Cass., Sez. un., 30 maggio 2019 (dep. 10 luglio 2019), n. 30475, Pres. Carcano, Est. Montagni, ric. Castignani
1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono state chiamate a pronunciarsi sulla controversa questione riguardante la liceità della commercializzazione al dettaglio della c.d. ‘cannabis light’[1]. Come è noto, infatti, un recente orientamento della Suprema Corte ha considerato legittima la messa in commercio al dettaglio dei derivati della canapa (inflorescenze e resina), provenienti dalle coltivazioni contemplate dalla legge n. 242/2016 e recanti un quantitativo di THC (tetraidrocannabinolo) inferiore alla soglia dello 0,6%. In senso contrario, un precedente filone giurisprudenziale aveva invece sostenuto la tesi della illegittimità della commercializzazione dei derivati della cannabis, sul presupposto che la legge n. 242/2016 disciplini esclusivamente la coltivazione della canapa per alcuni fini commerciali, menzionati all’art. 1, comma 3, tra i quali non rientra la commercializzazione dei prodotti derivati, costituiti principalmente dalle inflorescenze e dalla resina.
La legge n. 242/2016 – giova ricordarlo – è stata introdotta con l’intenzione di promuovere e diffondere, nel sistema produttivo italiano, l’uso della canapa (‘Cannabis sativa L.’), individuando molteplici settori in cui la stessa può essere impiegata. Per permettere ciò, la citata legge ha stabilito che particolari varietà di tale pianta – quelle iscritte nel Catalogo di cui all’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 – non rientrano nell’ambito di applicazione del T.U. delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti o sostanze psicotrope: sono pertanto sottratte alle relative sanzioni e possono essere coltivate liberamente, senza necessità di autorizzazione, a condizione che le varietà coltivate non superino lo 0,6% di THC (tetraidrocannabinolo)[2].
Il contrasto interpretativo oggetto della presente rimessione alle Sezioni Unite[3], come anticipato, non riguarda però la coltivazione, pacificamente consentita alle condizioni dette, bensì la commercializzazione al dettaglio delle sostanze derivanti da tale coltivazione lecita. La legge n. 242/2016, infatti, pur indicando le finalità per le quali la coltivazione è consentita, non disciplina il profilo della commercializzazione. Diverse sentenze di legittimità si sono chieste allora se possa essere considerata lecita la messa in commercio delle inflorescenze, della resina (e di altri derivati) ricavati dalla coltivazione della canapa di cui alla l. n. 242/2016, in particolare nel caso in cui questi siano commercializzati al dettaglio per fini connessi all’uso che l’acquirente riterrà di farne e che possono riguardare l’alimentazione (infusi, the, birre), la realizzazione di prodotti cosmetici e financo il fumo. A tale interrogativo sono state date risposte differenti. Da qui, dunque, il sorgere del menzionato contrasto interpretativo che è approdato alle Sezioni Unite con un quesito formulato nei termini che seguono: «se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'art. 1, comma 2, legge 2 dicembre 2016 n. 242 – e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L – rientrino o meno nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano pertanto penalmente irrilevanti, ai sensi di tale normativa».
2. Prima di addentrarci nell’analisi delle questioni giuridiche, occorre ricapitolare brevemente i fatti da cui ha preso avvio il presente procedimento, e il relativo iter. Il Tribunale del riesame di Ancona ha revocato, limitatamente ai reperti contenenti una percentuale di principio attivo (tetraidrocannabinolo) non superiore allo 0,6%, il sequestro preventivo disposto in precedenza dal G.i.p. del medesimo Tribunale, che aveva ad oggetto tredici chili di foglie ed inflorescenze di cannabis. Le foglie e le inflorescenze in questione erano state sequestrate presso un punto vendita di Ancona, dal momento che dagli accertamenti tossicologici condotti era emersa la presenza di principio attivo (tetraidrocannabinolo) superiore alla soglia dello 0,6%. La decisione del Tribunale – di revocare il sequestro del materiale rinvenuto avente principio attivo non superiore allo 0,6% – ha preso le mosse da un’interpretazione della l. n. 242 del 2016 secondo cui, solo a seguito del superamento del limite dello 0,6% di principio attivo è possibile procedere al sequestro ed alla distruzione della coltivazione e dunque anche del prodotto derivato. E ciò perché – in ossequio al primo dei due orientamenti soprarichiamati – è da considerare legittima la commercializzazione al dettaglio dei derivati della canapa, provenienti dalle coltivazioni lecite contemplate dalla legge n. 242/2016 e recanti un quantitativo di THC (tetraidrocannabinolo) inferiore alla soglia dello 0,6%.
Avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Ancora, lamentando che l’esclusione della punibilità prevista dalla legge n. 242 del 2016 è voluta unicamente nei confronti del coltivatore e non può essere estesa in favore del commerciante che detenga e ponga in vendita foglie e inflorescenze ottenute dalla pianta di canapa. La Quarta Sezione penale ha quindi rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, facendo notare che sulla questione relativa all’ambito di operatività della legge n. 242/2016 si è registrato, presso le Sezioni semplici, un contrasto giurisprudenziale e formulando il quesito di diritto sopra richiamato.
3. Nella sentenza qui annotata, le Sezioni Unite dedicano anzitutto ampio spazio ad una accurata ricostruzione del quadro normativo di riferimento. Secondo i giudici di legittimità, la disciplina introdotta dalla l. n. 242/2016 pone effettivamente il problema di coordinare le nuove disposizioni con quelle contenute nel Testo Unico in materia di sostanze stupefacenti (d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309). Al fine di questo coordinamento, vengono quindi richiamate per punti le parti del T.U. stupefacenti considerate rilevanti al fine della soluzione del quesito rimesso alle S.U. In particolare:
- il Testo Unico in esame è strutturato secondo il sistema tabellare, che assegna valenza legale alla nozione di sostanza stupefacente. Di conseguenza sono soggette alla normativa che vieta la produzione e la circolazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope solo quelle che risultano indicate nelle tabelle allegate al Testo Unico;
- l’art. 14, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 309/1990 – così come modificato dal d.l. n. 36 del 2014 – detta criteri per la formazione delle menzionate tabelle e stabilisce che nella tabella II sia indicata «la cannabis e i prodotti da essa ottenuti, senza effettuare distinzioni rispetto alle diverse varietà»;
- tale tabella II include in particolare, tra le sostanze vietate, «cannabis (foglie e inflorescenze), cannabis (olio), cannabis (resina)» nonché le preparazioni contenenti le predette sostanze, senza effettuare alcun riferimento alla percentuale di THC (tetraidrocannabinolo);
- l’art. 26, comma 1, d.P.R. n. 309/1990 – rubricato ‘Coltivazioni e produzioni vietate’ – stabilisce che è vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II di cui all’art. 14 del medesimo d.P.R. «ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli indicati dall’art. 27, consentiti dalla normativa dell’Unione Europea»;
- infine, l’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990 incrimina, tra le diverse condotte ivi elencate, la coltivazione di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella II dell’art. 14 sopracitato.
La normativa qui richiamata conduce le Sezioni Unite a rilevare che «la coltivazione della cannabis e la commercializzazione dei prodotti da essa ottenuti, quali foglie, inflorescenze, olio e resina, (..) in assenza di alcun valore soglia preventivamente individuato dal legislatore penale rispetto alla percentuale di THC, rientrano nell’ambito dell’art. 73, commi 1 e 4, D.P.R. n. 309/1990». Quale unica deroga alla rilevanza penale delle condotte che coinvolgono tali sostanze, il legislatore ha quindi espressamente previsto una sola ‘eccezione’ riguardante «la canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all’art. 27, consentiti dalla normativa dell’Unione Europea».
