Cass., Sez. I, ord. 30 ottobre 2019 (dep. 13 novembre 2019), n. 45976, Pres. Di Tomassi, Rel. Santalucia, Ric. Vatiero
1. Con l’ordinanza in commento, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 30-ter co. 7 ord. pen. nella parte in cui, rimandando all’art. 30-bis co. 3 ord. pen., prevede un termine di 24 ore per proporre reclamo avverso la decisione del Magistrato di sorveglianza in tema di permessi premio.
Innanzitutto, il fatto. L’ordinanza trae origine dal ricorso per Cassazione presentato dal difensore del detenuto G. V., il quale, vedendosi rigettata la sua richiesta di permesso premio di un giorno, finalizzato a trascorrere qualche ora insieme ai suoi familiari, impugnava tale decisione dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Bologna. Il reclamo veniva, però, dichiarato inammissibile poiché tardivo: il provvedimento di rigetto era stato comunicato al detenuto alle ore 8,16 del 13 novembre 2018 ma il reclamo era stato presentato il giorno seguente alle ore 8,44, quindi oltre il termine di 24 ore previsto dall’art. 30-bis co. 3 ord. pen. Veniva, pertanto, denunciata l’illegittimità costituzionale di tale previsione.
La questione è stata ritenuta dalla Suprema Corte rilevante e non manifestamente infondata in relazione agli articoli 3, 24, 27 e 111 della Costituzione.
2. È bene sottolineare sin da subito che tale questione era già stata sottoposta all’attenzione della Corte Costituzionale nel 1996, con riferimento agli artt. 3, 25 e 27 Cost.
In quell’occasione, la Corte, pur riconoscendo che le argomentazioni del giudice a quo circa l’eccessiva brevità del termine non fossero prive di una certa plausibilità, dichiarò la questione inammissibile per l’impossibilità di rintracciare all’interno dell’ordinamento “una conclusione costituzionalmente obbligata”. Sebbene i tertia comparationis indicati dal giudice rimettente apparissero talmente disomogenei da non consentire un suo intervento, l’esigenza di modificare l’eccessiva brevità del termine era avvertita dalla stessa Consulta, che demandò al legislatore il compito di “provvedere, quanto più rapidamente, alla fissazione di un nuovo termine che contemperi la tutela del diritto di difesa con le esigenze di speditezza della procedura” [1].
Tale monito è rimasto, tuttavia, inascoltato per più di vent’anni, con l’inevitabile conseguenza che la Consulta è stata nuovamente investita della questione in termini sostanzialmente identici: il risultato che si vuole ottenere è, ora come allora, quello di sostituire il termine di 24 ore per impugnare il provvedimento relativo al permesso premio con un altro termine che appaia tanto ragionevole, quanto in grado di assicurare il percorso rieducativo del condannato e di garantire il suo diritto di difesa, nonché in linea con il modello di giusto processo costituzionale.
3. Ad avviso della Suprema Corte, la questione appare rilevante, poiché dall’eventuale dichiarazione di illegittimità potrebbe derivare l’annullamento del provvedimento che ha dichiarato l’inammissibilità del reclamo per tardività, che verrebbe conseguentemente esaminato nel merito, determinandosi con ciò una situazione di indubbio vantaggio per il ricorrente[2].
4. Per quanto riguarda, invece, la non manifesta infondatezza della questione, i giudici rimettenti prendono le mosse proprio dalle importanti affermazioni contenute nella sentenza n. 235 del 1996. Già in tale occasione, infatti, la Corte costituzionale non aveva mancato di rilevare che la previsione di un identico termine di reclamo in tema di permessi di necessità e di permessi premio, nominalmente simili ma strutturalmente eterogenei, fosse irragionevole, soprattutto alla luce del fatto che questi ultimi, a differenza dei permessi di necessità, fossero da ritenere “parte integrante del trattamento”, “incentivo alla collaborazione del detenuto con l’istituzione carceraria e strumento esso stesso di rieducazione”.
Alla luce di tali premesse, la Cassazione osserva come la previsione di un identico breve termine per proporre reclamo avverso i due diversi tipi di permessi si risolva in una violazione tanto del principio di uguaglianza-ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., poiché equipara situazioni diverse, quanto del principio di rieducazione del condannato, di cui all’art. 27 Cost., poiché ostacola un serio ed effettivo controllo sul provvedimento adottato dal Magistrato di sorveglianza relativo “ad uno strumento cruciale ai fini del trattamento”, in quanto consente al detenuto di sperimentare un’iniziale risocializzazione in ambito extramurario.
