione gradualistica del reato”, da valutarsi in concreto “secondo la verità e non secondo le presunzioni” (§9). Un chiaro invito, dunque, a valorizzare più il dato concreto delle circostanze fattuali, che non l’astratta categorizzazione legislativa; certo è che, nel valutare la “speciale tenuità” dell’offesa rispetto a fatti concernenti droghe pesanti, il giudice dovrà utilizzare un metro di giudizio che tenga conto della diversa offensività delle varie sostanze rispetto al bene giuridico tutelato.

Un ulteriore argomento a favore dell’applicabilità della circostanza in questione a fatti concernenti le sostanze di cui all’art. 73, c. 1, T.U. stupefacenti si può evincere, a nostro avviso, dal fatto che anche fatti concernenti le droghe pesanti sono riconducibili alla fattispecie di cui al c. 5 – addirittura, secondo le Sezioni Unite Murolo del 2018, il traffico contestuale di droghe di diversa qualità può integrare un’unica fattispecie di “lieve entità”, laddove ne ricorrano i presupposti[8] – cui è applicabile l’art. 131-bis c.p.; a fortiori, dunque, ci sembra che debba ritenersi applicabile la circostanza attenuante del lucro di “speciale tenuità”.

 

7. Problema diverso è poi quello concernente l’astratta configurabilità di reati di traffico di stupefacenti non riconducibili alla fattispecie di “lieve entità” di cui c. 5, cui sia comunque applicabile l’attenuante del lucro di speciale tenuità. In altre parole, posto che la Cassazione ha espressamente riconosciuto la compatibilità dell’art. 62, n. 4, c.p. con l’art. 73, c. 5, T.U. stupefacenti, sorge spontaneo chiedersi quale sia il rapporto tra la norma codicistica e le fattispecie di cui ai primi quattro commi del medesimo art. 73. A tal riguardo, è opportuna una precisazione: ci sembra che questo problema non riguardi tanto la questione dell’astratta compatibilità tra bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice e circostanza attenuante in esame, quanto il rapporto strutturale tra le varie fattispecie di cui si compone la norma incriminatrice stessa e quella della fattispecie attenuante. Posto che l’attenuante del lucro di speciale tenuità è certamente compatibile – in astratto – con tutti i reati commessi per scopo di lucro, resta il problema di capire se la “speciale tenuità” di lucro ed evento si ponga o meno come elemento specializzante rispetto alla “lieve entità” del fatto in generale.

Sul punto pare particolarmente rilevante il §15 della motivazione della sentenza: nella prima parte di tale passaggio argomentativo, infatti, le Sezioni Unite sembrerebbero fornire numerosi spunti a favore della eterogeneità delle fattispecie di lucro ed evento di “speciale tenuità”, da un lato, e fatto di “lieve entità”, dall’altro; i giudici, infatti, sostengono che “si tratta […] di valutazioni di diversa natura e diverso grado: la prima, attinente alla “lieve entità del fatto, è unitaria e complessiva […]; la seconda, relativa alla “speciale tenuità” del lucro e dell’offesa, indica due temi specifici e distinti, suscettibili di opposte conclusioni nel medesimo caso di specie e ancorati ad un parametro di maggiore intensità e pregnanza rispetto a quello rilevante per l’integrazione della fattispecie «lieve»” [enfasi aggiunte]. Se non che, nel capoverso immediatamente successivo si legge: “sicché, anche sotto questo profilo, trova conferma l’indirizzo interpretativo secondo cui l’attenuante «richiede per la sua applicazione l’esistenza di un elemento ulteriore rispetto alla tenuità dell’offesa (comune alle due norme considerate) e come tale specializzante rispetto al “fatto lieve” di cui all’art. 73, comma 5” [enfasi aggiunta], ossia lo scopo di lucro e la speciale tenuità del medesimo.

A sommesso parere di chi scrive, sembra che entrambe le affermazioni non possano essere accolte per vere: se l’art. 62, n. 4, c.p. si fonda su un presupposto comune all’art. 73, c. 5, T.U. stupefacenti – la speciale tenuità dell’offesa – ed è speciale rispetto a quest’ultimo per la sola presenza dello scopo di lucro e per la speciale tenuità del lucro atteso o conseguito, infatti, non sembra possibile pensare che vi siano fatti cui è applicabile l’art. 62, n. 4, c.p. e che, al contempo, non siano riconducibili alla fattispecie di spaccio “lieve”. D’altra parte, una conclusione diversa sembra difficilmente configurabile anche in concreto: si dovrebbe ipotizzare una condotta che “per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze” non è “di lieve entità”, ma che al tempo stesso determini un “evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità”. Ci sembra, dunque, preferibile ritenere che tale ultimo requisito si ponga come speciale per specificazione rispetto alla lieve entità del fatto, laddove i motivi di lucro e la speciale tenuità del lucro stesso si pongono come elementi di specializzazione per aggiunta, rispetto alla fattispecie “lieve”.

