Corte EDU, Sez. V, 16 febbraio 2023, Ochigava c. Georgia
1. La recente sentenza della Corte europea, con la quale la Georgia è stata condannata per le torture realizzate nei confronti di un detenuto, offre l’occasione per riflettere sulla situazione italiana e sulla recente proposta di legge volta ad abrogare il delitto di tortura introdotto nel 2017 nell’ordinamento italiano, dopo un dibattito trentennale, che è stato accompagnato dalle pesanti condanne pronunciate dalla Corte di Strasburgo nei confronti dell’Italia per i fatti del G8 di Genova del 2001[1].
2. Innanzitutto, vale la pena di ricostruire i fatti che hanno portato alla condanna della Georgia per violazione dell’art. 3 della Convenzione: tra giugno 2011 e gennaio 2014 lo staff penitenziario ha realizzato numerosi atti di violenza nei confronti del sig. Ochigava, detenuto presso l’istituto penitenziario di Gldani, a Tbilisi. Attraverso le dichiarazioni del ricorrente, che hanno trovato riscontro anche nelle immagini pubblicate dai media georgiani, la Corte ricostruisce le violenze sistematiche realizzate nel carcere di Gldani: la pratica di “routine” di picchiare i detenuti al loro ingresso, il frequente e arbitrario ricorso all’isolamento in spazi totalmente inadeguati (per i dettagli, v. § 13 della sentenza), le restrizioni nei colloqui con i familiari, il mancato accesso a un’adeguata alimentazione e il divieto di potersi recare in bagno, se collocato al di fuori delle celle. Vi sono poi episodi di violenza più dettagliati, riferiti dal ricorrente con grande precisione: particolarmente gravi sono stati due di questi, verificatisi nel novembre 2011 quando, in seguito a un pestaggio, il detenuto ha momentaneamente perso la capacità di camminare per una lesione spinale. Mentre era ricoverato presso l’infermeria del carcere, è stata avviata un’indagine interna e un investigatore del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria gli ha suggerito di affermare che le sue lesioni erano state causate da una caduta dal letto. Davanti al rifiuto del ricorrente di firmare tale dichiarazione, sono intervenuti degli agenti che lo hanno colpito sulle mani con una mazza da baseball, rompendogli la maggior parte delle dita e costringendolo a firmare.
3. Dell’art. 3 Cedu viene riscontrata innanzitutto una violazione procedurale, in relazione all’obbligo per lo Stato di attivare delle indagini efficaci, in grado di condurre all’identificazione e alla punizione dei soggetti responsabili[2]. Nel caso in esame è stato riscontrato un lungo periodo, durato anni, di inspiegabile inattività, perché è solo a partire dal 2016 che risulta esser stata svolta una attività investigativa effettiva. L’agire delle autorità nazionali è risultato pertanto in aperto contrasto con l’ormai ben consolidata giurisprudenza della Corte europea, secondo la quale l’esistenza di periodi di irragionevole inattività e la mancanza di diligenza nello svolgimento del procedimento rendono inefficace l’indagine a prescindere dal suo risultato finale[3]. È inoltre mancato un chiarimento rispetto ad alcuni episodi denunciati dal ricorrente e al ruolo svolto dagli agenti più alti in grado, che pure avevano partecipato alle violenze. Anche un tale approccio, irragionevolmente selettivo, da parte delle autorità inquirenti contrasta con gli obblighi procedurali dello Stato convenuto: affinché un’indagine sia ritenuta efficace, le sue conclusioni devono sempre basarsi su un’analisi approfondita, obiettiva e imparziale di tutti gli elementi rilevanti.