In relazione agli altri due parametri invocati, la Cassazione, sempre richiamandosi ai precedenti arresti della Corte costituzionale sul punto, osserva come il reclamo avverso i provvedimenti in materia di permessi premio costituisca un mezzo di impugnazione e, in quanto tale, debba essere corredato da specifici motivi. Tale caratteristica e la previsione di un termine di 24 ore avevano un’incidenza meno negativa sotto la vigenza del precedente codice di rito, il quale prevedeva una distinzione tra la dichiarazione della volontà di impugnare il provvedimento e la presentazione dei motivi a suo sostegno (i quali potevano essere presentati entro 20 giorni dalla comunicazione del provvedimento), consentendo così al detenuto un utile esercizio del diritto di reclamo (bastando che entro le 24 ore il detenuto dichiarasse di voler impugnare il provvedimento). Venuta meno la distinzione tra dichiarazione e proposizione dei motivi con l’introduzione del nuovo codice di rito e, a fortiori, dopo che la l. 103/2017 ha aggravato gli oneri di specificità dei motivi, il termine di 24 ore si rivela attualmente incapace di assicurare alla parte un tempo utile per predisporre la sua difesa, in violazione tanto dell’art. 24 Cost., quanto dell’art. 111 Cost., per lo squilibrio che si realizza tra parte pubblica e detenuto.
La Corte conclude, infine, facendo riferimento all’art. 35 bis ord. pen. e, in particolare, alla previsione di un termine di 15 giorni per proporre reclamo al Tribunale avverso la decisione del Magistrato di sorveglianza: secondo i giudici a quo, nel giudizio dinanzi la Corte costituzionale, la norma deve rappresentare “un ben preciso punto di riferimento idoneo, nella prospettiva di una pronuncia additiva, ad evitare un vuoto colmabile soltanto attraverso l’esercizio della discrezionalità legislativa”.
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5. Alcune brevi riflessioni, in attesa della pronuncia della Corte costituzionale.
Pur apparendo non scontato l’esito del giudizio, ci pare che sussistano delle differenze rilevanti rispetto al passato.
Come si è visto, la Consulta, con la sentenza n. 236 del 1996 – pur evidenziando l’irragionevolezza della disciplina e la conseguente frizione con i principi costituzionali – aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità allora sollevata, per mancanza di una “soluzione costituzionalmente obbligata”, auspicando al contempo un rapido intervento del legislatore sul punto, che in effetti fino ad ora non si è realizzato.
Oggi però la possibilità di un intervento della Corte costituzionale parrebbe più concreta, essendosi svincolata nella sua più recente giurisprudenza dalla prospettiva tradizionale, che, in ossequio ad una rigorosa lettura del principio di legalità, subordinava il suo intervento alla necessaria individuazione di un tertium comparationis e all’esistenza di una conclusione costituzionalmente obbligata.
Esempi di questo mutato atteggiamento sono i suoi più recenti arresti in materia di sindacato di proporzione sulle scelte sanzionatorie, laddove la Corte ha ritenuto che non fosse necessario individuare “un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis”, ben potendo ritenersi sufficiente a legittimare il suo giudizio l’esistenza di “precisi punti di riferimento” e “soluzioni già esistenti” all’interno dell’ordinamento, che siano immuni da vizi di legittimità e possano, pertanto, sostituirsi alla previsione dichiarata illegittima, al fine di porre immediato rimedio al vulnus rilevato, ferma restando la possibilità per il legislatore di intervenire nuovamente sulla normativa modificata dalla Corte[3].
Tanto premesso, a noi pare che, anche a voler prescindere dal richiamo all’art. 35-bis ord. pen., ai fini della valutazione di fondatezza della questione, assuma valore decisivo il principio di rieducazione del condannato di cui all’art. 27 co. 3 Cost.
Come di recente affermato dalla stessa Corte costituzionale, il lavoro all’esterno, i permessi-premio e la semilibertà rappresentano strumenti fondamentali in vista di un “progressivo reinserimento armonico della persona nella società”[4]. Pertanto, a nostro avviso, la previsione di un termine talmente esiguo, per consentire un controllo su uno strumento così importante nell’ambito dell’esecuzione della pena, risulta intrinsecamente in contrasto con il principio di progressività trattamentale, che discende direttamente dal canone costituzionale della finalità rieducativa della pena. Detto altrimenti, tale termine sacrifica irragionevolmente, in virtù di non ben identificate esigenze di celerità, la finalità di cura di interessi culturali, affettivi e di lavoro che la fruizione di un permesso premio mira a perseguire, in vista di un graduale e positivo reinserimento del detenuto all’interno della società.