4. Nel contesto sopra descritto è intervenuta in seguito la legge 2 dicembre 2016, n. 242 (‘Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa’). Come detto, la legge n. 242/2016 è stata introdotta con l’intenzione di promuovere e diffondere, nel sistema produttivo italiano, l’uso della canapa, indicando molteplici settori in cui la stessa può essere impiegata. Per permettere ciò, la citata legge ha stabilito, all’art. 1, comma 2, che particolari varietà di tale pianta – quelle iscritte nel Catalogo di cui all’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 – non rientrano nell’ambito di applicazione del T.U. delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti o sostanze psicotrope. Per tale coltivazione la legge in esame stabilisce due diversi limiti di THC: i) da un lato è previsto che, per essere ammessi a godere degli aiuti economici europei corrisposti agli agricoltori in proporzione agli ettari utilizzati per l’attività agricola, le varietà di canapa coltivate non devono avere un tenore di tetraidrocannabinolo superiore allo 0,2%; ii) dall’altro lato, ed è questo il punto fondamentale, l’art. 4, comma 7 dispone che al di sotto dello 0,6% di THC la coltivazione della canapa deve ritenersi conforme alla legge[4].
La legge indica poi le finalità per le quali la coltivazione della canapa è consentita senza autorizzazione. L’art. 1, comma 3 afferma infatti che la coltura della canapa è finalizzata: a) alla coltivazione e alla trasformazione; b) all'incentivazione dell'impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali; c) allo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l'integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale; d) alla produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori; e) alla realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca.
L’art. 2, comma 2 dispone infine che dalla canapa coltivata è possibile ottenere: «a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori; b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; c) materiale destinato alla pratica del sovescio; d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; g) coltivazioni destinate al florovivaismo». Nessun riferimento viene fatto invece dalla legge al diverso profilo della commercializzazione dei beni qui menzionati, alla cui produzione può essere destinata la coltivazione della canapa.
5. In questo contesto normativo due sono i principali orientamenti giurisprudenziali che si sono sviluppati in seno alle Sezioni semplici, con riguardo alla commercializzazione dei derivati della cannabis. Un indirizzo maggioritario ha sostenuto che deve escludersi che la legge n. 242/2016 consenta la commercializzazione dei derivati di tale coltivazione. E ciò sulla base del presupposto che la nuova legge disciplini esclusivamente la coltivazione della canapa per alcuni fini commerciali, menzionati all’art. 1, comma 3 della suddetta normativa, e tra i quali non rientra la commercializzazione al dettaglio dei prodotti derivati dalle inflorescenze e dalla resina. Restano quindi soggetti al d.P.R. n. 309 del 1990, e possono costituire condotte penalmente rilevanti, la detenzione e la commercializzazione dei derivati costituiti da inflorescenze (marjuana) e da resina (hashish), come pure la coltivazione per fini diversi da quelli elencati dalle legge[5].
Un secondo orientamento, affacciatosi prima in sede di merito[6] e più recentemente presso la Sezione sesta, ha invece sostenuto che la liceità della commercializzazione dei prodotti della coltivazione della canapa – e in particolare delle inflorescenze – costituirebbe un corollario logico-giuridico del contenuto della legge n. 242/2016. In altre parole, «dalla liceità della coltivazione della cannabis alla stregua della legge n. 242/2016, deriverebbe la liceità dei suoi prodotti contenenti un principio attivo THD inferiore allo 0,6%, nel senso che non potrebbero più considerarsi (ai fini giuridici), sostanza stupefacente soggetta alla disciplina del d.P.R. 309/1990, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano tra quelle inserite nella tabelle del predetto d.P.R.» [7].
Affianco a questi due orientamenti principali si registra anche un terzo filone che prospetta una soluzione intermedia rispetto alle precedenti. In quest’ultimo filone si è infatti affermata la sostanziale liceità dei prodotti derivati dalla coltivazione di canapa consentita dalla l. n. 242/2016, purché gli stessi presentino una percentuale di THC non superiore allo 0,2 %. In tale decisione si muove dalla considerazione che l'art. 1, comma 2, l. n. 242 del 2016 si riferisce solo alle coltivazioni delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 direttiva 2002/53/CE del Consiglio. Le varietà di canapa iscritte in tale catalogo si caratterizzano per il basso dosaggio di principio attivo che non supera lo 0,2 %. E ciò perché, da un lato, tale limite è imposto da un regolamento europeo (Regolamento UE n. 1308/2013); dall’altro lato perché non superare il limite dello 0,2% di THC è condizione necessaria per il coltivatore per ottenere i sussidi stanziati dalla Unione. Secondo questo orientamento giurisprudenziale se la percentuale di THC presente nella canapa non è superiore allo 0,2%, ciò determina la liceità non solo della coltivazione stessa, ma – quale logico corollario – anche della commercializzazione dei prodotti da essa derivati[8].
6. Ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale, le Sezioni Unite procedono ora a chiarire il loro punto di vista. I giudici di legittimità si allineano al primo dei tre filoni sopracitati che – muovendo dalla considerazione che la legge n. 242/2016 ha previsto la liceità della sola coltivazione della cannabis per le finalità espresse e tassativamente indicate da tale legge – ha affermato che la messa in commercio dei derivati della predetta coltivazione, costituiti da inflorescenze (marjuana) e da resina (hashish), continua ad essere sottoposta alla disciplina del d.P.R. n. 309 del 1990.
Per giungere a tale conclusione la sentenza in commento osserva che il legislatore – disponendo, all’art. 1, comma 2 (l. n. 242/2016), che le coltivazioni di cui si tratta non rientrano nell'ambito di applicazione del Testo Unico stupefacenti – ha voluto chiarire che il campo di applicazione della citata legge del 2016 si colloca proprio nello spazio cui si riferisce l’eccezione di cui all’art. 26 del d.P.R. n. 309/1990 che, come ricordato poco sopra, vieta la coltivazione delle piante di canapa ad eccezione di quella coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali consentiti dalla normativa dell’Unione Europea. È proprio al fine di regolare ed incentivare quest’ultimo ambito produttivo, lecito, che è stata introdotta le citata legge del 2016, che quindi «riguarda un settore dell'attività agroalimentare ontologicamente estraneo all'ambito dei divieti stabiliti dal T.U. stupefacenti in tema di coltivazioni». Le coltivazioni di canapa finalizzate esclusivamente alla produzione di fibre o per altri usi industriali – e consentite anche dalla normativa europea – già in virtù della sola eccezione di cui all’art. 26 del d.P.R. n. 309/1990 sono quindi considerate attività non attinte dal generale divieto di coltivazione del T.U. stupefacenti. Si può quindi dire che l. n. 242/2106 è intervenuta a regolare una attività già in precedenza esclusa dal campo della rilevanza penale.
Secondo i giudici del Supremo collegio dette considerazioni inducono di conseguenza ad attribuire natura tassativa alle sette categorie di prodotti, elencate dal sopracitato art. 2, comma 2 l. n. 242/2016, che possono essere ottenuti dalla coltivazione agroindustriale della cannabis. E ciò perché «si tratta di prodotti che derivano da una coltivazione che risulta consentita solo in via d’eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato». A conclusione di questo ragionamento, le Sezioni Unite abbracciano allora l’orientamento giurisprudenziale più restrittivo. Muovendo dalla considerazione che la legge n. 242/2016 ha previsto la liceità della sola coltivazione della cannabis per le finalità tassativamente indicate, se ne deduce che la commercializzazione dei derivati di tale coltivazione, principalmente inflorescenze (marjuana) e resina (hashish), continua ad essere sottoposta alla disciplina del d.P.R. n. 309 del 1990, perché tali prodotti non sono ricompresi nel richiamato elenco di cui all’art. 2, comma 2 legge n. 242/2016.
A sostegno di tale posizione le Sezioni Unite aggiungono inoltre che non assume alcuna rilevanza, al fine di escludere la illiceità della condotta, il mancato superamento delle percentuali di THC di cui all’art. 4, commi 5 e 7, l. n. 242/2016, valorizzato dalle precedenti sentenze delle Sezioni semplici. Tali valori infatti riguardano esclusivamente il contenuto di principio attivo consentito presente nella coltivazione, e non nei derivati. La commercializzazione dei derivati della coltivazione della cannabis, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra allora il reato di cui all’art. 73 T.U. stupefacenti, indipendentemente dal basso contenuto di THC ivi presente.
