Cass. civ., Sez. un., sent. 24 settembre 2019, n. 29459, Pres. Tirelli, Rel. Perrino
1. Con la sentenza 24 settembre 2019, n. 29459, le Sezioni Unite hanno affrontato due rilevanti questioni in tema di protezione umanitaria: a) il regime intertemporale del d.l. 4 ottobre 2018, n. 113 (c.d. decreto Salvini), con particolare riferimento all’applicabilità della protezione umanitaria di cui all’art. 5 co. 6 d.lgs. n. 286/98 – abrogata dal menzionato decreto – alle domande già presentate al momento della sua entrata in vigore (5 ottobre 2018); b) la rilevanza dell’integrazione sociale ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
2. Prima di soffermarsi sulle questioni giuridiche è utile ricostruire la vicenda processuale. La Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva negato al richiedente sia lo status di rifugiato, sia la c.d. protezione sussidiaria. Era stata, inoltre, respinta la richiesta di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Contro la decisione della Commissione, il richiedente aveva proposto appello: l’impugnazione era stata solo parzialmente accolta, in relazione al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, sulla base dell’indipendenza economica e personale acquisita e della conseguente integrazione sociale. Contro tale sentenza ha proposto ricorso il Ministero dell’Interno, a cui il richiedente ha reagito con controricorso. Il Ministero, con l’unico motivo di ricorso, lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 co. 2 d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25 e dell’art. 5 co. 6 d.lgs. 25 luglio 2998, n. 286 (TU immigrazione) là dove il giudice d’appello ha fondato il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base del fatto che il richiedente avesse ottenuto un lavoro, dimostrando il proprio inserimento nel contesto sociale. In altri termini, ad avviso del Ministero ricorrente, le mera integrazione sociale non può ritenersi idonea a integrare i seri motivi umanitari necessari per ottenere il permesso di soggiorno in esame.
Nel frattempo, però, era entrato in vigore il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113 (c.d. Decreto Salvini), convertito con l. 1° dicembre 2018, n. 132, che ha inciso sulla disciplina della protezione umanitaria. Per decidere il ricorso, quindi, risultava preliminare la soluzione della questione inerente alla permanente configurabilità, dopo il decreto Salvini, del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
All’esito dell’udienza fissata per il giudizio di Cassazione, il collegio, dopo aver sollecitato il contraddittorio, ha ravvisato motivi di disaccordo rispetto all’orientamento espresso dalla stessa sezione in tema di: a) limiti temporali di applicazione del d.l. n. 113/2018; b) presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Pertanto, è stata demandata al Primo Presidente la decisione di rimettere la questione alle Sezioni Unite. La questione è stata decisa dalle Sezioni Unite con la sentenza in commento.
3. Uno sguardo al quadro normativo. Prima dell’intervento del decreto Salvini, erano previste tre forme di tutela nei confronti dello straniero: il riconoscimento dello status di rifugiato, la c.d. protezione sussidiaria e la c.d. protezione umanitaria, oltre ad altre ipotesi specifiche di permesso di soggiorno riconducibili a ragioni di carattere umanitario[1].
Lo status di rifugiato – la forma di protezione più forte – viene riconosciuto ai sensi della Convezione di Ginevra del 28 luglio del 1951, ratificata in Italia con la l. 24 luglio 1954, n. 722 e modificata dal Protocollo di New York del 31 gennaio 1967, ratificato con l. 14 febbraio 1970, n. 95. Sempre a livello sovranazionale la nozione di rifugiato è contenuta nella direttiva n. 2011/95/UE[2], trasposta in Italia con il d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 18 e ruota attorno al concetto di fondato timore di persecuzione individuale per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le opinioni politiche.
La medesima direttiva, inoltre, ha introdotto, in ambito europeo, la c.d. protezione sussidiaria – riconducibile, insieme allo status di rifugiato, al concetto di protezione internazionale[3] –, in grado di fornire tutela anche in presenza di situazioni che non rientrano nella nozione convenzionale di rifugiato. Anche la protezione sussidiaria è disciplinata dal d.lgs. n. 251/2007, in particolare dagli artt. 14-18 ss.