4. Per questi motivi, nonostante si sia pervenuti alla condanna di sette agenti penitenziari, l’esito del procedimento penale, essendo il risultato di un’indagine incompleta e inefficace, non poteva essere considerato una forma di risarcimento sufficiente per il ricorrente[4]. Ciò tanto più in ragione del mancato riconoscimento del risarcimento dei danni in sede civile: il tribunale nazionale, infatti, ha giudicato infondato il ricorso del sig. Ochigava, sostenendo che non vi fossero prove in grado di collegare causalmente il peggioramento del suo stato di salute alle condotte illecite subite durante la detenzione. Nella prospettiva della giurisprudenza europea questa conclusione non è appagante perché, al contrario, a partire dagli anni ’90 si è stabilito che quando si tratta di soggetti in vinculis[5] opera un’inversione dell’onere della prova, essendo dovere delle autorità proteggerli per la loro condizione di vulnerabilità. Di conseguenza, qualora un individuo risulti in buone condizioni di salute nel momento in cui viene preso in custodia e poi, al momento del rilascio, queste risultano compromesse, lo Stato convenuto deve essere in grado di fornire una spiegazione alternativa o una ragione giustificatrice del peggioramento intervenuto.
5. Per la Corte è poi evidente la violazione sostanziale dell’art. 3 Cedu, sulla base delle conclusioni cui sono pervenuti i tribunali nazionali e non contestate neanche dallo stesso governo georgiano. La Corte ritiene che vi sia stato un «abuso sistemico e sistematico ai danni dei detenuti, con la finalità di instillare paura nei ristretti per ottenere la loro completa sottomissione e quindi il controllo della prigione» (§ 61 della sentenza). Pur in assenza di una definizione univoca e cristallizzata di ciò che si considera “tortura”, ne vengono rilevati i tratti distintivi nel caso di specie: la particolare gravità della condotta e lo scopo specifico di punire e intimidire. Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte europea, al quale questa sentenza si conforma, qualsiasi ricorso alla forza fisica, che non sia strettamente imposto dalla condotta della persona detenuta, lede la dignità umana e costituisce una violazione dell’art. 3 Cedu[6]. La responsabilità di queste violenze è d’altra parte chiaramente riconducibile allo Stato, ogniqualvolta esse – come in questo caso - sono realizzate dalle autorità penitenziarie.
6. La gestione dell’uso della forza all’interno degli istituti penitenziari costituisce anche in Italia un problema, che si intreccia con le modalità di conduzione e di controllo degli istituti stessi e delle persone che vi sono recluse[7]. Un problema sul quale ha richiamato l’attenzione anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) nel suo ultimo rapporto dedicato alla situazione italiana[8]: dopo aver effettuato una visita, tra marzo e aprile del 2022, presso le Case Circondariali di Milano-San Vittore, Lo Russo Cotugno di Torino, Regina Coeli di Roma e Monza, il Comitato ha riferito che in tutti gli istituti visitati ha ricevuto notizie di maltrattamenti, violenza e intimidazioni da parte del personale di Polizia penitenziaria, tanto da ritenere che il tema della violenza e degli abusi sulle persone ristrette deve essere affrontato con urgenza e in via prioritaria rispetto ad altre questioni.
7. Suscita perplessità, di conseguenza, la recente proposta di legge, presentata alla Camera dei deputati nel novembre 2022, che vorrebbe abrogare gli artt. 613-bis e 613-ter c.p., per sostituirli con la previsione di una nuova circostanza aggravante comune[9] da inserire nel n. 11-novies dell’art. 61 c.p. In base alla nuova circostanza, che ricalca pedissequamente l’art. 1 della Convenzione contro la tortura o altre pene o trattamenti inumani o degradanti (d’ora in avanti, CAT), il reato risulterebbe aggravato ogniqualvolta sia stato commesso «infliggendo a una persona dolore o sofferenze acuti, fisici o psichici, al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidire lei o una terza persona o di esercitare pressioni su di lei o su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito».