7. Anche in questo contesto tuttavia non si può evitare di tenere conto del principio di concreta offensività delle condotte. A questo proposito la decisione in esame richiama in senso adesivo un precedente pronunciamento delle stesse Sezioni Unite[9] che, con riguardo alla questione della coltivazione domestica di cannabis, ha sancito che è indispensabile che il giudice di merito verifichi la concreta offensività della condotta facendo riferimento, non tanto alla percentuale di principio attivo, quanto alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante[10]. Anche nel caso della commercializzazione di derivati della cannabis (inflorescenze, resina ecc.) che provengono dalla coltivazione, lecita, di cui alla l. n. 242/2016, e che quindi si caratterizzano per un basso contenuto di THC, perché possa dirsi integrato il reato di cui all’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, bisognerà sempre valutare la concreta offensività delle singole condotte. Ovvero il giudice del merito sarà tenuto a verificare la reale efficacia drogante della sostanza, cioè l’idoneità di essa a produrre sul suo consumatore effetti psicotropi.
8. A conclusione di tutto quanto finora affermato le Sezioni Unite pronunciano il seguente principio di diritto, che riportiamo testualmente di seguito: «La commercializzazione al pubblico di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell'ambito di applicabilità della l. n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati, sicchè la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui al d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dalla l. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività».
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9. Difficile azzardare in questo breve contributo un giudizio su una questione così complessa e che ha dato luogo, presso le Sezioni semplici, ad orientamenti radicalmente differenti e dagli esiti applicativi opposti. Per quel che ci consente un primo approfondimento della questione, ci pare tuttavia di poter concordare con l’esito a cui è pervenuta la sentenza in esame. Decisiva ci sembra quell’argomentazione – già proposta dal giudice della Sezione quarta nell’ordinanza di rimessione – secondo cui non è in alcun modo ammissibile la tesi, sostenuta dall’opposto orientamento, che ritiene che la messa in commercio di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve, in assenza di specifici divieti di legge, ritenersi consentita, alla luce del generale potere di ogni individuo di agire per il soddisfacimento dei propri interessi[11]. L’idea che l’ordinamento consideri le norme incriminatrici come tassative eccezioni rispetto alla generale libertà di azione di ogni soggetto non può essere ritenuto valido in una materia come quella degli stupefacenti, nella quale il d.P.R. n. 309/1990 pone, in via generale, il principio di illiceità delle condotte di detenzione per la vendita, cessione e commercializzazione delle sostanze stupefacenti incluse nelle tabelle ivi allegate. In questo contesto, secondo l’ordinanza, esiste quindi un divieto che ha carattere generale, tanto che i rapporti fra il d.P.R. n. 309 del 1990 e la legge n. 242 del 2016 appaiono ricostruibili in termini di regola-eccezione. Nello stabilire quale sia l’ambito applicativo della l. 242/2016, la si dovrà considerare derogatoria di un principio generale e dunque insuscettibile di applicazioni analogiche[12]. Siamo allora d’accordo sul fatto che, non essendo espressamente menzionata tra le attività lecite, la commercializzazione al dettaglio dei derivati della cannabis dovrà allora ritenersi penalmente rilevante, secondo il dettato del Testo Unico stupefacenti.
Fa propendere per questa conclusione anche l’accostarsi al testo legislativo del 2016 con una interpretazione che tenga conto della ratio dell’intervento normativo. Dalla lettura dei lavori preparatori non emerge infatti in alcun modo la volontà del legislatore di consentire la commercializzazione della marijuana e dell’hashish provenienti dalle coltivazioni lecite, e tale legge appare subito avere le caratteristiche di una normativa di settore, indirizzata esclusivamente al sostegno e allo sviluppo del comparto industriale della canapa.
Si può certo condividere la preoccupazione di chi in dottrina ha sottolineato che l’adozione, da parte delle Sezioni Unite, dell’orientamento più restrittivo costringerà alla chiusura di centinaia di esercizi commerciali in tutto il Paese e a limitare l’iniziativa economica di tali esercenti, sacrificandola sull’altare di una normativa ambigua, lacunosa e di difficile comprensione da parte della stessa giurisprudenza[13]. Cionondimeno, a noi pare che un tale esito si possa scongiurare esclusivamente attraverso un intervento legislativo, che manifesti una chiara volontà politica della maggioranza parlamentare di modificare il Testo Unico stupefacenti, nella direzione di legalizzare la messa in commercio dei derivati della cannabis che presentino un basso livello di principio attivo THC.