La disciplina interna prevedeva, inoltre, la c.d. protezione umanitaria, su cui ha inciso il decreto Salvini, abrogando le relative disposizioni. Il riferimento è all’art. 5 co. 6, d.lgs. n. 286/98 e all’art. 32 co. 3, d.lgs. n. 25/08. La prima norma vietava il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno quando ricorressero “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”. La seconda, invece, prevedeva che la commissione territoriale per il riconoscimento protezione internazionale, il caso di mancato accoglimento della richiesta di protezione internazionale, in presenza di gravi motivi di carattere umanitario, trasmettesse gli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno ai sensi del già citato art. 5 co. 6 d.lgs. n. 286/98.
L’intervento del legislatore del 2018 è animato dall’esigenza, esplicitata nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del d.l. n. 113/18[4], di arginare l’interpretazione estensiva dell’istituto della protezione umanitaria “in contrasto con il fine di tutela temporanea di esigenze di carattere umanitario per il quale l’istituto è stato introdotto nell’ordinamento”[5].
In funzione di questo obiettivo, sono state introdotte specifiche ipotesi di titolo di soggiorno[6], in luogo del più generico riferimento ai “seri motivi di carattere umanitario”, contenuto nell’art. 5 co. 6, d.lgs. n. 286/98, abrogato dal d.l. n. 113/18. Ad oggi, dunque, non è più previsto l’istituto generale della protezione umanitaria, sostituito da ipotesi specifiche di permesso di soggiorno riconducibili a esigenze umanitarie.
A chiusura del sistema, il decreto Salvini ha introdotto una nuova forma di protezione: la c.d. protezione speciale. L’art. 32 co. 3 d.lgs n. 25/08 prevede, in particolare, che, le commissioni territoriali trasmettano gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno annuale, qualora non accolgano la domanda di protezione internazionale, ma sussistano i presupposti di cui all’art. 19 co. 1 e 1.1 d.lgs. n. 286/1998. Si tratta delle disposizioni che vietano l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione (art. 19 co. 1) ovvero qualora esistano fondati motivi di ritenere che esso rischi di essere sottoposto a tortura (art. 19 co. 1.1). La protezione speciale, dunque, si applica quando non sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria. L’art. 32 co. 3 d.lgs n. 25/08, così configurata, funge da norma di chiusura, che da rilievo al diritto di non essere allontanati ed è espressione del divieto di refoulement.
La protezione umanitaria – oggi non più in vigore – e la nuova protezione speciale hanno anche diversa disciplina. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari aveva durata di due anni e poteva essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro; la protezione speciale invece, ha durata di un anno e non consente la conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
4. L’entrata in vigore della nuova disciplina pone questioni di diritto intertemporale. Il decreto Salvini contiene alcune disposizioni transitorie, che, tuttavia, non consentono di risolvere tutte le ipotesi emerse nella prassi, tra cui quella attinente al caso oggetto della sentenza delle Sezioni Unite.
In particolare, è disciplinata la sorte dei permessi di soggiorno per motivi umanitari già rilasciati al momento dell’entrata in vigore del decreto Salvini. L’art. 1 co. 8 dispone, infatti, che essi restano validi e continuano a essere regolati secondo la disciplina previgente, salva la possibilità di essere convertiti, alla scadenza, in altre tipologie di permesso. Non potranno, invece, essere rinnovati: qualora ne sussistano i presupposti, potrà essere rilasciato il permesso per protezione speciale.
La sorte dei casi rispetto ai quali, al momento dell’entrata in vigore, siano in corso procedimenti in cui le commissioni territoriali abbiano già ritenuto sussistenti i gravi motivi di carattere umanitario è, invece, la seguente: dovrà essere rilasciato un permesso di soggiorno recante la dicitura “casi speciali”. Alla scadenza, si applicano le disposizioni che regolano le protezioni umanitarie già riconosciute (art. 1 co. 9 d.l. n. 113/18).
Non è oggetto di disciplina transitoria, invece, il caso in cui il permesso per motivi umanitari sia stato negato dalla commissione territoriale e, successivamente, riconosciuto dal giudice, prima dell’entrata in vigore del decreto Salvini. È proprio questa situazione ad essere oggetto della sentenza delle Sezioni Unite. Peraltro, è utile evidenziare – anche per la rilevanza pratica della questione – che identico problema si pone nell’ipotesi – anch’essa non regolata espressamente – in cui la domanda sia stata presentata prima dell’entrata in vigore del decreto Salvini, ma venga esaminata dalla Commissione territoriale dopo tale momento.