8. Obiettivo della proposta è quello di evitare «rischi di eccessiva penalizzazione del legittimo operato delle forze di polizia» e di «disincentivare e demotivare l’azione delle Forze dell’ordine, privando i soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro, con conseguente arretramento dell’attività di prevenzione e repressione dei reati e uno scoraggiamento generalizzato dell’iniziativa delle Forze dell’ordine». In particolare, si indica come comportamento delle forze dell’ordine che ingiustamente assumerebbe rilevanza penale come tortura ai sensi dell’art. 613-bis c.p. quello consistente in «un rigoroso uso della forza da parte della polizia durante un arresto o in operazioni di ordine pubblico particolarmente delicate o la collocazione di un detenuto in una cella sovraffollata». Questa critica, tuttavia, non tiene conto del fatto che ai sensi dell’art. 613-bis c.p. l’operato delle forze dell’ordine assume rilevanza penale solo se i fatti di tortura descritti nel primo comma sono commessi «con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio» e giammai, come chiarisce - sia pure in via pleonastica[10] - il comma 3 dello stesso articolo, quando le sofferenze inflitte dipendono «unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative dei diritti».
9. A ciò si aggiunga che, secondo i proponenti, la disposizione introdotta nel 2017 nel codice penale italiano non era indispensabile, essendo sufficiente la «batteria di norme repressive» (come gli artt. 582, 608, 609 e 610 c.p.) con le quali i fatti di tortura avrebbero potuto essere in qualche modo repressi (attraverso i c.d «frammenti di tortura sparsi nelle norme esistenti», secondo la felice espressione di Francesco Viganò[11]). Tale osservazione non si confronta però con la Convenzione europea dei diritti umani e con la corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Dalla lettura della sentenza Cestaro c. Italia del 2015 e delle successive pronunce relative ai fatti del G8 di Genova[12], emerge infatti come l’Italia sia stata condannata, per violazione degli obblighi procedurali derivanti dell’art. 3 Cedu, proprio in ragione della mancata previsione di una fattispecie incriminatrice ad hoc della tortura, in grado di sanzionarla in modo adeguato.
10. Un’ulteriore ragione per abrogare la disposizione vigente in tema di tortura sarebbe rappresentata dalle «notevoli difficoltà applicative» sollevate dalla sua attuale formulazione: l’art. 613-bis c.p., infatti, non solo avrebbe un ambito applicativo eccessivamente ampio includendo anche un reato comune, ma lascerebbe anche incerta la natura circostanziale o meno della c.d. tortura “pubblica”. A questo proposito è necessario ricordare come di recente la Corte di Cassazione, sia pure incidentalmente, abbia condiviso la tesi interpretativa secondo la quale la tortura realizzata da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio «costituisce un reato autonomo sia per la natura del soggetto attivo, sia per l’indipendenza del trattamento sanzionatorio»[13]. Una conferma, potrebbe dirsi, della necessità di ritenere esistente nel nostro ordinamento il reato di tortura per l’adempimento degli obblighi assunti sul piano internazionale[14] (oltre che per una opportuna funzione di orientamento culturale): la soluzione opposta (identica a quella che ora si popone) aprirebbe la strada al possibile bilanciamento di circostanze e quindi al rischio di risposte sanzionatorie del tutto inadeguate al disvalore dei fatti.
11. Benché l’entità della sanzione prevista dall’art. 613-bis c.p. sia considerata dai proponenti come del tutto sproporzionata, essa appare invece imposta dal dovere dello Stato di tutelare i diritti fondamentali delle persone, che consiste anche nel «prevedere sanzioni penali dotate effettivamente di potere dissuasivo e capaci di attivare indagini penali idonee a identificare e sanzionare i responsabili, al termine di un processo in cui lo Stato si faccia carico anche della sofferenza della vittima e dei suoi familiari, aiutandoli a rielaborare il trauma attraverso la solenne stigmatizzazione della condotta dei colpevoli»[15]. Occorre dunque verificare, prima di riformare una disciplina così delicata ed essenziale per la democrazia, a quale sanzione penale andrebbero incontro gravi torture, come quelle descritte nella sentenza della Corte europea nel caso Ochigava, se commesse dalle forze dell’ordine italiane nell’ambito di un mutato contesto normativo, quale quello descritto dalla proposta di legge in esame[16].