[1] Per un primo commento a questa decisione si veda M. Gambardella, La legge n. 242 del 2016 e la liceità della commercializzazione dei prodotti ottenuti dalla coltivazione di cannabis sativa L. Per le Sezioni Unite la sostanza ceduta deve avere una reale efficacia drogante, in Cass. pen., 2019, fasc. 10, pag. 3581 ss.; C.A. Zaino, G. Bulleri, Osservazioni a prima lettura sulla sentenza delle Sezioni Unite sulla rilevanza penale della commercializzazione di prodotti derivati dalla Cannabis Sativa light, in Giurisprudenza penale, 14 luglio 2019.
[2] Per una utile chiarificazione dei termini cannabis, marijuana, hashish e una ricostruzione storica dello sviluppo della coltivazione e dell’industria della lavorazione della canapa nel nostro Paese si veda L. Miazzi, La coltivazione della canapa e reato? Una storia infinita tra canapa e marijuana, in Dir. pen. cont., fasc. 3/2018, p. 105 ss.
[3] Cfr. l’ordinanza di rimessione Cass., Sez. IV, ord. 8 febbraio 2019 (dep. 27 febbraio 2019), n. 8654, Castignani, in Dir. pen. cont., con nota di M.C. Ubiali, Alle Sezioni Unite la questione della liceità della commercializzazione al dettaglio della “cannabis light”, 7 marzo 2019.
[4] Cfr. art. 4, comma 7, l. n. 242/2016: «Il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla presente legge possono essere disposti dall’autorità giudiziaria solo qualora, a seguito di un accertamento effettuato secondo il metodo di cui al comma 3, risulti che il contenuto di THC nella coltivazione è superiore allo 0,6 per cento. Nel caso di cui al presente comma è esclusa la responsabilità dell'agricoltore».
[5] Cfr. Cass., Sez. IV, 19 settembre 2018, n. 57703, Durali; Cass., Sez. VI, 27 novembre 2018, n. 56737, Ricci; Cass., Sez. IV, 13 giugno 2018, n. 34332, Durante.
[6] Trib. Ancona, Sez. riesame, 27 luglio 2018, Rel. Sbano, in www.giustiziainsieme.it; Trib. Rieti, Sez. riesame, 26 luglio 2018; Trib. Macerata, Sez. riesame, 11 luglio 2018; Trib. Asti, Sez. riesame, 4 luglio 2018.
[7] Cass., Sez. VI, 29 novembre 2018 (dep. 31 gennaio 2019), n. 4920, Castignani, in Dir. pen. cont., con nota di M.C. Ubiali, La Cassazione considera lecita la commercializzazione al dettaglio della c.d. cannabis light, 11 febbraio 2019.
[8] Cfr. Cass., Sez. III, 7 dicembre 2018, n. 10809, Totaro.
[9] Cfr. Cass., Sez. Un., 24 aprile 2008 (dep. 10 luglio 2008), n. 28605, Di Salvia. Sull’applicazione giurisprudenziale, non univoca, del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite del 2008 si veda C. Bray, Coltivazione di marijuana e (in)offensività della condotta nella recente giurisprudenza di legittimità: necessità di fare chiarezza, in Dir. pen. cont., 23 maggio 2016.
[10] Anche la Corte costituzionale, nella sentenza n. 109 del 2016, chiamata ad occuparsi della legittimità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, si è espressa a favore della validità del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, operante anche sul piano concreto, nel momento in cui il giudice proceda alla verifica della rilevanza penale di una determinata condotta. Per un commento a questa decisione cfr. L. Romano, Non viola la Costituzione la fattispecie incriminatrice della coltivazione di cannabis per uso personale (rectius: la disposizione del t.u. stup. che non vi riconnette una rilevanza meramente amministrativa), in Dir. pen. cont., 30 maggio 2016.
[11] Cfr. Cass., Sez. IV, ord. 8 febbraio 2019 (dep. 27 febbraio 2019), n. 8654, cit., par. 3.
[12] Ibidem.