5. Gli orientamenti giurisprudenziali emersi sulla questione in esame sono i seguenti.
5.1. Dopo l’entrata in vigore del decreto Salvini, si era formato, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, un orientamento consolidato[7], secondo il quale la nuova disciplina non trova applicazione in relazione a domande già presentate, prima della sua entrata in vigore, in ragione del principio di irretroattività di cui all’art. 11 prel., come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità[8].
A fondamento di questa posizione, vi è, anzitutto, la qualificazione del problema come questione di diritto intertemporale, come tale, rientrante nell’ambito di applicazione del principio di irretroattività enunciato dall’art. 11 prel., secondo il quale “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Tale principio non può essere derogato – ad avviso di tale orientamento – di fronte a un mutamento del fatto generatore del diritto azionato o delle sue conseguenze giuridiche, dovuto a una disciplina sopravvenuta. Infatti, il diritto dello straniero di ottenere il permesso di soggiorno fondato su seri motivi umanitari sorge per effetto del verificarsi delle condizioni di vulnerabilità e si cristallizza con la proposizione della domanda.
Tale soluzione interpretativa – ad avviso della giurisprudenza consolidata – si mostrerebbe coerente anche con il principio di ragionevolezza e con le esigenze di tutela del legittimo affidamento. Sarebbe, infatti, irragionevole che venissero trattate diversamente situazioni giuridiche sostanziali simili – perché caratterizzate dalla sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari e dalla presentazione della domanda – in ragione della circostanza, del tutto eventuale, che la commissione territoriale abbia deliberato favorevolmente prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina.
Tanto premesso – secondo la citata giurisprudenza – nonostante il diritto sia già sorto, la fase della sua attuazione dovrà essere disciplinata dalla normativa sopravvenuta. Ciò significa che, in caso di domanda anteriore all’entrata in vigore del decreto Salvini, il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie dovrà essere rilasciato valutando i presupposti sulla base della legge precedente, ma sarà disciplinato, quanto alla durata e ad altri aspetti, dall’art. 1 co. 9, d.l. 113/18, unica disciplina applicabile al momento dell’accertamento giudiziale del diritto. Pertanto, dovrebbe essere rilasciato un permesso di soggiorno “per casi speciali” della durata di due anni, convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, alla cui scadenza si applicherà la disciplina prevista dall’art. 1 co. 8, d.l. 113/18 per l’ipotesi di permessi di soggiorno già rilasciati.
5.2. Con l’ordinanza interlocutoria[9], invece, la Cassazione ritiene di non condividere l’orientamento appena esposto.
In primo luogo, la Corte contesta la premessa su cui si basa l’intero percorso argomentativo sottoposto a critica. L’applicazione del decreto Salvini a domande già proposte non sarebbe il risultato di una sua applicazione retroattiva: si tratterebbe, al contrario, della normale applicazione delle norme vigenti, in base agli artt. 73 Cost. e 10 Prel. La conclusione, inoltre, sarebbe supportata dal fatto che le novità normative sono state introdotte con lo strumento del decreto legge, che per definizione deve contenere “misure di immediata applicazione”[10].
L’ordinanza interlocutoria, poi, evidenzia come il ragionamento fatto proprio dall’orientamento prevalente si dimostri intrinsecamente contraddittorio: infatti, da un lato, si esclude l’applicazione del diritto sopravvenuto ai giudizi in corso, ma, dall’altro, se ne afferma l’applicabilità sotto il profilo del nome e della durata del permesso di soggiorno da rilasciare. In tal modo si finirebbe con il creare una norma transitoria nuova, non prevista dal decreto.
6. Rispetto alla questione di diritto intertemporale ora esposta, le Sezioni Unite aderiscono all’orientamento consolidato, respingendo le argomentazioni avanzate nell’ordinanza interlocutoria: il decreto Salvini non è applicabile retroattivamente alle domande già presentate al momento della sua entrata in vigore.
Preliminarmente, le Sezioni Unite prendono posizione sulla natura del problema: ritengono, in particolare, che la questione sottoposta alla loro attenzione concerna l’applicazione retroattiva della disciplina sopravvenuta. In altri termini, non è pertinente il richiamo, da parte dell’ordinanza interlocutoria, degli artt. 73 Cost. e 10 prel. per sostenere che la nuova normativa sia vigente e, di conseguenza, applicabile. Il problema è un altro: è chiaro – afferma la Corte – che la nuova normativa, in quanto vigente, sia immediatamente applicabile, ma ciò non toglie che, in presenza di una abrogazione, possa continuare a trovare applicazione la norma abrogata, in relazione al passato e cioè rispetto ai fatti verificatisi prima dell’abrogazione. Ciò di cui si discute, quindi, non è l’immediata applicabilità della nuova norma, ma è la sua eventuale applicazione retroattiva.