Un vulnus altrettanto grave è quello apportato all’art. 24 Cost. Se la ratio tanto dell’art. 35-bis ord. pen. quanto del combinato disposto di cui agli art. 30-bis co. 3 e 30-ter co. 7 ord. pen., in attuazione delle garanzie costituzionali, è quella di consentire il controllo della magistratura di sorveglianza su misure che incidono sulla libertà e sui diritti dei detenuti, a noi pare evidente l’inadeguatezza di un termine di 24 ore per impugnare il provvedimento in materia di permesso premio. Soprattutto se si considera il fatto che il decreto con cui il magistrato di sorveglianza concede o nega il permesso premio viene emesso de plano, in assenza di formalità di procedura, e l’unica possibilità di recupero del contraddittorio sul merito della questione è affidata alla proposizione del reclamo al Tribunale di sorveglianza, il quale, però, se presentato oltre le 24 ore, risulta definitivamente precluso. Tale previsione comprime irrimediabilmente il diritto di difesa del condannato, il cui esercizio risulta già di per sé difficoltoso all’interno del contesto detentivo.
Quanto poi alla possibilità di individuare un “punto di riferimento” a cui ancorare la decisione sul nuovo termine per impugnare, occorre osservare che la Corte può ora misurarsi con un mutato ed evoluto contesto normativo. In particolare, sotto questo punto di vista, il giudice a quo ha individuato tra le soluzioni già esistenti che possono rappresentare un utile punto di riferimento l’art. 35-bis ord. pen., con il quale è stato introdotto nell’ordinamento il reclamo giurisdizionale per la tutela dei diritti dei detenuti avverso i provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria[5].
Com’è noto, tale norma è stata introdotta dal legislatore all’interno dell’ordinamento penitenziario nel 2013, sull’impulso delle pressanti sollecitazioni provenienti dalla Corte EDU [6], per porre rimedio alla prolungata assenza di un effettivo rimedio giurisdizionale di carattere generale, a tutela dei diritti dei detenuti. Come affermato dalla stessa Corte costituzionale nel 1999, quest’ultimo non poteva, infatti, essere identificato con il reclamo di cui all’art. 35 ord. pen., nel quale sono assenti i requisiti minimi della giurisdizione, né nel procedimento in materia di sorveglianza speciale previsto dall’art. 14-ter ord. pen. [7].
Come espressamente previsto dall’art. 35-bis ord. pen., il reclamo si svolge, con alcune varianti, secondo il procedimento di sorveglianza di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p.
A nostro avviso, tuttavia, un ulteriore punto di riferimento utile per l’individuazione di un nuovo termine di impugnazione avverso i provvedimenti in materia di permessi premio potrebbe essere rappresentato dall’art. 69-bis ord. pen., in materia di liberazione anticipata.
In base a tale disposizione, sulla richiesta di riduzione di pena il magistrato di sorveglianza decide in prima battuta de plano, in assenza di contradditorio, con un’ordinanza che può però essere poi impugnata con reclamo al Tribunale di sorveglianza nel termine di 10 giorni. Analogamente a quanto avviene in relazione ai permessi premio, il reclamo avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza è considerato un vero e proprio mezzo di impugnazione, la cui ammissibilità è subordinata alla presentazione di specifici motivi di doglianza e per la cui proposizione viene infatti previsto un più lungo termine[8].
A noi pare che, a ben vedere, la procedura di concessione e di reclamo in materia di permessi premio sia maggiormente assimilabile, in quanto a caratteristiche, a quella prevista dall’art. 69-bis ord. pen.[9].
Mentre, infatti, il 35-bis ord. pen. è uno strumento di reclamo giurisdizionale avverso un provvedimento dell’amministrazione penitenziaria, l’art. 69-bis è uno strumento di impugnazione avverso un provvedimento emesso de plano dal magistrato di sorveglianza, con il fine di assicurare il contradditorio, benché in un momento posticipato, esattamente come avviene per i permessi premio.
Può essere poi opportuno evidenziare che, dopo la sua introduzione ad opera della l. n. 277/2002 , il legislatore ha fatto ricorso a tale modello procedimentale in altri casi[10], sintomo del fatto che l’art. 69-bis ord. pen. rappresenti una disciplina di riferimento nei casi di procedimenti a contraddittorio posticipato.
Ciò potrebbe indurre la Corte a prendere in considerazione la procedura di cui all’art. 69-bis ord. pen. come “soluzione già esistente” e ad utilizzarla per individuare il termine da sostituire a quello di 24 ore.
Infine, un’ultima indicazione circa la necessità di un ripensamento di tale disciplina potrebbe trarsi dalla recente introduzione, ad opera del d.lgs n. 123/2018, di una procedura semplificata per l’accesso alle misure alternative dall’esterno, in presenza di determinati presupposti[11]: l’art. 678 co. 1-ter c.p.p. prevede sempre una prima fase dinanzi al magistrato di sorveglianza che si svolge in assenza di contraddittorio (non diversamente dalla richiesta di permesso premio), che viene poi recuperato con la possibilità di proporre opposizione al Tribunale di sorveglianza nel termine di 10 giorni.