 

8. Un’ultima questione che si pone, rispetto all’applicazione dell’art. 62, n. 4, c.p. alle fattispecie in materia di stupefacenti, concerne la valutazione della speciale tenuità di offesa e lucro in caso di pluralità di reati in continuazione tra loro. Al riguardo, infatti, si registra una pronuncia della Cassazione del 2017 che aveva ritenuto di scindere le due valutazioni: la speciale tenuità dell’offesa si dovrebbe valutare in relazione alla singola condotta volta a volta oggetto di imputazione; la speciale tenuità del lucro atteso, invece, in quanto attinente ai motivi a delinquere, dovrebbe essere valutata in relazione al generale disegno criminoso che garantisce l’unificazione della sanzione ex art. 81 cpv., perché in questa tipologia di casi “la utilità prefissatasi ("motivi di lucro") dal reo non è certo focalizzata sul minimo guadagno della singola cessione bensì sul complesso dell'attività di spaccio svolta”[9].

Questa ricostruzione, tuttavia, ci sembra non del tutto coerente con la concezione atomistica del reato continuato – che, come osservato da autorevole dottrina, di unitario conserva oramai solo il nome al singolare[10] – e con la natura oggettiva della circostanza attenuante in esame. Non è coerente con la natura del reato continuato in quanto, secondo l’interpretazione fatta propria dalle Sezioni Unite del 2008, i reati uniti dal vincolo della continuazione possono essere considerati come unico reato solo in caso di espressa previsione di legge in tal senso e nel caso in cui la ricostruzione unitaria si traduca in un operazione favorevole al reo, entrambi requisiti che non ricorrono nel caso di specie[11]. Non è coerente, poi, neanche con la natura oggettiva dell’attenuante in esame, riconosciuta dalla dottrina assolutamente maggioritaria[12]: vero è, infatti, che anche la sentenza delle Sezioni Unite in esame inquadra il lucro perseguito nella generale categoria dei motivi a delinquere, ma la struttura della norma fa propendere per un ruolo meramente sussidiario della speciale tenuità del lucro atteso, a favore di quello effettivamente conseguito. L’attenuante opera, infatti, laddove il soggetto abbia “agito per o conseguire o [abbia] comunque conseguito un lucro di speciale tenuità”: se, dunque, il soggetto è stato determinato all’illecito penale per conseguire un lucro maggiore, ma abbia concretamente conseguito un guadagno assai ridotto, l’attenuante in parola deve comunque trovare applicazione; dunque, la ratio della riduzione di pena deve rinvenirsi nella oggettiva minore gravità del fatto, più che nella scarsa capacità a delinque del reo. Né si può ritenere che la base ontologica di riferimento debba essere diversa a seconda del fatto che si tratti di lucro atteso o di lucro effettivamente conseguito: in entrambi i casi il giudice dovrà utilizzare come referente il singolo fatto di reato, rispetto al quale valutare se ricorrano o meno le condizioni per applicare l’attenuante.

Alla luce di quanto esposto, dunque, sembra ragionevole ritenere che nell’ipotesi, di verificazione assai frequente nella prassi, in cui all’agente siano imputate una pluralità di condotte di traffico di sostanze stupefacenti, unificate dal vincolo della continuazione, la “speciale tenuità” del lucro, così come quella dell’offesa, debba essere valutata in relazione alla singola condotta delittuosa. Nel caso di un soggetto che, ad esempio, pone in essere una pluralità di cessioni di sostanza stupefacente, per quantitativi e corrispettivi differenti, è ben possibile che vi siano cessioni rispetto alle quali può trovare applicazione l’attenuante in parola ed altre rispetto alle quali la stessa non è destinata ad operare; questo aspetto rileva, poi, tanto per l’individuazione del reato più grave, da cui dipende la pena base, quanto per la determinazione degli aumenti di pena da operare per i reati-satellite da porre in continuazione.