Pertanto, viene in rilievo il principio di irretroattività, che nella materia in esame, al contrario di quanto avviene per la materia penale, non ha copertura costituzionale, ma trova la sua fonte nell’art. 11 prel.: la legge non si applica retroattivamente, salvo deroghe. Il principio – evidenzia la Corte – “è volto a tutelare non già fatti, bensì diritti”. In altri termini, il principio di irretroattività impedisce la modifica della rilevanza giuridica di fatti già verificatisi compiutamente (nel caso di fattispecie istantanea) o di una fattispecie che non si è ancora esaurita (in caso di fattispecie di durata non ancora completa al momento dell’abrogazione). La retroattività, pertanto, non si esaurisce nell’immediata applicabilità di una nuova normativa vigente, ma permette di regolare diversamente fatti già avvenuti, sotto la vigenza di una legge diversa: essa postula non solo l’esistenza di una nuova norma entrata in vigore, ma anche l’estensione “a ritroso” della sua applicabilità. Così impostato il problema, è possibile affermare – ad avviso delle Sezioni Unite – che l’applicazione del decreto Salvini ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore implicherebbe la retroattività del decreto stesso.
Tanto premesso, le Sezioni Unite esaminano la questione della natura della protezione umanitaria, per sostenere l’irretroattività del decreto Salvini rispetto a domande già proposte: nell’ordinanza interlocutoria, infatti, la Corte aveva affermato che si trattasse di una “fattispecie complessa e a formazione progressiva”, dal momento che consiste in un permesso che postula il verificarsi di determinati presupposti nell’ambito di un apposito procedimento. Le Sezioni Unite non condivide questa affermazione: il procedimento non incide sull’insorgenza del diritto, ma si limita ad accertarne la sussistenza. In particolare, il diritto sorge nel momento in cui si verifica la situazione di vulnerabilità che integra la fattispecie astratta allora vigente ed è irrilevante – si legge nella sentenza – che esso non comporti il riconoscimento di uno status, ma di una protezione temporanea.
Tale conclusione, poi, non è intaccata – ad avviso della Corte – dal fatto che, ai sensi dell’art. 8 co. 3 d.lgs. n. 25/08, la domanda debba essere esaminata alla luce di “informazioni precise e aggiornate” rispetto alla situazione generale esistente nel Paese di origine. La norma riguarda, infatti, l’ampiezza dei poteri di accertamento, ma non vale a conferire carattere costitutivo a tale accertamento. Ciò significa che i presupposti di fatto per l’accoglimento della domanda devono sussistere al momento della decisione, ma, in virtù dell’irretroattività del decreto Salvini, è salvaguardato il diritto a che “la rilevanza giuridica di tali fatti risponda alle norme previgenti”.
La tesi in esame – ricordano le Sezioni Unite – trova conferma nella consolidata giurisprudenza di legittimità, la quale afferma che la situazione giuridica dello straniero nei confronti del quale sussistono i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria – analogamente alle altre forme di protezione[11] – ha natura di diritto soggettivo. L’attività dell’amministrazione è limitata all’accertamento dei presupposti di fatto sulla base dei quali deve essere concessa la protezione in parola: non vi è esercizio di discrezionalità amministrativa, ma solo tecnica, nell’ambito di un’attività che ha carattere vincolato. In particolare, la giurisprudenza[12] ha qualificato la posizione giuridica dello straniero come “diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantiti dagli artt. 2 Cost. e 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo”[13]. Un’ulteriore conferma di questa qualificazione viene individuata nel diritto dell’UE, che – seppure con riferimento allo status di rifugiato – qualifica il riconoscimento di tale posizione, come atto ricognitivo[14]. Sulla base di queste osservazioni, le Sezioni Unite concludono – in linea con la giurisprudenza di legittimità[15] – che tutti i tipi di protezione son ascrivibili all’area dei diritti fondamentali: non solo lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, ma anche la protezione umanitaria, avente carattere temporaneo e residuale.