Da osservarsi peraltro che, in tal caso, l’opposizione non è un vero e proprio mezzo di impugnazione ma rappresenta un semplice atto di impulso processuale che si risolve in una richiesta di devoluzione della questione al collegio. Ciò che si vuole in questa sede sottolineare è la scelta legislativa di assegnare un termine più lungo, di 10 giorni, (contro le 24 ore previste dal 30 ter per impugnare la decisione del magistrato di sorveglianza sulla richiesta di permesso premio) pur trattandosi di un semplice atto di opposizione la cui ammissibilità non è subordinata alla presentazione di specifici motivi (a differenza di ciò che accade con il reclamo avverso i provvedimenti in materia di permessi premio).
In conclusione, non resta che osservare che, a causa dell’inerzia del legislatore – sollecitato ad intervenire sul punto sin dal 1996 – l’attuale previsione di un termine di 24 ore equivale, nei fatti, a negare l’accesso del detenuto ad un controllo giurisdizionale, determinando un vuoto di tutela con cui la Corte è chiamata, per la seconda volta, a misurarsi.
L’auspicio, allora, è che la Corte possa proseguire nell’opera, da tempo intrapresa, “di diffusione delle garanzie giurisdizionali entro le istituzioni preposte all’esecuzione delle misure restrittive della libertà personale”[12].
[1] C. Cost. sent. 4 luglio 1996, n. 235.
[2] Inoltre, in punto di rilevanza, la Corte osserva che, proprio in applicazione della norma della cui costituzionalità si dubita, il reclamo è stato correttamente dichiarato inammissibile: infatti, secondo il disposto dell’art. 172 c.p.p., il termine di 24 ore, pur calcolato a partire dalle ore 9,16 del 13 novembre 2018, è scaduto alle ore 8,16 del giorno successivo;
[3] C. Cost, 10 novembre 2016, n. 236, con nota di F. Viganò, Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2/2017, p. 61 ss.; C. Cost, 25 settembre 2018 n. 222, con nota di A. Galluccio, La sentenza della Consulta su pene fisse e rime obbligate: costituzionalmente illegittime le pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta, in Dir. pen. cont., 10 dicembre 2018; R. Bartoli, La Corte costituzionale al bivio tra “rime obbligate” e discrezionalità? Prospettabile una terza via, in Dir. pen. cont., 18 febbraio 2019.
[4] C. Cost., sent. 21 giugno 2018, n. 149, con commento di E. Dolcini, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), in Dir. pen. cont., 18 luglio 2018;
[5] Nell’ordinanza di rimessione che ha dato luogo alla sentenza n. 235/1996 venivano indicati, quali tertia comparationis, l’art. 585 c.p.p. (che prevede un termine non inferiore a 15 giorni per impugnare i provvedimenti) e l’art. 14-ter ord. pen. (che prevede un termine di 10 giorni per i reclami avverso i provvedimenti concernenti il regime di sorveglianza particolare): a parere della Corte, si tratta di “istituti di ben diversa complessità e perseguenti finalità non assimilabili a quelle perseguite con i provvedimenti riguardanti la concessione o il diniego dei permessi premio”.
[6] In ordine di tempo, Corte EDU, sent. 15 novembre 1996, Diana e Dominichini c. Italia; Corte EDU, sent. 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia; Corte EDU, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia;
[7] C. Cost., sent. 18 febbraio 1999, n. 26;
[8] F. Della Casa, Art. 69-bis ord.pen., in Ordinamento penitenziario commentato, F. Della Casa (a cura di), Cedam, 2019, pag. 953;
[9] Tanto il 69-bis quanto l’art. 30-bis, infatti, prevedono una prima fase del giudizio che si svolge in assenza di contraddittorio e l’ammissibilità del reclamo, in entrambi i casi, è subordinato alla presentazione di specifici motivi di doglianza;
[10] Richiamano la procedura di cui all’art 69-bis ord. pen. l’art. 2 co.2 legge n. 207/2003 (che disciplina la sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di 2 anni) e l’art.1 co.5 legge n.199/2010 (che riguarda l’istanza diretta ad ottenere la detenzione domiciliare per pene detentive di durata non superiore ai 18 mesi).
[11] Si deve trattare di un’istanza presentata ab externo a seguito di sospensione dell’ordine di esecuzione e tale istanza deve essere riferibile ad una pena detentiva da espiare non superiore ad un anno e sei mesi. Si veda, sul punto, M. Ruaro, Art. 678 c.p.p., in Ordinamento penitenziario commentato, F. Della Casa (a cura di), Cedam, 2019, pag. 1017 ss;
[12] C. Cost, sent. 11 febbraio 1999, n. 26.