[1] Cfr. A. Colella, C'è un giudice a Strasburgo. In margine alle sentenze sui fatti della Diaz e di Bolzaneto: l'inadeguatezza del quadro normativo italiano in tema di repressione penale della tortura, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, p. 1801 ss.
[2] Per i principi generali sul rispetto degli obblighi procedurali derivanti dall’art. 3 Cedu, cfr. Corte EDU, Grande Camera, 28 settembre 2015, Bouyd c. Belgio.
[3] Cfr. Corte EDU, Sez. V, 18 luglio 2019, Vazagashvili e Shanava c. Georgia.
[4] Cfr. Corte EDU, Grande Camera, 1° giugno 2010, Gäfgen c. Germania.
[5] Cfr. EDU, 27 agosto 1992, Tomasi c. Francia; Corte EDU, Grande Camera, 28 luglio 1999, Selmouni c. Francia.
[6] Cfr. Corte EDU, Sez. I, 27 maggio 2010, Artyomov c. Russia.
[7] Sulla gestione dell’uso della forza nelle carceri, soprattutto in relazione alle rivolte di marzo 2020, si veda L. Romano, La settimana Santa, Napoli, 2021.
[8] Cfr. CPT, Report to the Italian Government on the periodic visit to Italy carried out by the European Committee for the Prevention of the Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, pubblicato nel marzo 2023, con le osservazioni del Governo italiano, sul sito www. rm.coe.int. Nello stesso senso le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, che ci ricorda che «attualmente in Italia ci sono oltre 200 persone tra agenti, operatori e funzionari indagati, imputati o condannati per violenze e torture»: cfr. Carceri. Antigone: il CPT sottolinea cose che ribadiamo da tempo. Il governo metta il carcere tra le priorità, in www.antigone.it (24 marzo 2023).
[9] Cfr. Proposta di legge AC 623, Vietri ed altri, contenente “Modifiche agli articoli 61 del codice penale e 191 del codice di procedura penale in materia di introduzione della circostanza aggravante comune della tortura”, presentata il 23 novembre 2022 e assegnata il 24 gennaio 2023 in sede Referente alla Commissione Giustizia.
[10] In questo senso, ad esempio, A. Colella, Commento all’art. 613-bis, in E. Dolcini-G.L. Gatta (a cura di), in Codice penale commentato, V ed., vol. III, 2021, p. 1978.
[11] Così F. Viganò, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la Camera dei Deputati. Parere reso nel corso dell’audizione svoltasi presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati il 24 settembre 2014, in www.penalecontemporaneo.it (25 settembre 2014).
[12] Successive alla sentenza del 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia, v. Corte EDU, Sez. I, 26 ottobre 2016, Azzolina e altri c. Italia; Corte EDU, Sez. I, 22 giugno 2017, Gallo, Bartesaghi e altri c. Italia; ampiamente sul punto v. A. Colella, Verso il nuovo delitto di tortura, in Libro dell’anno del Diritto, Treccani, 2016.
[13] Così Cass., Sez. III, 25 maggio 2021, n. 32380, in questa Rivista (12 aprile 2022), con nota di A. Colella, Pronunciandosi per la prima volta sul 613-bis c.p., la Cassazione aderisce alla tesi della c.d. tortura di Stato come fattispecie autonoma di reato.
[14] Nel senso che «una norma tesa a escludere o limitare l’ambito di applicazione dell’art. 613-bis c.p. si porrebbe (…) in contrasto da un lato con l’art. 13 co. 4, dall’altro con gli obblighi internazionali rilevanti ai sensi dell’art. 117 co. 1 Cost.», E. Scaroina, Il delitto di tortura. L’attualità di un crimine antico, Bari, 2018, p. 231.
[15] Si veda sul tema F. Viganò, L’arbitrio del non punire in Studi in onore di Mario Romano, vol. IV, Napoli, 2011.
[16] Differente è invece il caso di proposte di taglio diverso, sulle quali v. E. Scaroina, op. cit., 349 ss.