Inoltre, tutte le tipologie di protezione, inclusa quella umanitaria, sono ritenute essere espressione del diritto di asilo garantito dalla Costituzione. Sul punto, inoltre, le Sezioni Unite mostrano di non condividere le osservazioni svolte nell’ordinanza interlocutoria, nella parte in cui vengono valorizzati gli spazi di discrezionalità lasciata al legislatore dall’art. 10 Cost., che prevede il diritto di asilo “secondo le condizioni stabilite dalla legge”: il diritto di asilo, sebbene fondamentale – evidenzia l’ordinanza –, è suscettibile di regolazione da parte del legislatore, mediante il bilanciamento con gli altri valori in gioco[16]. Le Sezioni Unite, al contrario, rilevano come il diritto di asilo scaturisca direttamente dal precetto costituzionale e si inserisca nell’ambito della ampia apertura della Costituzione verso i diritti fondamentali. In particolare, il diritto di asilo deve essere qualificato come diritto della personalità posto a tutela di interessi essenziali della persona e “non può recedere al cospetto dello straniero bisognoso di aiuto, che allegando motivi umanitari, invochi il diritto di solidarietà sociale”[17]. Ciò che può essere definito per legge – e quindi l’ambito di discrezionalità che la Costituzione riconosce al legislatore – riguarda l’accertamento del diritto e l’individuazione delle modalità per il suo esercizio.
In un simile “contesto di rilevanza costituzionale”, ad avviso delle Sezioni Unite, “sarebbe ben difficile prospettare la retroattività delle disposizione abrogatrici dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286/98”, la norma che prevedeva la protezione umanitaria.
Una volta affermata l’irretroattività delle disposizioni del decreto Salvini che hanno abrogato la protezione umanitaria, la Corte effettua alcune precisazioni sulla rilevanza del momento della presentazione della domanda. Il diritto di asilo nasce quando il richiedente fa ingresso nel nostro Paese in condizioni di vulnerabilità, ma è con la presentazione della domanda che si identifica il regime normativo della protezione per ragioni umanitarie da applicare: con tale atto, infatti, il soggetto esprime il bisogno di tutela e tale bisogno viene incanalato nella sequenza procedimentale prevista dalla legge per il rilascio del permesso di soggiorno[18].
La sentenza in commento, poi, esamina le critiche mosse dall’ordinanza interlocutoria rispetto al possibile attrito della tesi dell’irretroattività con il principio di uguaglianza. In particolare, la prima sezione aveva evidenziato come tale principio risulterebbe violato per via della differenziazione normativa tra coloro che abbiano presentato la domanda entro l’entrata in vigore della nuova legge e coloro che non lo abbiano fatto, ma si trovino nelle medesime condizioni[19]. Ad avviso delle Sezioni Unite, spetta al legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità e nei limiti del rispetto del canone della ragionevolezza, delimitare la sfera di applicazione delle norme. La Corte ritiene ragionevole che l’applicazione di una norma sia ancorata al momento in cui il titolare della situazione soggettiva presenti la domanda, innestando il procedimento. Irragionevole, invece, risulterebbe – ad avviso delle Sezioni Unite – il differente trattamento – che deriverebbe, nel caso di specie, dall’applicazione del decreto Salvini a domande già proposte – di situazioni sostanziali già fatte valere con la presentazione della domanda, sulla base di fattori che sfuggono al controllo dei titolati del diritto.
Quanto al titolo di soggiorno da rilasciare in presenza dei presupposti per la protezione umanitaria e alla disciplina applicabile, le Sezioni Unite ritengono che il permesso debba rispondere a quanto previsto dall’art. 1 co. 9 d.l. n 113/18 per l’ipotesi in cui alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni la Commissione territoriale abbia già ritenuto sussistenti i gravi motivi di carattere umanitario. In altri termini, la disciplina transitoria in parola deve essere applicata in ogni casi in cui “l’accertamento sia comunque in itinere”, a prescindere, quindi, dal fatto che vi sia stato un accertamento meramente ricognitivo. La Corte giunge a questa conclusione valorizzando, anzitutto, la volontà del legislatore – desumibile dalle disposizioni transitorie – di conferire rilievo preminente alla sussistenza dei presupposti della protezione umanitaria – che giustifica la persistente validità dei permessi già rilasciati ex art. 1 co. 8 d.l. n 113/18 e la validità degli accertamenti già compiuti dalle Commissioni territoriali ex art. 1 co. 9 d.l. n 113/18. Le Sezioni Unite, poi, fanno leva sulla necessità di fornire una interpretazione costituzionalmente conforme della novella, che impone di ritenere che, a fronte della sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, “recessiva sia la circostanza che vi sia stato un accertamento, meramente ricognitivo”[20].