 

9. In conclusione, dunque, la sentenza delle Sezioni Unite su cui abbiamo espresso queste – brevi e certamente incomplete – considerazioni risolve una questione che riveste un ruolo non marginale nella prassi dei tribunali, in quanto la fenomenologia del crimine legato al mondo degli stupefacenti vede un elevato numero di soggetti coinvolti in piccole operazioni di spaccio; ci sembra, pertanto, che si debba salutare con favore la soluzione adottata dalla Cassazione, che fornisce al giudice uno strumento ulteriore per adeguare la risposta sanzionatoria alla varietà dei casi che gli si possono presentare, consentendo una maggiore proporzionalità nel rapporto tra gravità del fatto concreto ed entità della pena applicata.

 

 

[1] Per una più completa ricostruzione degli argomenti e l’indicazione specifica delle sentenze, sia consentito rinviare a P. Bernardoni, Rimessa alle Sezioni Unite una questione relativa alla compatibilità tra traffico di stupefacenti “di lieve entità” e attenuante del lucro di speciale tenuità, in questa Rivista, 19 novembre 2020.

[2] C. Cass., S.U., sent. 25/02/2016 (dep. 6/4/2016), n. 13681, Tushaj, CED 266589.

[3] In particolare, la sentenza richiama la disciplina introdotta dalla l. n. 10/2014 (quella che ha trasformato la circostanza attenuante di cui all’art. 73, c. 5, nell’attuale fattispecie autonoma di reato) rispetto al rilievo dell’attenuante della minore età ai fini della determinazione della pena per l’applicazione delle misure cautelari (art. 19, c. 5, d.P.R. n. 448/1988). A ben vedere, il richiamo non pare del tutto calzante, in quanto con la modifica alla norma citata il legislatore non ha voluto escludere l’applicabilità dell’attenuante della minore età rispetto ai reati di spaccio “lieve” – norma che avrebbe posto non pochi problemi di costituzionalità sub specie di uguaglianza e ragionevolezza – ma solamente modulare diversamente la rilevanza di quella specifica circostanza allo specifico fine di determinare le misure cautelari applicabili, mosso dall’evidente intento di evitare che l’attenuante della minore età, associata alla ridotta pena edittale prevista dal c. 5 dell’art. 73, precludesse sempre e comunque l’applicazione delle misure cautelari coercitive; non sembra, dunque, del tutto corretto trarne un argomento per il ragionamento a contrario operato dalla sentenza.

[4] Si veda la giurisprudenza citata in L. Vergine, Sub art. 62, in E Dolcini – G. L. Gatta, Codice penale commentato, fondato da E. Dolcini e G. Marinucci, IV ed., Milano, 2015, pp. 1315-1316. Peraltro, ad un primo sguardo sembrerebbe che le indicazioni fornite dalla Cassazione rispetto all’applicabilità dell’attenuante in parola ai reati in materia di stupefacenti presentino un respiro più ampio, in quanto la formulazione tranchant del principio per cui il legislatore non ha selezionato – nel formulare l’attenuante – i beni giuridici in astratto, rimettendo al giudice in concreto la valutazione della “speciale tenuità” dell’offesa dovrebbe indurre a ritenere superati gli orientamenti giurisprudenziali volti a limitarne l’applicabilità rispetto a determinate categorie delittuose.

[5] R. A. Frosali, Pena pecuniaria (diritto penale), in Novissimo digesto italiano, XII, 1965, pp. 848-849.

[6] Da ultimo, si veda C. cass., sent. 19.6.2014 (dep. 13.10.2014), n. 42819.

[7] C. cass., sez. V, sent. 6.4.2005 (dep. 13.9.2005), n. 33093, relativa al furto di una carta telefonica SIM, il cui valore viene stimato nel costo di acquisto (20 o 25 euro) e nel credito telefonico residuo, compreso tra i cinquanta e i cento euro.

[8] C. Cass., S.U., sent. 27/9/2018 (dep. 9/11/2018), n. 51063, in Dir. Pen. Cont., 21 novembre 2018.

[9] C. cass., sez. VI, sent. 16/5/2017 (dep. 27/6/2017), n. 31603.

[10] D. Brunelli, Dal reato continuato alla continuazione di reati: ultima tappa e brevi riflessioni sull’istituto, in Cass. pen., 2009, fasc. 7/8, p. 2750.

[11] C. cass., S.U., sent. 27/11/2018 (dep. 23/1/2009), n. 3286, in Cass. Pen., 2009, fasc. 7/8, p. 2743.

[12] L. Vergine, Sub art. 62, in E Dolcini – G. L. Gatta, Codice penale commentato, fondato da E. Dolcini e G. Marinucci, IV ed., Milano, 2015, p. 1315; G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale, IX ed., Milano, Giuffrè, 2020, 663; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, VIII ed., Bologna, Zanichelli, 463.