7. Risolta la questione preliminare di diritto intertemporale, nel senso della irretroattività del decreto Salvini rispetto alle domande già proposte, le Sezioni Unite affrontano il secondo profilo sottoposto alla loro attenzione: la possibilità di riconoscere il permesso di soggiorno per “seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” anche allo straniero che abbia conseguito uno stato di integrazione adeguato in Italia, in base a una valutazione comparativa con la situazione oggettiva e soggettiva del richiedente nel pase d’origine.
L’ordinanza interlocutoria[21] aveva sollevato alcune perplessità circa la possibilità di ancorare il rilascio del permesso di soggiorno in parola a questo tipo di valutazione[22], per via dell’assenza di un solido fondamento normativo, oltre che in ragione della vaghezza della valutazione comparativa richiesta. La prima sezione, inoltre, aveva prospettato il dubbio in ordine al rapporto tra le due protezioni maggiori di matrice unionale – lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria – e la protezione umanitaria, che potrebbe andare a sovrapporsi con le altre due.
Le Sezioni Unite forniscono soluzione al quesito proprio partendo dal diritto dell’Unione Europea. Come chiarito anche dalla Corte di giustizia, la direttiva n. 2011/95/UE non osta alla previsione, da parte degli Stati membri, di tipologie di protezione ulteriori rispetto a quelle rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva. Ciò a condizione che tale ulteriori forme di protezione abbiano caratteristiche che la distinguano chiaramente da quella concessa in forza della direttiva. La Corte esclude una la sovrapposizione tra le forme di protezione di matrice unionale e la protezione umanitaria[23].
Tanto premesso, quanto ai presupposti utili a ottenere la protezione umanitaria, le Sezioni Unite richiama la necessità di “collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano”. In quest’ottica, occorre evitare che gli interessi protetti rimangano “ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali”[24]. Pertanto, le Sezioni Unite condividono l’orientamento che riconosce rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado di integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione oggettiva e soggettiva del richiedente nel paese di origine, allo scopo di vagliare se il rimpatrio possa comportare “la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”. La verifica necessaria per il riconoscimento della protezione umanitaria – precisano le Sezioni Unite – da un lato, non può basarsi, astrattamente e isolatamente, del livello di integrazione dello straniero in Italia e, dall’altro, deve esse incentrata sulla situazione particolare del soggetto interessato e non limitata a considerazioni inerenti al contesto di “generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertati in relaziona paese di provenienza”.
In applicazione di questo principio, le Sezioni Unite accolgono il ricorso del Ministero, dal momento che la decisione del giudice di appello si fondava solamente sull’integrazione dello straniero derivante dalla recente assunzione da un datore di lavoro italiano, e non sulla prescritta valutazione comparativa.
[1] Si tratta, ad esempio di quelli riguardanti: a) le vittime di violenza domestica, di cui all’art. 18-bis d.lgs. n. 286/98; b) le vittime di sfruttamento lavorativo, previsto dall’art. 22 co. 12-quater d.lgs. n. 286/98; c) minori, di cui agli artt. 28 lett. a e b, d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 e 31 d.lgs. n. 286/98.
[2] La direttiva n. 2011/95/UE rivede e sostituisce la direttiva 2004/83/CE, recepita con il d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251.
[3] V. rt. 2 lett. a) direttiva 2011/95/UE.
[4] V. la Relazione al disegno di legge di conversione del d.l. 113/18, in XVIII legislatura, Disegni di legge e relazioni, Disegno di legge n. 840, Relazione, p. 3.
[5] V. Relazione, cit., p. 3.
[6] Si tratta del permesso di soggiorno per calamità naturale (art. 20-bis d.lgs. n. 286/98); del permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile (art. 42-bis d.lgs. n. 286/98); del permesso di soggiorno per cure mediche (art. 19 co. 2 lett. d-bis d.lgs. n. 286/98).
[7] Cass. civ., 4 febbraio 2019, n. 4890; Cass. civ., 2 aprile 2019, n. 9090; Cass. civ., 5 aprile 2019, n. 9650; Cass. civ., 10 aprile 2019, n. 10107; Cass. civ., 18 aprile 2019, n. 10922; Cass. civ., 2 maggio 2019, nn. 11558, 11559, 11560; Cass. civ., 3 maggio 2019, n. 11593; Cass. civ., 8 maggio 2019, n. 12182; Cass. civ., 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13082; Cass. civ., 20 maggio 2019, nn. 13558, 13560, 13561; Cass. civ., 22 maggio 2019, nn. 13883 e 13884; Cass. civ., 24 maggio 2019, n. 14278; Cass. civ., 19 giugno 2019, nn. 16457, 16460, 16461, 16462, 16463 e 16464; Cass civ., 27 giugno 2019, nn. 17306, 17308, 17310 e 17311; Cass. civ., 5 luglio 2019, nn. 18208, 18211, 18212, 18213 e 18214.
[8] V. tra le altre, Cass. civ., 14 febbraio 2017, n. 3845: “il principio dell'irretroattività, fissato dall'art. 11 prel., comporta che la norma sopravvenuta sia inapplicabile, oltre che ai rapporti giuridici già esauriti, anche a quelli ancora in vita alla data della sua entrata in vigore, ove tale applicazione si traduca nel disconoscimento di effetti già verificatisi ad opera del pregresso fatto generatore del rapporto, ovvero in una modifica della disciplina giuridica del fatto stesso”.
[9] Cass. civ., ord. 2 maggio 2019, n. 11749.
[10] Art. 5 co. 3 l. 23 agosto 1988, n. 400.
[11] Sullo status di rifugiato, in giurisprudenza, tra le altre, v. Cass. Sez. Un., sent. 17 dicembre 1999, n. 907: "la qualifica di rifugiato politico ai sensi della convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951 costituisce, come quella di avente diritto all’asilo (dalla quale si distingue perché richiede quale fattore determinante un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito non richiesto dall’art. 10, comma 3, cost.), una figura giuridica riconducibile alla categoria degli "status" e dei diritti soggettivi, con la conseguenza che tutti i provvedimenti assunti dai competenti organi in materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva […]”.
[12] Cass. civ., Sez. Un., 29 gennaio 2019, n. 2441; Cass. civ., Sez. Un., 19 dicembre 2018, nn. 32778, 32777, 32776, 32775 e 32774; Cass. civ., Sez. Un., 28 novembre 2018, nn. 30758 e 30757; Cass. civ., Sez. Un., 27 novembre 2018, n. 30658.
[13] Sezioni unite p. 12.
[14] V. Direttiva n. 2011/95/UE, considerando 21, nonché Direttiva n. 2004/83/CE, considerando 14 e, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, C. giust., Grande sezione, 14 maggio 2019, C-391/16, C-77/17.
[15] Cass. civ., Sez. Un., 12 dicembre 2018, n. 32177, Cass. civ., Sez. Un., 11 dicembre 2018, n. 32044 e n. 32045; Cass. civ., Sez. Un., 27 novembre 2018, 30658.
[16] Cass. civ., ord. 11749/2019, cit., p. 29 ss.
[17] Cass. civ., Sez. Un., 24 settembre 2019, n. 29459, p. 14.
[18] Confermano tale conclusione, ad avviso delle Sezioni Unite, alcune disposizioni di carattere procedurale. In particolare, il riferimento è all’art. 2 d.P.R. 12 gennaio 2015, n. 21, laddove prevede che lo straniero che manifesta, alla frontiera, la volontà di chiedere la protezione internazionale, deve essere invitato formalmente a presentarsi presso l’ufficio competente della questura per formalizzare la domanda al più presto e comunque non oltre otto giorni lavorativi, con l’avviso che qualora non vi si rechi nei termini prescritti è considerato a tutti gli effetti di legge irregolarmente presente nel territorio nazionale.
[19] Cass. civ., ord. 11749/2019, cit., p. 15 ss.
[20] Cass., Sez. Un., n. 29459/19, cit., p. 19.
[21] Cass. civ., ord. 11749/2019, cit., p. 32 ss.
[22] Sostenuta da Cass., Sez. I, 23 febbraio 2018, n. 4455.
[23] Cass., Sez. Un., n. 29459/19, cit., p. 20 ss.
[24] Nel senso di escludere rigide tipizzazioni, che mal si conciliano con la il carattere aperto e residuale della tutela, di recente, Cass., 15 maggio 2019, n. 13079.